27.2.13

"Affaire Murri": un delitto italiano (di Michele Nani)

Augusto Murri
La vicenda di cui si tratta è un banale fatto di sangue: un uomo uccide il proprio cognato. Nemmeno il movente è particolarmente originale: l'omicida imputa alla vittima l'aggravamento delle condizioni della sorella e con l'assassinio intende troncarne il rischio della separazione definitiva, perché teme che il trasferimento del marito in un'altra città, figli al seguito, avrebbe portato al crollo psichico e fisico la donna; il proposito di allontanamento, ultimo atto di un distacco ormai consumato da anni, era maturato nel marito quando il suocero aveva esplicitato il rifiuto di chiamarlo a lavorare presso di sé, facendo crollare illusioni covate per lunghi anni di studio. Neppure la durezza del verdetto, infine, con le pesanti condanne comminate a tutti gli imputati, si distingue dall'operato consueto della giustizia. Tuttavia, a dispetto del carattere ordinario di questo delitto e delle passioni e miserie che concorrono a produrlo, la vicenda, svoltasi fra 1902 e 1905, diviene un «caso».
A un secolo di distanza, merito di Valeria Babini è l'averlo riaperto, non certo sul piano giudiziario, ma su quello storiografico, offrendo al lettore un ricco e avvincente studio (Il caso Murri. Una storia italiana, il Mulino, € 21). Nel ricostruirne le dinamiche, l'autrice si interroga costantemente sulle condizioni che hanno fatto di un «normale» episodio di cronaca nera un «caso», riconosciuto dai contemporanei nella sua paradossale saldatura di eccezionalità ed esemplarità.
Sugli sviluppi del «caso Murri» pesò all'epoca un precedente illustre, legato non tanto alla cronaca nera, quanto all'onor di patria e alla ragion di Stato: il caso, o meglio, l'«affare» Dreyfus, dal nome dell'ufficiale condannato alla deportazione per alto tradimento e riabilitato alla fine di un tortuoso iter giudiziario (ancora in corso ai tempi del caso Murri), dopo che un aspro scontro culturale e politico aveva ridefinito il profilo della Terza Repubblica d'Oltralpe. Di quella vicenda, che ebbe importanti ripercussioni internazionali, e rivelò la presenza di un robusto antisemitismo anche nella patria dell'emancipazione ebraica, il «caso Murri» ripropose alcuni tratti fondamentali.
In primo luogo si confermava, anche per l'Italia, il ruolo della stampa, protagonista dell'affaire Dreyfus. Se negli anni della crisi di fine secolo alcune testate come “L'Avanti!” e “il Secolo” avevano svolto una funzione democratica, agli inizi dell'età giolittiana il «caso Murri» mostrava le nuove implicazioni del «quarto potere». La peculiare versione italiana del giornalismo aggressivo e di inchiesta, che aveva i suoi epigoni negli Usa, insisteva sulla fascinazione che la cronaca nera, i processi e lo scandaglio nella vita privata (e sessuale) esercitavano sul crescente pubblico dei lettori, tanto da costringere a ripetuti interventi le autorità pubbliche. Proprio come in Francia e nel resto d'Europa, il principale mezzo di comunicazione dell'epoca era uno strumento di scontro politico e ideologico.
Durante il caso Murri in questo uso si distinsero i cattolici: l'occasione era propizia per sferrare una campagna di attacco alla scienza e all'istruzione laica, nutrita da una vera e propria inchiesta parallela, ma soprattutto da voci e presunte indiscrezioni sulla (movimentata) vita dei protagonisti, nei quali eccelse il bolognese “Avvenire d'Italia”, guidato da Rocca d'Adria (per inciso, uno dei protagonisti dell'antisemitismo cattolico fra Otto e Novecento). Non solo Tullio e Linda Murri, ma anche il padre Augusto, clinico di fama e gloria dell'ateneo felsineo, fautore di un approccio scientifico alle questioni sociali e impegnato politicamente su posizioni democratiche, a suon di calunnie e illazioni venne indicato dalla stampa cattolica come il vero, seppure indiretto, responsabile del delitto, istigato da una pedagogia dimentica dei valori cristiani.
