19.10.10

Padova e Milano: due morti in ospedale sotto i ferri. Di malapolitica.

Due morti negli ultimi giorni, di quelle che si dimenticano subito, anzi che neppure si arriva a ricordare, la prima di un detenuto, disegnatore talentuoso, la seconda di un immigrato “irregolare”, giovane. L’uno e l’altro, morti in ospedale  in seguito ad intervento operatorio, l’uno all’Ospedale civile di Padova, l’altro al Niguarda di Milano. Ne riporto qui testimonianza con due articoli tratti dalla rete, che ricordano anche le persone.
Le cause del decesso saranno probabilmente definite “naturali”, ma basta dare uno sguardo alle storie delle persone e ci si accorgerà che del tutto naturali non sono. E non c’entra neppure la “mala sanità”. Piuttosto la “mala politica” (S.L.L.)
In sala operatoria al Niguarda di Milano
Disturbi dell’età
di Luigi Manconi
La sera del 14 ottobre intorno alle ore 23 è morto Graziano Scialpi.
Aveva 48 anni ed era detenuto da tempo nella casa di reclusione di Padova dove collaborava come disegnatore alla rivista "RistrettiOrizzonti". Suo era il personaggio di Dado, protagonista di quelle strisce. Da un anno circa, Scialpi, accusava dolori diffusi che dallo scorso novembre erano diventati intollerabili. I medici hanno sempre minimizzato e  per un anno non hanno ritenuto opportuno sottoporlo a risonanza magnetica. Qualche mese fa Scialpi ha iniziato ad orinare con difficoltà, problema attribuito a "disturbi dell'età" da uno dei sanitari. La notte del 23 agosto si è ritrovato paralizzato. La mattina successiva è stato portato all’ospedale sulla sedia a rotelle e con le manette ai polsi.  E' stato operato immediatamente, essendo stato riscontrato un carcinoma che dal polmone aveva ormai invaso spina dorsale, midollo, ossa, cervello. Si è spento l’altra sera nell’ospedale civile di Padova.
Graziano Scialpi è il 136esimo detenuto morto nel corso del 2010, nel sistema penitenziario italiano, per cause che vengono definite – non so se più per ottusità o per crudeltà – “naturali”. Nello stesso periodo 54 sono stati i suicidi all’interno della popolazione detenuta.

dal sito “A buon diritto”, 16 ottobre 2010


Carlos non ce l'ha fatta.
La mamma: «Ricordatelo»
PAVIA. Non è bastato l’amore di mamma Flor, che l’ha incoraggiato per un anno e sette mesi, sempre al suo fianco. Non è bastata la voglia di vivere di un ragazzo di 22 anni, che prendeva a calci il pallone con i suoi amici al campetto del Vallone. Carlos aveva paura di essere espulso e così ha aspettato qualche giorno prima di presentarsi al pronto soccorso ad aprile dell’anno scorso con febbre e dolori addominali, nel mezzo degli annunci sul dovere dei medici di denunciare gli irregolari.
E’ morto venerdì notte al Niguarda dopo una ventina di interventi chirurgici.  Carlos in realtà si chiamava Luis, era peruviano, l’identità era stata nascosta per tutelarlo. E’ morto mentre stava per arrivare il permesso di soggiorno che per un soffio non aveva avuto quando era arrivato a Pavia per il ricongiungimento familiare: aveva compiuto 18 anni durante la procedura. E così, in una famiglia regolare, era l’unico clandestino. Ad aprile si è sentito male, non è andato subito al San Matteo per paura di essere denunciato. Quando l’hanno operato era già in peritonite.  Un’odissea di 19 mesi, i medici del policlinico lo davano per spacciato. Poi la corsa al Niguarda, l’intervento di Osvaldo Chiara, direttore del Trauma center, il ritorno in piedi dopo un anno. Fino a che il cuore non ha ceduto, e una reazione autoimmune ha cancellato le speranze.  «Non è possibile che in un paese civile un ragazzo debba morire dopo più di un anno e mezzo di sofferenze per le complicazioni di un’appendicite e la paura», tuona Vanna Jahier, Con-Tatto, che ha seguito il caso. «Bisogna parlare di Luis - spiega suor Rosaria, del centro Migrantes -. Che sia un esempio per noi migranti, che dobbiamo essere solidali e cercare chi, in Italia, ci vuole accogliere». Flor guarda quel suo ragazzone lungo lungo, disteso nella bara di legno chiaro in salotto, e piange: «Non pensavo sarebbe entrato in questa casa così - racconta -. Sembrava stesse meglio. Qui c’era una stanza per lui, il campo da calcio dove giocano i suoi amici, lui sperava di poter tornare in campo, di guardarli giocare». «E’ stato un esempio di coraggio per tutti», hanno detto al Niguarda i compagni di reparto. «Non voglio che succeda a qualcun altro - riprende Flor -. Luis non avrebbe più potuto avere una vita normale, era stremato. Lunedì è entrato per l’ultima volta in sala operatoria e non si è più svegliato».

da “la Provincia Pavese”, 17 ottobre 2010

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