Dal sito del Fondo Walter Binni (http://www.fondowalterbinni.it/contributi/Walter-Cremonte.html ) riprendo la relazione di Walter Cremonte al convegno dal titolo Ritratto del critico da giovane, svoltosi nella sala Binni della Biblioteca Augusta di Perugia il 4 maggio 2010.
Può darsi – lo dico subito, e caso mai me ne scuso in anticipo – che questo mio intervento si allontani in modo un po’ avventato dal tema e dal compito che abbiamo oggi, cioè la presentazione critica del libro di Binni L’ultimo periodo della lirica leopardiana: altri qui presenti hanno molta più competenza e strumenti critici molto più adeguati di quanto possa averne io, e da loro so che posso imparare molto. Quello che qui dirò vorrebbe essere più che altro un omaggio pieno di riconoscenza al grande leopardista Binni, per quello che per me ha significato, nel senso anche di memorie e suggestioni anche emotive, soggettive, che strettamente, per me, si intrecciano nel nodo Binni-Leopardi. Naturalmente ho letto con grande attenzione, e passione, questo libro preziosissimo finalmente accessibile, grazie a questa edizione benemerita, non solo agli addetti ai lavori, ma anche ad un pubblico più ampio, per esempio di insegnanti di scuola – tra i quali mi ricolloco “a ritroso” – desiderosi (ma, direi di più, felicemente necessitati dal loro impegno professionale) di conoscere la genesi, il momento germinale dei grandi studi leopardiani di Binni, della grande svolta che essi hanno rappresentato più di tante altre cose nella cultura critica del nostro paese e, in particolare, della nostra scuola, pur con tutti i ritardi e le manchevolezze di una “macchina” educativa, formativa, così rallentata e farraginosa. Quindi ho letto con enorme interesse questo libro, restando in particolare incantato dal quarto capitolo, “Le correzioni dell’edizione napoletana”, sulle varianti rispetto ai testi che precedono il Pensiero dominante, cioè fino al Canto notturno, operate dal “nuovo” Leopardi nella fase fiorentino-napoletana; qui veramente emerge, accanto al robustissimo vigore critico binniano di tutta la “tesina”(e anzi, intimamente radicata in esso) una sensibilità finissima,che direi senz’altro poetica, per la parola, per il suo ritmo interno, per il timbro e il colore che ne caratterizzano la sonorità. Insomma, per le qualità specifiche che definiscono il discorso poetico. Ma l’ho letto, questo libro, soprattutto con un senso di profonda commozione, come penso sia capitato un po’ a tutti. Commozione che deriva principalmente dal constatare che un lavoro di tanta importanza – importanza che aumenta straordinariamente se vista nella prospettiva degli sviluppi che avrà -, di tanta importanza e anche bellezza (di argomentazione, di partecipazione, di stile), è il lavoro universitario di un ragazzo alla sua prima, seria prova di studioso. Ed è una commozione che cresce in me se ripenso al fatto che in quegli stessi anni frequentava la stessa Università, con gli stessi maestri, anche mio padre, appena più giovane; e che sul frontespizio della tesina di Binni compare, accanto ai nomi di Momigliano e di Biadene, il nome di Amoretti, terzo relatore: il germanista professor Amoretti, che tre anni dopo avrebbe firmato come relatore la tesi di laurea di mio padre sulla poesia di Rilke. Si ripensa con commozione a questa leva di studenti normalisti, a questa giovinezza che contro il mito fasullo della giovinezza che ha intossicato un’intera generazione italiana (giovinezza-primavera di bellezza, figurarsi!) coltivava, nello studio e nella vicinanza con i classici (e, nel caso di Binni, segnatamente con Leopardi, con quel suo Leopardi), la propria libertà, che di lì a un decennio pressappoco era necessario e giusto che diventasse liberazione. Ma non cosi automaticamente, e facilmente; in mezzo ci sarebbe stata la guerra, la guerra civile, gli “anni tedeschi” ad avvalorare i versi disperati di Caproni: “… O amore, amore / che disastro è nell’alba!...”.
