19.7.19

"Il ragazzo di Nerina". Casa Leopardi: un genio scandaloso in una famiglia bigotta (Ugo Dotti)


A guardar le cose da un punto di vista un po' particolare non si ha difficoltà ad ammettere che la vita di Giacomo Leopardi fu tutto uno scandalo. Per le idee anzitutto: rigorosamente e disperatamente coerenti, atee e materialistiche in un'età pervasa dal riformismo liberale e cattolico, culminanti nella spietata dichiarazione della vanità del tutto. Per l'aspetto fisico del poeta: debolezza d'occhi, debolezza della spina dorsale giunta alla doppia gobba, umor nero e nera malinconia, progressivo disfacimento del corpo fino alla morte (per tisi, per colera, per scompenso cardiaco?). Va da sé che la naturale superficialità degli uomini, e dei benpensanti in particolare, ancor vivo Giacomo, non perse tempo a mettere in relazione le due cose, causa ed effetto: dagli amici fiorentini (a voce più bassa ma maligna, si pensi al celebre epigramma del Tommaseo) al tedesco Henschel che non esitò, seriamente e sgarbatamente, a parlar chiaro: se la filosofia del poeta era tanto tetra, si pensasse alle deformità dell'uomo. Donde la dura reazione del Leopardi, nel 1832: «Prima di morire, io protesto contro queste invenzioni vili e volgari. Prego perciò i miei lettori a provarsi a demolire le mie riflessioni e i miei ragionamenti anziché accusare le mie malattie...».
Ma lo scandalo vero e proprio — il «caso» letterario e di costume esploso ai margini del nostro maggior poeta moderno — scoppiò nel 1845, quando Ranieri pubblicò postumi i primi due volumi delle Opere del Leopardi con la celebre Notizia su di lui. E da allora fu guerra: da una parte i difensori di Giacomo, dall'altra, numerosissimi, i paladini della famiglia, di palazzo Leopardi e di Recana-ti, della gens Leoparda così brutalmente balzata alla ribalta delle scene letterarie e nel chiacchericcio dei salotti in virtù di un membro forse geniale ma troppo scandalosamente ribelle.
Con toni diversi anche se non meno accesi la guerra — almeno sul piano speculativo e mercantile delle «carte» leopardiane promesse e sottratte, vendute e rivendute — dura ancor oggi. Fino all'età del conte Ettore, quando nel brulichio delle camicie nere e tra i labari e le insegne littorie i «resti» del poeta vennero traslati, essa è stupendamente narrata da Mario Picchi in Storie di casa Leopardi, edito da Camunia (364 pp., lire 30.000).
È questo un libro per tanti versi nuovo, nel senso che, dominando una bibliografia vastissima, orchestra con precisione lo scontro tra leopardisti sentimentali e leopardisti positivisti, tra agiografi e critici, con incursioni interessantissime nel mondo medico-psichiatrico del secondo Ottocento e del primo Novecento, senza dimenticare alcune curiosità che hanno una loro voce schietta e plebea. Per esempio quando ricorda un tal Gerardo Laurini che nel gennaio del 1883 era andato a parlare con il fratello di Nerina e gli aveva chiesto se si ricordava di Giacomo: «Lo gobbo? — uscì a dire quello. — Artro che! ... Era lo ragazzo de mi' sorella! Dice che la mise su li jurnali».
Giacomo Leopardi come un ribelle, come un eretico, come un convertito, come un lunatico, come un genio: e Giacomo, anche, come «il ragazzo di Nerina».
Non si direbbe però tutto se non si sottolineasse che il libro di Picchi, pur tanto ironico nel seguire le miserevoli vicende di una storia che è pur sempre la storia di un costume (e persino di una «civiltà»), ha sicuramente un aspetto molto serio e, si vorrebbe aggiungere, una sua voce pensosa e ammonitrice. Quando uno dei più intrepidi difensori di palazzo Recanati, Giuseppe Piergili, per riabilitare Monaldo e il suo «affetto di padre» mette avanti la curiosa teoria che se a Giacomo fosse mancato l'esempio del genitore e il suo amore per i libri, il suo genio avrebbe potuto benissimo rimanere «sterile e infecondo», al di là del sorriso (o dell'indignazione) per tanta stoltezza, noi capiamo che s'è in realtà toccato il punto vero da cui è scaturito il mare immenso degli attacchi e dei contrattacchi. Di qui Monaldo, la tradizione di famiglia, il bon ton, l'amore per !e buone lettere, il conformismo storico e ideologico; di là Giacomo, il ribellismo, l'autentica ispirazione, lo sguardo gettato sul futuro, la voce della libertà e della con-danna. Di qui Tolomeo; di là Copernico. Di qui il passato; di là l'avvenire. Di qui il rispetto della tradizione; di là lo scandalo della provocazione.
Che tale conflitto, reso più aspro dal dissesto economico del patrimonio familiare, sia scoppiato sotto lo stesso tetto, tra padre e figlio, può certamente essere qualcosa che sfiora il dramma e muove la pietà.
Esso è tuttavia ben altro di un normale contrasto tra generazioni; e tra Monaldo e Giacomo, del resto, correvano poco più di vent'anni.
E forse anche per questo Monaldo non si rassegnò, e alle Operette morali del figlio, quasi a sfida, rispose con i Dialoghetti, quei Dialoghetti che Giacomo, ben vivo il padre, non esitò ad infamare. Se quindi Monaldo, se pur tutta in negativo, ha una sua statura cresciuta all'ombra generosa e magnanima del figlio Giacomo, i successivi «eredi» della famiglia, dal conte Giacomo junior al conte Ettore, non sono che maschere ed ombre, attorno alle quali, tuttavia, tra risentimenti e rivendicazioni, miserie e puntigli, si svolsero per quasi un secolo queste “storie di casa Leopardi”.

"l'Unità", 8 luglio 1986

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