18.10.10

Riabilitare Stalin? (Roberto Monicchia)

Da "micropolis" del maggio 2009 riprendo questo articolo di Roberto Monicchia, che recensendo un libro di Losurdo fa il punto su una questione storiografica (e non solo) tutt'altro che chiusa.  (S.L.L.)
Kitsch staliniano (1938 circa). Un piatto e una tazzina con l'effigie del giorgiano
La collocazione di Stalin tra le “anime nere” del Novecento riscuote un consenso quasi unanime e il parallelo Urss-nazismo è un tassello fondamentale della lettura del XX secolo secondo l’onnicomprensiva categoria del “totalitarismo”, contro il quale le democrazie liberali sarebbero uscite vittoriose dopo una lunga guerra in più tappe. Mettere in discussione le fondamenta di questa impostazione è l’arduo compito - di per sé degno di attenzione - che si assume Domenico Losurdo nel suo Stalin. Storia e critica di una leggenda nera (Carocci, Roma 2008).
Il discorso muove dalla constatazione che per un lungo periodo, anche a guerra fredda iniziata, il giudizio positivo su Stalin non era un’esclusiva della mirabolante propaganda sovietica, ma un tratto diffuso in occidente: il riconoscimento delle qualità politiche del georgiano, non solo per la vittoria nella guerra mondiale, ma anche per l’opera di trasformazione della Russia, coinvolge personaggi come De Gasperi e Thomas Mann. E’ il “rapporto segreto” di Kruscev che inaugura l’immagine di uno Stalin paranoico e sanguinario, tutto intento ad issare il proprio culto sopra una montagna di cadaveri. Provata l’infondatezza di alcune affermazioni (l’impreparazione militare dell’Urss nel 41, l’organizzazione dell’assassinio di Kirov), Losurdo riporta la “cattiva storiografia” krusceviana a strumento della lotta per la successione a Stalin. A suo avviso, per superare le impostazioni ideologico-strumentali, occorre analizzare lo stalinismo all’interno della storia del bolscevismo: la tendenza a insistere nei metodi della guerra civile appare già nel dibattito sull’insurrezione, nelle polemiche sul trattato di Brest-Litovsk e sulla Nep fino all’opposizione a Stalin di Trockij, che non avrebbe esitato a usare lo strumento insurrezionale. Losurdo dà credito al racconto di Malaparte in Tecnica del colpo di stato, per cui il georgiano non avrebbe affatto ingigantito la minaccia di un possibile rovesciamento violento del suo potere. Più in generale tutta la vicenda del bolscevismo sembra riproporre la contraddizione tra universalismo astratto e necessità di fare i conti con la realtà. L’utopismo astratto vede in qualsiasi realizzazione l’abbandono degli ideali: la Nep, le relazioni internazionali, i fronti popolari significano un tradimento, una degenerazione che giustifica qualsiasi forma di opposizione. Questa dialettica distruttiva, del resto, si innesta sulla specificità della storia della Russia, ove da decenni la contraddizione tra spaventosa arretratezza e attese di liberazione faceva prevedere una palingenesi violenta. Il carattere esplosivo della rivoluzione viene amplificato dalla inaudita carneficina della prima guerra mondiale: il potere bolscevico – che pensava doversi preparare a gestirne il “deperimento”– si trova nella necessità di ricostruire lo Stato.
In questo contesto l’affermazione dello stalinismo segue un percorso non  lineare, segnato dalla dialettica tra stato d’eccezione e tentativi di “normalizzazione”, frenati tanto dagli scontri interni quanto dalle tensioni internazionali. Le “accelerazioni”, le svolte repentine del ventennio staliniano sono dunque molto dentro alla logica tragica della rivoluzione russa e ben poco attribuibili alla paranoia autocratica di Stalin. Questa ossessiva (ma non ingiustificata) sindrome dello stato di eccezione illumina la natura specifica del regime: la ricognizione del clima che accompagna fenomeni come l’industrializzazione e la collettivizzazione forzata o la stessa organizzazione del sistema dei Gulag delinea una “dittatura sviluppista”, fondata su una parossistica mobilitazione popolare, a sua volta riflesso di un immane terremoto sociale, un rimescolamento di classe che supera di gran lunga l’esempio francese. Senza questo non si capisce né la grande crescita economico-sociale degli anni ’30, né la vittoria in guerra. La tragedia dell’Urss staliniana sta proprio nell’incapacità di passare dall’emergenza alla normalità, dalla mobilitazione “militare” a una società pacificata.
Estendendo le critiche di Trockij e Kruscev, il discorso politico e storico su Stalin in Occidente, soprattutto tra guerra fredda e post ’89, ha proceduto ad una sistematica rimozione, sostituita da una leggenda nera che annulla nel genocidio e nella paranoia sanguinaria la storia del socialismo. Allargando a dismisura il campo di applicazione della categoria del totalitarismo si è giunti a costruire l’assurda equiparazione tra l’Urss e il nazismo. A tal fine si sono compiute forzature pazzesche, con vere e proprie invenzioni, come quella dell’antisemitismo sovietico, e distorsioni comparative – come quella tra lager e gulag. La rimozione della storia si avvale anche e soprattutto della riduzione del confronto ai regimi dittatoriali, escludendo l’Occidente. Per questa via si è costretti a negare la natura razziale del progetto di dominio nazista in Europa (il cosiddetto Nuovo Ordine), evidentemente modellato – sia dal punto di vista ideologico che organizzativo - sull’esperienza coloniale europea, in particolare britannica. Non a caso una delle rimozioni più clamorose riguarda l’appello alla liberazione anticoloniale che l’Urss sostiene fin dalla nascita e sulla cui base viene combattuta dalle potenze occidentali ancor prima che da Hitler, usando gli stessi argomenti, compresa l’equiparazione bolscevismo-ebraismo. Certo, è molto più comodo fare della storia la palestra di insensati, sanguinari dittatori, estranei alla “civiltà occidentale”.
Decostruire l’immagine paranoica e “impolitica” del georgiano è un merito del libro e un contributo a far uscire il dibattito sul socialismo dall’indistinta ermeneutica del totalitarismo e dalla condanna morale di ogni rivoluzione. Si rimane dubbiosi, invece, quando sembra trasparire una rivalutazione “in sé” dell’opera di Stalin, di cui si sottolineano il realismo, la lungimiranza, persino una certa moderazione. Pesa in questo senso la riduzione della polemica trockijsta (e chrusceviana) a puro espediente di lotta politica e ad arma fornita ai nemici, secondo un’ottica di equiparazione “oggettiva” tra critica e tradimento che è tipicamente stalinista.
Non può esservi dubbio sul fatto che la demonizzazione dell’avversario - diffusa nell’intero movimento operaio - sia impiegata come arma sistematica di liquidazione fisica e politica proprio dallo stalinismo. Pur considerando gli stati d’eccezione e le realpolitik del secolo di ferro non si può negare questo macroscopico elemento di degenerazione, che costituisce uno dei motivi della sconfitta della scommessa socialista nel XX secolo. Se vogliamo che quella prospettiva possa riaprirsi, non si può mettere sullo stesso piano la discussione sulla natura dell’Urss che una parte dello stesso movimento comunista ha sviluppato fin dagli anni ’20 (certo con errori, ma anche pagando prezzi terribili) con l’attuale criminalizzazione dell’intera parabola del movimento operaio novecentesco.
Per comprendere cos’è stato il socialismo sovietico, non c’è bisogno di “riabilitare” Stalin. Tanto meno di demonizzare i suoi oppositori.

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