Vorrei ora riprendere da quello che ha scritto Salvatore Lo Leggio in un suo articolo apparso su “Micropolis” in occasione della morte di Walter Binni (un numero di “Micropolis”, quello, particolarmente significativo, che conteneva anche un bel “Ricordo di Walter Binni” di Maurizio Mori). Scriveva Lo Leggio che il libro di Binni La nuova poetica leopardiana (figlio legittimo di questo nostro piccolo saggio che oggi presentiamo), uscito, lo ricordiamo, nel 1947 insieme all’altro libro decisivo, il Leopardi progressivo di Cesare Luporini, aprì “la strada non solo ad una nuova stagione di studi leopardiani, ma anche al diffondersi al di fuori delle cerchie degli specialisti di una immagine più autentica e ricca del poeta recanatese, meno viziata dalle censure e dai fraintendimenti propiziati dai moderati di ogni tempo, da quelli dell’Ottocento che l’avevano bollato come il ‘maledetto gobbo’ e da quelli del Novecento che l’avevano confinato nell’Arcadia dell’idillio. Ciò avvenne – prosegue Lo Leggio, e qui veniamo al punto su cui vorrei fermarmi a riflettere – molto più tardi, negli anni Settanta, anche attraverso il veicolo dell’insegnamento scolastico. Sulle cattedre di lettere dei licei e degli istituti tecnici cominciavano a trovare posto i ragazzi del Sessantotto”: e qui coglie bene, Lo Leggio, un tratto sicuramente autobiografico-generazionale, al quale anch’io sento una forte vicinanza, o, ancor più, appartenenza; ed è di questo che vorrei brevemente parlare, partendo dalla mia esperienza di insegnante di lettere nella scuola superiore profondamente formata e, direi, trasformata dal Leopardi di Binni e, conseguentemente, dal Binni di Leopardi, in un momento in cui si facevano rade e difficoltose le parole volte ad un progetto educativo come quello che avremmo voluto, forse confusamente, realizzare: quando anzi, a dirla tutta, c’era da chiedersi costantemente il senso e il valore di quello che si stava facendo, pur essendo partiti con tanta fiducia non nel nostro ruolo, ma nei compiti e nei fini che sentivamo di avere. La strada era aperta, dice Lo Leggio, ma il momento decisivo, quello che unisce di colpo anni di riflessione e di prove a volte inconcludenti ad un sentimento quasi improvviso di possibilità pratica e concreta, venne con la lezione magistrale che Binni tenne agli alunni delle scuole superiori perugine su “La Ginestra e l’ultimo Leopardi” al Teatro Turreno di Perugia il 4 maggio del 1987. Da allora (per la verità anche prima: queste idee erano in circolazione da un pezzo, e anche i libri di testo si erano almeno in parte adeguati; quindi anche prima, ma mai con tanta forza di persuasione), da allora la lettura-spiegazione in classe della Ginestra interpretata da Binni, insieme con la lettura di Dante e di Machiavelli e di Lucrezio per esempio, diventò momento culminante e, direi, qualificante dell’intera vicenda scolastica, tale da proiettare un senso anche su tutto il resto. Una specie di bussola, insomma. Lasciatemi fare un esempio concreto, che forse può apparire un po’ facile, ma che viene dalla effettiva pratica scolastica, dai programmi, che sono poi la traduzione operativa – sia pure in qualche modo riduttiva, o anche approssimativa – del canone: l’ultimo anno della scuola superiore si apre, come tutti ricordate, più o meno con i Sepolcri del Foscolo. È un bell’impegno far accettare ed apprezzare, a dei giovani allievi, su di un tema come questo, la prospettiva materialistica che nega ogni speranza nell’al di là: prospettiva sia pure rischiarata, come si dice, dall’illusione benefica che ci “sofferma al limitar di Dite” sia in una dimensione privata, di private relazioni ed affetti, sia nella dimensione di una memoria e di un riscatto collettivo civile, in una chiave umanistico-progressiva. Ma poi, un po’ di tempo dopo, arrivano le due grandi poesie sepolcrali di Leopardi (che un tempo, diciamo prima, a scuola nemmeno si nominavano, o quasi), le quali si incaricano di negare ogni valore a questa forma di (sublime) consolazione o risarcimento: resta solo il dolore nudo, intollerabile, il dolore assurdo e assoluto, senza consolazione, per la perdita delle persone