Non si griderà, spero,
al sacrilegio se, qui provocato sul tema Leopardi, mi vedo costretto
ad ammettere che la sua poesia resta per me un territorio ancora da
conquistare; ne ho Infatti finora subita, più che goduta, la
grandezza, nel senso che nell'apprezzarne gli intimi tesori troppo mi
condizionano ancora le mitologie della scuola e delle troppe
esaltazioni per sentito dire. Conquistare un poeta significa, per me,
ripercorrere idealmente insieme a lui il sentiero «astuto e triste»
(cito da un verso di Fortini che egli avrà seguito per giungere a
quei miracolo che e ogni vera lingua poetica; naturalezza per via
d'artificio.
La dicitura del Leopardi
poeta (per tacere del filosofo morale) mi si presenta tuttora come un
compito assai arduo, tale da intimidirmi (e questo affermo proprio
adesso, in un momento che mi trova abbastanza fervidamente impegnato
nella rilettura di Dante), sicché vorrei limitarmi a riferire sui
due momenti a proposito dei quali mi capita, spiegando, di ricorrere
ad esempi desunti dal grandissimo Giacomo: anzi, a voler essere
precisi, da un'unica sua poesia, che è L'Infinito.
Ciò accade 1) quando
tento di spiegare che cosa debba o possa intendersi per «lingua
poetica»; 2) quando tento di spiegare come una poesia deve essere
letta.
Nel primo caso tiro in
ballo il verso iniziale, ovviamente nell'orecchio di tutti; quel non
dimenticabile Sempre caro mi fu quest'ermo colle che è, come
ognun vede, costituito da undici sillabe, segnate da quattro accenti
forti, sulla terza, sesta, ottava e decima sillaba (e torse da un
quinto accento un po' meno torte sulla prima). Si direbbe comunemente
che trattasi di un endecasillabo, ma lo non lo chiamerò cosi perché
ho diversi dubbi sulla validità della pigra nomenclatura
tradizionale. Propongo a questo punto di variare l'ordine delle
parole del verso, senza che ne sia peraltro alterato il senso logico
e con modesti cambiamenti nello schema ritmico, così da ottenere una
serie di varianti che qui scriveremo:
- Caro mi fu quest'ermo colle sempre
- Mi fu quest'ermo colle sempre caro
- Quest'ermo colle sempre mi fu caro
- Quest'ermo colle caro mi lu sempre
- Caro mi fu sempre quest'ermo colle
- Mi fu sempre quest'ermo colle caro
- Mi fu quest'ermo colle sempre caro
- Caro sempre mi fu quest'ermo colle
- Caro quest'ermo colle mi fu sempre
- Mi fu caro quest'ermo colle sempre
Eccetera. Ma, come al può
constatare, nessuna di queste varianti (benché ciascuna di esse dica
la stessa cosa) è lontanamente paragonabile alla suprema e
tranquilla e limpida perfezione del verso leopardiano; e ciò si
verifica appunto perché una poesia non vale tanto per quel che dice
quanto invece (e, aggiungerei, unicamente) per quel che è una
successione di suoni, quasi note musicali, in ordinato e rigido
rapporto tra loro, per cui ogni modifica nell'ambito di questa
particolare fase (il “suono”) della lingua poetica mette
in crisi anche il senso di tutto il resto (anche del semplice
che-cosa-vuol-dire). Naturalmente a questo nostro giudizio
contribuisce anche la nostra memoria di quello che resta il verso
scritto dal Poeta; ma oserei dire che anche questa «memoria»
finisce per diventare, a livello di lingua poetica, un fattore
dinamico di senso. Il secondo caso si riferisce al modo di recitare
(o leggere comunque ad alta voce) la poesia in generale. Oggi, forse
anche n seguito alle buone letture che alcuni poeti hanno dato del
loro versi, la situazione è leggermente migliorata; ma uno degli
errori più banali di molti attori (o anche non attori) che recitano
versi altrui, era ed è quello di leggere (se così si può dire)
secondo la sintassi e non secondo la prosodia, il verso.
L'infinito è un ottimo
esempio per dimostrare l'erroneità di una tale impostazione, poiché
in questa poesia di soli quindici versi, ben nove sono in
enjambement, ossia esauriscono la loro misura prosodica (cioè
finiscono) prima che sia compiuto il loro significato logico, per
esemplo, a quel verso 4, Ma sedendo e mirando interminati, iI
cattivo lettore non resiste alla tentazione di abolire la necessaria
e naturale pausa di fine-verso e corre subito ad appiccicare agli
interminati la parola spazi che appartiene con ogni evidenza al verso
che viene dopo. Perché? Hanno forse paura che gli ascoltatori più
semplici si scandalizzino o non capiscano? O sono invece proprio
loro, i cattivi lettori, a non capire che una delle fonti di senso
della lingua poetica sta proprio in questa divaricazione (di cui
l'enjambement non è che un modo) fra ordine sintattico e
ordine prosodico e che, nella fattispecie, il lettore che alla parola
interminati faccia seguire un ragionevole tempo d'attesa prima di
passare con la parola spazi al verso successivo rende alla poesia il
giusto servizio, come un bravo esecutore potrebbe renderlo a un petto
di musica.
Un cattivo o mediocre
lettore non offende soltanto la poesia, ma anche (quando sia vivo e
presente) il poeta; e non dimenticheremo a tal proposito l'aneddoto,
forse inventato ma certamente significativo, di Dante che, udendo un
fabbro ferraio fiorentino declamare sguaiatamente una sua (di Dante)
poesia, entrò nella bottega dello sbigottito artigiano e, senza dire
ai né bai, cominciò a buttare di qua e di là e anche sulla strada
gli attrezzi del suo lavoro. A chi gli buttava all'aria i versi, egli
buttava all'aria i ferri del mestiere.
Per ritornare a
L'Infinito aggiungerei che è forse proprio la frequenza del
suoi enjambements (oltre a diversi altri elementi) che
contribuisce a conferire a questa perfetta poesia la sua
straordinaria scioltezza e insieme la sua costante tensione; per cui
più che esser detta dalla voce del recitante la poesia finisce essa
stessa per dire la voce, da oggetto, diventando soggetto, da patiens
imponendosi come agens. La sua prosodia, in apparenza
semplicissima, è come il pezzo d'opera nell'eseguire il quale anche
il più bravo cantante rischia la stecca; quegli enjambements
sembrano inventati apposta per costringere la voce del lettore a
rifarsi il fiato (e la sua mente a riflettere, a interrogarsi.
"l'Unità” 19 luglio
1986
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