A guardar le cose da un
punto di vista un po' particolare non si ha difficoltà ad ammettere
che la vita di Giacomo Leopardi fu tutto uno scandalo. Per le idee
anzitutto: rigorosamente e disperatamente coerenti, atee e
materialistiche in un'età pervasa dal riformismo liberale e
cattolico, culminanti nella spietata dichiarazione della vanità del
tutto. Per l'aspetto fisico del poeta: debolezza d'occhi, debolezza
della spina dorsale giunta alla doppia gobba, umor nero e nera
malinconia, progressivo disfacimento del corpo fino alla morte (per
tisi, per colera, per scompenso cardiaco?). Va da sé che la naturale
superficialità degli uomini, e dei benpensanti in particolare, ancor
vivo Giacomo, non perse tempo a mettere in relazione le due cose,
causa ed effetto: dagli amici fiorentini (a voce più bassa ma
maligna, si pensi al celebre epigramma del Tommaseo) al tedesco
Henschel che non esitò, seriamente e sgarbatamente, a parlar chiaro:
se la filosofia del poeta era tanto tetra, si pensasse alle deformità
dell'uomo. Donde la dura reazione del Leopardi, nel 1832: «Prima di
morire, io protesto contro queste invenzioni vili e volgari. Prego
perciò i miei lettori a provarsi a demolire le mie riflessioni e i
miei ragionamenti anziché accusare le mie malattie...».
Ma lo scandalo vero e
proprio — il «caso» letterario e di costume esploso ai margini
del nostro maggior poeta moderno — scoppiò nel 1845, quando
Ranieri pubblicò postumi i primi due volumi delle Opere del
Leopardi con la celebre Notizia su di lui. E da allora fu
guerra: da una parte i difensori di Giacomo, dall'altra,
numerosissimi, i paladini della famiglia, di palazzo Leopardi e di
Recana-ti, della gens Leoparda così brutalmente balzata alla ribalta
delle scene letterarie e nel chiacchericcio dei salotti in virtù di
un membro forse geniale ma troppo scandalosamente ribelle.
Con toni diversi anche se
non meno accesi la guerra — almeno sul piano speculativo e
mercantile delle «carte» leopardiane promesse e sottratte, vendute
e rivendute — dura ancor oggi. Fino all'età del conte Ettore,
quando nel brulichio delle camicie nere e tra i labari e le insegne
littorie i «resti» del poeta vennero traslati, essa è
stupendamente narrata da Mario Picchi in Storie di casa Leopardi,
edito da Camunia (364 pp., lire 30.000).
È questo un libro per
tanti versi nuovo, nel senso che, dominando una bibliografia
vastissima, orchestra con precisione lo scontro tra leopardisti
sentimentali e leopardisti positivisti, tra agiografi e critici, con
incursioni interessantissime nel mondo medico-psichiatrico del
secondo Ottocento e del primo Novecento, senza dimenticare alcune
curiosità che hanno una loro voce schietta e plebea. Per esempio
quando ricorda un tal Gerardo Laurini che nel gennaio del 1883 era
andato a parlare con il fratello di Nerina e gli aveva chiesto se si
ricordava di Giacomo: «Lo gobbo? — uscì a dire quello. — Artro
che! ... Era lo ragazzo de mi' sorella! Dice che la mise su li
jurnali».
Giacomo Leopardi come un
ribelle, come un eretico, come un convertito, come un lunatico, come
un genio: e Giacomo, anche, come «il ragazzo di Nerina».
Non si direbbe però
tutto se non si sottolineasse che il libro di Picchi, pur tanto
ironico nel seguire le miserevoli vicende di una storia che è pur
sempre la storia di un costume (e persino di una «civiltà»), ha
sicuramente un aspetto molto serio e, si vorrebbe aggiungere, una sua
voce pensosa e ammonitrice. Quando uno dei più intrepidi difensori
di palazzo Recanati, Giuseppe Piergili, per riabilitare Monaldo e il
suo «affetto di padre» mette avanti la curiosa teoria che se a
Giacomo fosse mancato l'esempio del genitore e il suo amore per i
libri, il suo genio avrebbe potuto benissimo rimanere «sterile e
infecondo», al di là del sorriso (o dell'indignazione) per tanta
stoltezza, noi capiamo che s'è in realtà toccato il punto vero da
cui è scaturito il mare immenso degli attacchi e dei contrattacchi.
Di qui Monaldo, la tradizione di famiglia, il bon ton, l'amore per !e
buone lettere, il conformismo storico e ideologico; di là Giacomo,
il ribellismo, l'autentica ispirazione, lo sguardo gettato sul
futuro, la voce della libertà e della con-danna. Di qui Tolomeo; di
là Copernico. Di qui il passato; di là l'avvenire. Di qui il
rispetto della tradizione; di là lo scandalo della provocazione.
Che tale conflitto, reso
più aspro dal dissesto economico del patrimonio familiare, sia
scoppiato sotto lo stesso tetto, tra padre e figlio, può certamente
essere qualcosa che sfiora il dramma e muove la pietà.
Esso è tuttavia ben
altro di un normale contrasto tra generazioni; e tra Monaldo e
Giacomo, del resto, correvano poco più di vent'anni.
E forse anche per questo
Monaldo non si rassegnò, e alle Operette morali del figlio,
quasi a sfida, rispose con i Dialoghetti, quei Dialoghetti
che Giacomo, ben vivo il padre, non esitò ad infamare. Se quindi
Monaldo, se pur tutta in negativo, ha una sua statura cresciuta
all'ombra generosa e magnanima del figlio Giacomo, i successivi
«eredi» della famiglia, dal conte Giacomo junior al conte Ettore,
non sono che maschere ed ombre, attorno alle quali, tuttavia, tra
risentimenti e rivendicazioni, miserie e puntigli, si svolsero per
quasi un secolo queste “storie di casa Leopardi”.
"l'Unità", 8 luglio 1986
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