care, che genera la rimostranza aspra e fortissima del poeta contro la natura, che ha fatto “necessario in noi / tanto dolor” (la protesta di Leopardi, come dal titolo felicissimo binniano, mai cosi desolata e radicale). E in mezzo (per così dire, è un artificio scolastico. Ma effettivamente le Sepolcrali di Leopardi sono presumibilmente del ’34-’35, quasi coeve della Ginestra; i Sepolcri sono pubblicati nel 1807, e l’Adelchi è del ’20-’22), in mezzo c’è stato il grande Manzoni della “provvida sventura”, il più potente ossimoro della nostra letteratura, con il quale il poeta salva Ermengarda dall’oltraggio a costo, però, della morte. Ma se la “legge dell’ossimoro”, chiamiamola cosi, vuole che i due termini in antitesi si danno reciprocamente senso, non vale solo che il male, la sventura, ha per il cattolico Manzoni, per forza, una funzione provvidenzialmente positiva, ma anche che la provvidenza – principio e fine di ogni cosa – prende un aspetto decisamente tragico e, direi, malevolo. Insomma, una volta giunti al Leopardi di A se stesso (l’”antiidillio per eccellenza “, Binni) e delle Canzoni sepolcrali, è il deserto (il deserto su cui fiorirà la ginestra): e forse questa cosa che cerco di esprimere – oltre ad essere, probabilmente, un espediente retorico un po’ facile – è una difficoltà o preoccupazione di ordine didattico troppo ingenua, legata ad un’idea della formazione adolescenziale troppo, e per forza, costruttiva (ma costruttiva in un senso anche troppo banale), in cui si vorrebbe magari che il pessimismo ( il pessimismo attivo, critico) fosse un punto d’approdo adulto e non proprio una materia d’insegnamento liceale; e dicendo questo temo, davvero, di scivolare verso un “mulino bianco” pedagogico, che in realtà non ho mai praticato, che non mi appartiene. Ma forse questa preoccupazione non è poi tanto ingenua, ingenua in un modo tanto disarmante, se anche Binni, proprio a conclusione della sua lezione perugina sulla Ginestra, si era preso cura di rivolgersi idealmente, ma anche materialmente, essendo la platea composta in prevalenza di giovani allievi delle scuole (e, si presume, tutti presi da un senso della vita incoercibile, irriducibile, quasi da gita scolastica), a chi, disse Binni, “personalmente non condivide – e io vorrei aggiungere, non si sente di condividere - le posizioni leopardiane, in parte o totalmente”. Dicendo loro le parole definitive: “E infine ogni lettore, che abbia storicamente e correttamente compresa la direzione delle posizioni leopardiane (…) non può uscire dalla lettura di questo capolavoro filosofico ed etico, interamente ed inscindibilmente poetico (la Ginestra), senza esserne coinvolto in tutto il proprio essere, senza (per usare le parole leopardiane) provare in se stesso ‘un impeto, una tempesta, un quasi gorgogliamento di passioni’ e non con l’animo ‘in calma e in riposo’: che è appunto, per Leopardi, il vero effetto della grande poesia”. E dunque è stato sacrosanto, oltre che imprescindibile, per tutta una generazione di insegnanti, sulla scorta del Binni, mostrare – “nulla al ver detraendo” – la “direzione delle posizioni leopardiane”, che va – con la poesia e grazie alla pesia – verso la prefigurazione – energica, coraggiosa, polemica – di una possibile e concreta prassi sociale solidale e fraterna; e che dunque non può essere quella idillica “che rasserena e distacca dalla realtà dei problemi massimi dell’uomo” (Binni, La protesta di Leopardi), ma quella eroica – e credo che si trovi per la prima volta l’uso del termine “eroico”, nella critica leopardiana, proprio nel testo giovanile che stiamo presentando – che si esplica pienamente nella Ginestra, ma percorre tutta l’opera di Leopardi, e che sottrae l’uomo (così ancora Binni) “a tutte le illusioni, a tutte le speranze, a tutti gli inganni mitologico-religiosi o mitologico-prometeici”. Alla fine, dice Binni nello stesso punto, “non c’è speranza, ma volontà disperata, disillusa, faticosa…”. Non c’è speranza, e torna alla mente (a chi l’ama ancora) la versione fortiniana dell’Internazionale: “Noi non vogliam sperare niente / il nostro sogno è la realtà…”, con la stessa volontà-necessità (e