20.7.19

“La straordinaria scioltezza e la costante tensione”. Giovanni Giudici legge “l'Infinito” leopardiano




Non si griderà, spero, al sacrilegio se, qui provocato sul tema Leopardi, mi vedo costretto ad ammettere che la sua poesia resta per me un territorio ancora da conquistare; ne ho Infatti finora subita, più che goduta, la grandezza, nel senso che nell'apprezzarne gli intimi tesori troppo mi condizionano ancora le mitologie della scuola e delle troppe esaltazioni per sentito dire. Conquistare un poeta significa, per me, ripercorrere idealmente insieme a lui il sentiero «astuto e triste» (cito da un verso di Fortini che egli avrà seguito per giungere a quei miracolo che e ogni vera lingua poetica; naturalezza per via d'artificio.
La dicitura del Leopardi poeta (per tacere del filosofo morale) mi si presenta tuttora come un compito assai arduo, tale da intimidirmi (e questo affermo proprio adesso, in un momento che mi trova abbastanza fervidamente impegnato nella rilettura di Dante), sicché vorrei limitarmi a riferire sui due momenti a proposito dei quali mi capita, spiegando, di ricorrere ad esempi desunti dal grandissimo Giacomo: anzi, a voler essere precisi, da un'unica sua poesia, che è L'Infinito.
Ciò accade 1) quando tento di spiegare che cosa debba o possa intendersi per «lingua poetica»; 2) quando tento di spiegare come una poesia deve essere letta.
Nel primo caso tiro in ballo il verso iniziale, ovviamente nell'orecchio di tutti; quel non dimenticabile Sempre caro mi fu quest'ermo colle che è, come ognun vede, costituito da undici sillabe, segnate da quattro accenti forti, sulla terza, sesta, ottava e decima sillaba (e torse da un quinto accento un po' meno torte sulla prima). Si direbbe comunemente che trattasi di un endecasillabo, ma lo non lo chiamerò cosi perché ho diversi dubbi sulla validità della pigra nomenclatura tradizionale. Propongo a questo punto di variare l'ordine delle parole del verso, senza che ne sia peraltro alterato il senso logico e con modesti cambiamenti nello schema ritmico, così da ottenere una serie di varianti che qui scriveremo:
  1. Caro mi fu quest'ermo colle sempre
  2. Mi fu quest'ermo colle sempre caro
  3. Quest'ermo colle sempre mi fu caro
  4. Quest'ermo colle caro mi lu sempre
  5. Caro mi fu sempre quest'ermo colle
  6. Mi fu sempre quest'ermo colle caro
  7. Mi fu quest'ermo colle sempre caro
  8. Caro sempre mi fu quest'ermo colle
  9. Caro quest'ermo colle mi fu sempre
  10. Mi fu caro quest'ermo colle sempre
Eccetera. Ma, come al può constatare, nessuna di queste varianti (benché ciascuna di esse dica la stessa cosa) è lontanamente paragonabile alla suprema e tranquilla e limpida perfezione del verso leopardiano; e ciò si verifica appunto perché una poesia non vale tanto per quel che dice quanto invece (e, aggiungerei, unicamente) per quel che è una successione di suoni, quasi note musicali, in ordinato e rigido rapporto tra loro, per cui ogni modifica nell'ambito di questa particolare fase (il “suono”) della lingua poetica mette in crisi anche il senso di tutto il resto (anche del semplice che-cosa-vuol-dire). Naturalmente a questo nostro giudizio contribuisce anche la nostra memoria di quello che resta il verso scritto dal Poeta; ma oserei dire che anche questa «memoria» finisce per diventare, a livello di lingua poetica, un fattore dinamico di senso. Il secondo caso si riferisce al modo di recitare (o leggere comunque ad alta voce) la poesia in generale. Oggi, forse anche n seguito alle buone letture che alcuni poeti hanno dato del loro versi, la situazione è leggermente migliorata; ma uno degli errori più banali di molti attori (o anche non attori) che recitano versi altrui, era ed è quello di leggere (se così si può dire) secondo la sintassi e non secondo la prosodia, il verso.
L'infinito è un ottimo esempio per dimostrare l'erroneità di una tale impostazione, poiché in questa poesia di soli quindici versi, ben nove sono in enjambement, ossia esauriscono la loro misura prosodica (cioè finiscono) prima che sia compiuto il loro significato logico, per esemplo, a quel verso 4, Ma sedendo e mirando interminati, iI cattivo lettore non resiste alla tentazione di abolire la necessaria e naturale pausa di fine-verso e corre subito ad appiccicare agli interminati la parola spazi che appartiene con ogni evidenza al verso che viene dopo. Perché? Hanno forse paura che gli ascoltatori più semplici si scandalizzino o non capiscano? O sono invece proprio loro, i cattivi lettori, a non capire che una delle fonti di senso della lingua poetica sta proprio in questa divaricazione (di cui l'enjambement non è che un modo) fra ordine sintattico e ordine prosodico e che, nella fattispecie, il lettore che alla parola interminati faccia seguire un ragionevole tempo d'attesa prima di passare con la parola spazi al verso successivo rende alla poesia il giusto servizio, come un bravo esecutore potrebbe renderlo a un petto di musica.
Un cattivo o mediocre lettore non offende soltanto la poesia, ma anche (quando sia vivo e presente) il poeta; e non dimenticheremo a tal proposito l'aneddoto, forse inventato ma certamente significativo, di Dante che, udendo un fabbro ferraio fiorentino declamare sguaiatamente una sua (di Dante) poesia, entrò nella bottega dello sbigottito artigiano e, senza dire ai né bai, cominciò a buttare di qua e di là e anche sulla strada gli attrezzi del suo lavoro. A chi gli buttava all'aria i versi, egli buttava all'aria i ferri del mestiere.
Per ritornare a L'Infinito aggiungerei che è forse proprio la frequenza del suoi enjambements (oltre a diversi altri elementi) che contribuisce a conferire a questa perfetta poesia la sua straordinaria scioltezza e insieme la sua costante tensione; per cui più che esser detta dalla voce del recitante la poesia finisce essa stessa per dire la voce, da oggetto, diventando soggetto, da patiens imponendosi come agens. La sua prosodia, in apparenza semplicissima, è come il pezzo d'opera nell'eseguire il quale anche il più bravo cantante rischia la stecca; quegli enjambements sembrano inventati apposta per costringere la voce del lettore a rifarsi il fiato (e la sua mente a riflettere, a interrogarsi.

"l'Unità” 19 luglio 1986

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