Sto aggiustando la
traduzione di una poesia d'amore dell'uruaguagio Mario Benedetti, che
voglio "postare" nel blog che alimento e si intitola
Bienvenida (Benvenuta). C'è un passaggio che fa "sonrìe
y rabia y canta como pueblo": "Rabiar" vuol
dire "arrabbiarsi, infuriarsi, sbraitare, protestare ecc".
Cercherò la traduzione più opportuna, ma voglio qui comunicare un
pensiero laterale, una riflessione amara.
Nel nostro povero paese
il popolo continua ad urlare di rabbia, ma non canta e non sorride.
Sì è incupito ed incattivito e perciò non sa più né cantare né
sorridere. Piuttosto, spinto ad odiare, odia. Odia i migranti, gli
stranieri, per esempio, e spesso aggiunge all'odio il pregiudizio di
razza. Odia, spesso ancora di più, i politici, i sindacalisti, gli
intellettuali di sinistra, nella sua rappresentazione tutta gente che
ha la vita comoda tra agi, viaggi ed amori, e niente sa della fatica
e della guerra quotidiana del guadagnare. Alla base di quest'odio c'è
la disperazione, nel senso proprio della mancanza di speranza, la
convinzione che in pochi ce la fanno ("uno su mille" dice
la canzone). Tutto il contrario dei tempi in cui molti popolani
pensavano che "il popolo unito non sarà mai vinto" e che
sulla forza dei popolani che facevano massa fondavano la speranza di
un avvenire migliore per se stessi e per tutti gli altri.
Questa mi pare, almeno
qui da noi, la situazione. C'è chi la riconduce allo sviluppo per
certi aspetti mostruoso di un capitalismo che ha saputo spezzare
solidarietà, cancellare diritti e tutele, chi la attribuisce agli
imprenditori dell'odio che, soprattutto in politica, lo alimentano
per ricavarne potere e ricchezza, chi la fa risalire alle doppiezze e
ai cedimenti dei politici e dei sindacalisti del socialismo, agli
apparati delle sinistre popolari, i cui esponenti nell'opinione di
tantissimi popolani avrebbero strappato per se agi e privilegi senza
per nulla curarsi delle sofferenze dei ceti più deboli trascinati
nella dipendenza e nell'incertezza, lasciati senza speranza.
Non credo che a questo
punto conti granché stabilire quale di questi processi sia stato più
decisivo. Certo mi pare che dei popoli che odiano e che si odiano non
portano bene a sè stessi e a tutti gli altri. Le loro urla senza
canti e sorrisi sanno di barbarie, di regressione.
Chi di ciò è
consapevole, se non è impedito dalla sferza del bisogno, potrebbe e
secondo me dovrebbe operare come gli apostoli del socialismo
ottocentesco: non dedicarsi alla politica o al sindacalismo come una
carriera, ma lavorare a rendere consapevoli gruppi sempre più ampi
del popolo lavoratore, sfruttato e privato di strumenti di conoscenza
e di potere. In tutti i modi possibile, dal doposcuola alla
costruzione di battaglie sociali sui temi del lavoro, della salute,
del sapere, dell'assistenza, dell'ambiente, del territorio ecc:
campagne universali per diritti universali come fu al tempo quella
delle otto ore e contro sciagure universali concrete o potenziali,
mutamenti climatici, disastri ambientali, guerre, corse al riarmo
ecc; e anche lotte locali di città, territori, gruppi anche piccoli.
Bisogna riconquistare e far riconquistare la coscienza che "uniti
siamo forti", che ci sono ottime ragioni per sperare, lottando
con rabbia certo, ma anche cantando e sorridendo. Il sole del
socialismo o della socialità o comunque lo si voglia chiamare, può
continuare a rischiarare l'avvenire, che resta luminoso, nonostante
tutte le tortuosità del cammino, nonostante le sconfitte e gli
arretramenti del popolo lavoratore.
stato fb 7 agosto 2019
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