necessità vuol dire, propriamente, non credere, resistere) di lottare perché torni “congiunta… l’umana compagnia”: congiunta e liberata non dall’infelicità della propria condizione, che è connaturata al nostro stesso esistere, ma dall’alienazione e dalla perdita di ogni senso. Muovendo, ed è condizione inderogabile, dalla consapevolezza e dall’accettazione coraggiosa (quella stessa della “lenta ginestra”) del destino di dolore e di fragilità che la natura, cioè lo stesso esistere, ci ha “dato in sorte”; perché solo dal “verace saper”, e garantito da esso, può venire, come dalla sua stessa radice, il “vero amor”: ossia la possibile e necessaria solidarietà tra gli esseri umani, che si riconoscono fragili e bisognosi d’aiuto reciproco. E ripudiando dunque in primo luogo la guerra come “stolta” (cioè, proprio stupida, oltre che criminale) perché spezza la “social catena” e indebolisce la resistenza umana contro il male: così da inverare, questa volta sì, la terza, la più difficile e negletta, delle parole della rivoluzione, fraternità. Fraternità che forse, lascia intendere Binni, verso la conclusione della sua conferenza perugina, capitinianamente si deve estendere anche alle altre specie animali: fraternità nel dolore, che supera i confini di specie (e ci si ricorda del vitello immolato agli dei e della madre orfana del figlio, nel passo di Lucrezio).
Per quanto mi riguarda, e tornando alla modalità autobiografica dello spunto di Lo Leggio da cui sono partito, io ormai sono in pensione e francamente non rimpiango un gran che della scuola. Ma questa cosa mi manca: la possibilità (e non sempre ci si riesce, grande è il rumore di fondo; ma quando ci si riesce, quando funziona, davvero si ritrova un senso a quello che si fa) – la possibilità, dicevo, non di insegnare, ma di comunicare (“comunicare, per me, significava comunicarsi / nella comunione di una parola comune”, dice il poeta Valerio Magrelli): di comunicare con i miei giovani allievi questa lezione del Leopardi di Binni, e del Binni di Leopardi.
Vorrei ora riprendere da quello che ha scritto Salvatore Lo Leggio in un suo articolo apparso su “Micropolis” in occasione della morte di Walter Binni (un numero di “Micropolis”, quello, particolarmente significativo, che conteneva anche un bel “Ricordo di Walter Binni” di Maurizio Mori). Scriveva Lo Leggio che il libro di Binni La nuova poetica leopardiana (figlio legittimo di questo nostro piccolo saggio che oggi presentiamo), uscito, lo ricordiamo, nel 1947 insieme all’altro libro decisivo, il Leopardi progressivo di Cesare Luporini, aprì “la strada non solo ad una nuova stagione di studi leopardiani, ma anche al diffondersi al di fuori delle cerchie degli specialisti di una immagine più autentica e ricca del poeta recanatese, meno viziata dalle censure e dai fraintendimenti propiziati dai moderati di ogni tempo, da quelli dell’Ottocento che l’avevano bollato come il ‘maledetto gobbo’ e da quelli del Novecento che l’avevano confinato nell’Arcadia dell’idillio. Ciò avvenne – prosegue Lo Leggio, e qui veniamo al punto su cui vorrei fermarmi a riflettere – molto più tardi, negli anni Settanta, anche attraverso il veicolo dell’insegnamento scolastico. Sulle cattedre di lettere dei licei e degli istituti tecnici cominciavano a trovare posto i ragazzi del Sessantotto”: e qui coglie bene, Lo Leggio, un tratto sicuramente autobiografico-generazionale, al quale anch’io sento una forte vicinanza, o, ancor più, appartenenza; ed è di questo che vorrei brevemente parlare, partendo dalla mia esperienza di insegnante di lettere nella scuola superiore profondamente formata e, direi, trasformata dal Leopardi di Binni e, conseguentemente, dal Binni di Leopardi, in un momento in cui si facevano rade e difficoltose le parole volte ad un progetto educativo come quello che avremmo voluto, forse confusamente, realizzare: quando anzi, a dirla tutta, c’era da chiedersi costantemente il senso e il valore di quello che si stava facendo, pur essendo partiti con tanta fiducia non nel nostro ruolo, ma nei compiti e nei fini che sentivamo di avere. La strada era aperta, dice Lo Leggio, ma il momento decisivo, quello