Alla figura del medico l'autrice dedica un'umanissima comprensione per un padre che, già scosso da un dramma interiore, si trova per anni sulle prime pagine della stampa, e riesce a conservare la propria lucidità intellettuale e il proprio razionalismo. L'attacco ideologico al «positivismo» e al «materialismo», favorito dalla gran presenza di medici fra imputati e testimoni, tradiva precisi disegni politici: agitare le acque del «caso Murri» serviva a denunciare gli avversari elettorali nel momento in cui i cattolici si presentavano come forza politica e legittimava la prospettiva di un rovesciamento delle alleanze della borghesia liberale, esecrando l'immoralità e la perversione della massoneria e della sinistra democratica e socialista (Tullio era consigliere provinciale del Psi a Bologna). Stampa, ideologia e politica incisero pesantemente sulle lunghe vicende processuali, segnate dal pregiudizio contro i Murri e specie contro Linda, ritenuta l'origine di un complotto ai danni del marito. Alle sollecitazioni impresse dal contesto, che finirono col confondere pericolosamente il giudizio morale (e politico) con quello giuridico, si aggiunsero quelle legate alla dinamica del confronto in tribunale, con le strategie confuse degli avvocati e dei periti della difesa, che danneggiarono forse gli imputati, e certo la stessa percezione pubblica della scienza. Il processo segnò il paradossale trionfo di una «psicologia spontanea» ai danni di psichiatria e psicologia, non solo nel pubblico nutrito dalla stampa, ma anche in seno a una giustizia che ritrovava la propria autonomia dalle ipoteche poste nei decenni precedenti da nuove discipline, come l'antropologia criminale.
Le analogie con l'affaire Dreyfus si fermano qui. In Italia, nonostante qualche tentativo a opera di Augusto Bianchi, Guglielmo Ferrero e Cesare Lombroso, non si registrò un sussulto degli intellettuali: i panni di novello Zola mal si adattavano a Pascoli, che avrebbe dovuto pronunciarsi pubblicamente sul processo, e i giovani intelletti raccolti attorno alle nuove riviste primonovecentesche odiavano le masse, il socialismo e il «positivismo». Qualche reazione internazionale si ebbe solo a processo concluso, con gli interventi, fra gli altri, di Björn Björnson e Heinrich Mann. A differenza della Terza Repubblica l'Italia non uscì più democratica dal «caso Murri», ma per certi versi i ruoli furono rovesciati, con la vittoria simbolica e culturale proprio di quei settori sconfitti a Parigi dal rilancio repubblicano.
Mentre la Francia, cent'anni fa, proclamava la separazione della vita pubblica da quella religiosa, il «caso Murri» accompagnava il rientro dei cattolici nell'arena politica. Dopo la parentesi laica del primo cinquantennio unitario si apriva una storia gravida di sviluppi: di lì a poco le benedizioni alle truppe italiane in Libia e sul fronte orientale, i patti lateranensi, il sostegno della Chiesa e di gran parte del mondo cattolico al fascismo, la crociata anticomunista del dopoguerra. Un storia che insiste sul nostro presente, basti confrontare col resto d'Europa l'attenzione spasmodica dei nostri media per le vicende vaticane, il crocefisso negli spazi pubblici, i finanziamenti pubblici alle scuole private, l'ipoteca cattolica sulle questioni morali, specie in tema di sessualità e riproduzione.
A un uso accorto delle risorse del racconto storico, l'autrice abbina il rigore dell'indagine, che finisce inevitabilmente per sbalzare dalla cronaca nera il «caso» e per calarlo non solo in un contesto politico, ma anche nelle tendenze più profonde di quell'epoca.
Ad esempio le reazioni alla trasformazione del ruolo femminile, esemplificate dalla pluralità di interpretazioni di Linda, capro espiatorio su cui vennero proiettate ansie e fantasie (fu infine graziata nel 1906). In quel quadro, risultava più rassicurante la persistenza di una barriera di classe, evidente nel destino di Rosina Bonetti, la domestica di origini popolari amante di Tullio, l'unica a cui venne riconosciuta la semi-infermità mentale, ma anche l'unica fra gli imputati a non potersene giovare: finì i suoi giorni in manicomio. In questa prospettiva, la curiosità del lettore per il «caso» forse non dipende solo dalla persistenza di un'attenzione più o meno morbosa per sentimenti, delitto e sesso, ma anche da altre continuità che legano il nostro presente con gli scenari del primo decennio del `900, l'epoca della prima «globalizzazione», del consolidamento del divario fra paesi industrializzati e gran parte del resto del mondo, di espansione dell'opinione pubblica, di conflitti sociali, agitata da venti di guerre lontane che presto si sarebbero avvicinate nel conflitto «mondiale». Al termine del quale, in nome della concordia della nazione vittoriosa, la grazia raggiunse anche Tullio Murri e l'amico Pio Naldi.

il manifesto, 21 aprile 2005

Nessun commento:

statistiche