che unisce di colpo anni di riflessione e di prove a volte inconcludenti ad un sentimento quasi improvviso di possibilità pratica e concreta, venne con la lezione magistrale che Binni tenne agli alunni delle scuole superiori perugine su “La Ginestra e l’ultimo Leopardi” al Teatro Turreno di Perugia il 4 maggio del 1987. Da allora (per la verità anche prima: queste idee erano in circolazione da un pezzo, e anche i libri di testo si erano almeno in parte adeguati; quindi anche prima, ma mai con tanta forza di persuasione), da allora la lettura-spiegazione in classe della Ginestra interpretata da Binni, insieme con la lettura di Dante e di Machiavelli e di Lucrezio per esempio, diventò momento culminante e, direi, qualificante dell’intera vicenda scolastica, tale da proiettare un senso anche su tutto il resto. Una specie di bussola, insomma. Lasciatemi fare un esempio concreto, che forse può apparire un po’ facile, ma che viene dalla effettiva pratica scolastica, dai programmi, che sono poi la traduzione operativa – sia pure in qualche modo riduttiva, o anche approssimativa – del canone: l’ultimo anno della scuola superiore si apre, come tutti ricordate, più o meno con i Sepolcri del Foscolo. È un bell’impegno far accettare ed apprezzare, a dei giovani allievi, su di un tema come questo, la prospettiva materialistica che nega ogni speranza nell’al di là: prospettiva sia pure rischiarata, come si dice, dall’illusione benefica che ci “sofferma al limitar di Dite” sia in una dimensione privata, di private relazioni ed affetti, sia nella dimensione di una memoria e di un riscatto collettivo civile, in una chiave umanistico-progressiva. Ma poi, un po’ di tempo dopo, arrivano le due grandi poesie sepolcrali di Leopardi (che un tempo, diciamo prima, a scuola nemmeno si nominavano, o quasi), le quali si incaricano di negare ogni valore a questa forma di (sublime) consolazione o risarcimento: resta solo il dolore nudo, intollerabile, il dolore assurdo e assoluto, senza consolazione, per la perdita delle persone care, che genera la rimostranza aspra e fortissima del poeta contro la natura, che ha fatto “necessario in noi / tanto dolor” (la protesta di Leopardi, come dal titolo felicissimo binniano, mai cosi desolata e radicale). E in mezzo (per così dire, è un artificio scolastico. Ma effettivamente le Sepolcrali di Leopardi sono presumibilmente del ’34-’35, quasi coeve della Ginestra; i Sepolcri sono pubblicati nel 1807, e l’Adelchi è del ’20-’22), in mezzo c’è stato il grande Manzoni della “provvida sventura”, il più potente ossimoro della nostra letteratura, con il quale il poeta salva Ermengarda dall’oltraggio a costo, però, della morte. Ma se la “legge dell’ossimoro”, chiamiamola cosi, vuole che i due termini in antitesi si danno reciprocamente senso, non vale solo che il male, la sventura, ha per il cattolico Manzoni, per forza, una funzione provvidenzialmente positiva, ma anche che la provvidenza – principio e fine di ogni cosa – prende un aspetto decisamente tragico e, direi, malevolo. Insomma, una volta giunti al Leopardi di A se stesso (l’”antiidillio per eccellenza “, Binni) e delle Canzoni sepolcrali, è il deserto (il deserto su cui fiorirà la ginestra): e forse questa cosa che cerco di esprimere – oltre ad essere, probabilmente, un espediente retorico un po’ facile – è una difficoltà o preoccupazione di ordine didattico troppo ingenua, legata ad un’idea della formazione adolescenziale troppo, e per forza, costruttiva (ma costruttiva in un senso anche troppo banale), in cui si vorrebbe magari che il pessimismo ( il pessimismo attivo, critico) fosse un punto d’approdo adulto e non proprio una materia d’insegnamento liceale; e dicendo questo temo, davvero, di scivolare verso un “mulino bianco” pedagogico, che in realtà non ho mai praticato, che non mi appartiene. Ma forse questa preoccupazione non è poi tanto ingenua, ingenua in un modo tanto disarmante, se anche Binni, proprio a conclusione della sua lezione perugina sulla Ginestra, si era preso cura di rivolgersi idealmente, ma anche materialmente, essendo la platea composta in prevalenza di giovani allievi delle scuole (e, si presume, tutti presi da un senso della vita incoercibile, irriducibile, quasi da gita scolastica), a chi, disse Binni, “personalmente non condivide – e io vorrei aggiungere, non si sente di condividere - le posizioni leopardiane, in parte o totalmente”. Dicendo loro le parole definitive: “E infine ogni lettore, che abbia storicamente e correttamente compresa la direzione delle posizioni leopardiane (…) non può uscire dalla lettura di questo capolavoro filosofico ed etico, interamente ed inscindibilmente poetico (la Ginestra), senza esserne coinvolto in tutto il proprio essere, senza (per usare le parole leopardiane) provare in se stesso ‘un impeto, una tempesta, un quasi gorgogliamento di passioni’ e non con l’animo ‘in calma e in riposo’: che è appunto, per Leopardi, il vero effetto della grande poesia”. E dunque è stato sacrosanto, oltre che imprescindibile, per tutta una generazione di insegnanti, sulla scorta del Binni, mostrare – “nulla al ver detraendo” – la “direzione delle posizioni leopardiane”, che va – con la poesia e grazie alla pesia – verso la prefigurazione – energica, coraggiosa, polemica – di una possibile e concreta prassi sociale solidale e fraterna; e che dunque non può essere quella idillica “che rasserena e distacca dalla realtà dei problemi massimi dell’uomo” (Binni, La protesta di Leopardi), ma quella eroica – e credo che si trovi per la prima volta l’uso del termine “eroico”, nella critica leopardiana, proprio nel testo giovanile che stiamo presentando – che si esplica pienamente nella Ginestra, ma percorre tutta l’opera di Leopardi, e che sottrae l’uomo (così ancora Binni) “a tutte le illusioni, a tutte le speranze, a tutti gli inganni mitologico-religiosi o mitologico-prometeici”. Alla fine, dice Binni nello stesso punto, “non c’è speranza, ma volontà disperata, disillusa, faticosa…”. Non c’è speranza, e torna alla mente (a chi l’ama ancora) la versione fortiniana dell’Internazionale: “Noi non vogliam sperare niente / il nostro sogno è la realtà…”, con la stessa volontà-necessità (e necessità vuol dire, propriamente, non credere, resistere) di lottare perché torni “congiunta… l’umana compagnia”: congiunta e liberata non dall’infelicità della propria condizione, che è connaturata al nostro stesso esistere, ma dall’alienazione e dalla perdita di ogni senso. Muovendo, ed è condizione inderogabile, dalla consapevolezza e dall’accettazione coraggiosa (quella stessa della “lenta ginestra”) del destino di dolore e di fragilità che la natura, cioè lo stesso esistere, ci ha “dato in sorte”; perché solo dal “verace saper”, e garantito da esso, può venire, come dalla sua stessa radice, il “vero amor”: ossia la possibile e necessaria solidarietà tra gli esseri umani, che si riconoscono fragili e bisognosi d’aiuto reciproco. E ripudiando dunque in primo luogo la guerra come “stolta” (cioè, proprio stupida, oltre che criminale) perché spezza la “social catena” e indebolisce la resistenza umana contro il male: così da inverare, questa volta sì, la terza, la più difficile e negletta, delle parole della rivoluzione, fraternità. Fraternità che forse, lascia intendere Binni, verso la conclusione della sua conferenza perugina, capitinianamente si deve estendere anche alle altre specie animali: fraternità nel dolore, che supera i confini di specie (e ci si ricorda del vitello immolato agli dei e della madre orfana del figlio, nel passo di Lucrezio).
Per quanto mi riguarda, e tornando alla modalità autobiografica dello spunto di Lo Leggio da cui sono partito, io ormai sono in pensione e francamente non rimpiango un gran che della scuola. Ma questa cosa mi manca: la possibilità (e non sempre ci si riesce, grande è il rumore di fondo; ma quando ci si riesce, quando funziona, davvero si ritrova un senso a quello che si fa) – la possibilità, dicevo, non di insegnare, ma di comunicare (“comunicare, per me, significava comunicarsi / nella comunione di una parola comune”, dice il poeta Valerio Magrelli): di comunicare con i miei giovani allievi questa lezione del Leopardi di Binni, e del Binni di Leopardi.
1 commento:
Anch'io amo molto Binni.
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