8.2.13

Il fascismo e Roma. Col piccone e la ramazza (Lucio Caracciolo)

L’articolo, dello storico Lucio Caracciolo, è la quarta puntata di una serie dedicata alle vicende urbanistiche di Roma dal 1870 agli anni 70 del Novecento. Qui si racconta degli obiettivi e degli effetti delle scelte del fascismo (spesso di Mussolini in persona) sullo sviluppo dell’Urbe: si apprendono molte cose. (S.L.L.)
"Il Duce segue giorno per giorno, ora per ora, l'attuazione del vasto programma. Nulla sfugge al suo occhio vigile: dal restauro di un insigne edificio, dalla sistemazione di un quartiere, fino alle più modeste questioni di estetica cittadina, alla insegna luminosa che allieta una strada moderna, al cartello della pubblicità che deturpa una vecchia piazza, al fanale fuori posto, all' albero secco di un giardino, Egli tutto osserva, sorveglia, corregge".
Mussolini come un antico edile romano, dedito alla cura urbis? Per una volta l'immagine propagandistica è fondata. Uomo di svariati talenti e manìe, il Duce si picca di possedere una vena architettonica, e vuole applicarla. Visitando insieme a Hitler - altro patito di progettazione urbana - la Biennale di Venezia, confida agli intimi: "Io di pittura non m'intendo. Per capir di pittura bisogna far confronti. Non so farli. Io m'intendo d'architettura". Altre volte afferma di considerare la professione d' ingegnere "la più affine al mio spirito", oppure, in un impeto di proletaria modestia, assicura: "Prima di tutto posso fare il muratore: sono bravissimo!".
Più che urbanista, Mussolini si pretende scenografo. Come ogni dittatore, mette la politica in scena. Il suo palcoscenico è Roma, la "città parassitaria di affittacamere, lustrascarpe, prostitute, preti e burocrati, centro e focolare d'infezione della vita politica nazionale" che tanto l'indignava in gioventù. Questa Capitale dei travet lui sognerà fino all' ultimo di tramutarla in metropoli monumentale, dove le genti del Duemila riconosceranno la maschia impronta fascista.

I miraggi del duce
Il progetto di Mussolini è già tutto nel discorso pronunciato in Campidoglio il 31 dicembre 1925 per insediare il primo governatore di Roma fascista, Filippo Cremonesi (più noto come "Pippo Pappa"), sulla poltrona fin'allora occupata da sindaci elettivi. Vale la pena seguire Mussolini nel suo miraggio romano, perché vi troviamo l' annuncio delle grandi opere pubbliche del quindicennio a venire, dagli sventramenti alle borgate all' abbozzo dell' Eur.
"Tra cinquant' anni", ordina il capo del fascismo, "Roma dovrà apparire meravigliosa a tutte le genti del mondo. Vasta, ordinata, potente come fu ai tempi del primo impero d' Augusto. Voi continuerete a liberare il tronco della grande quercia da tutto ciò che ancora la intralcia. Farete dei varchi intorno al teatro di Marcello, al Campidoglio, al Pantheon; tutto ciò che vi crebbe intorno nei secoli della decadenza deve scomparire. Entro cinque anni, da Piazza Colonna per un grande varco deve essere visibile la mole del Pantheon. I monumenti millenari della nostra civiltà devono giganteggiare nella necessaria solitudine".
Fin qui l' apologia del "piccone demolitore". Ma l'occhio del Duce scruta il futuro meno immediato e profetizza: "La Terza Roma si dilaterà sopra altri colli, lungo le rive del fiume sacro, fino alle spiagge del Tirreno. Un rettilineo che dovrà essere il più lungo e il più largo del mondo porterà l'ansito del mare nostrum da Ostia risorta fino nel cuore della città". Ecco già l' intuizione dell'Eur e della via del Mare, della crescita lineare verso Occidente.
Infine un accenno misterioso, forse l'idea di una rete di borgate-satellite collegate via metropolitana al centro monumentale: "Voi toglierete la stolta contaminazione tramviaria, che ingombra le strade di Roma, ma darete nuovi mezzi di comunicazione alle nuove città che sorgeranno ad anello attorno all'antica".
Mussolini vuol dunque ridisegnare in pochi anni il profilo millenario dell'Urbe, così come pretende di resuscitare lo "spirito guerriero" che dorme in ogni romano. Ma Roma non è più il modesto capoluogo del depresso Lazio. Il fascismo stesso ha stimolato l'immigrazione nel centro direzionale del regime, e nel 1930 la soglia del milione di abitanti è valicata. I giornali annunciano che l'Urbe è la metropoli più vasta della terra, più estesa di Rio de Janeiro, Los Angeles e Berlino (in realtà sono calcoli esagerati, poiché si considera Roma tutta la campagna circostante e financo Ostia Lido).
Vale anche per Mussolini la legge contro cui s'infransero le velleità pianificatrici della disprezzatissima "Italietta sonnacchiosa e tornacontista" dei Sella, dei Crispi, dei Giolitti: la città si espande più rapidamente e più "spontaneamente" di quanto l'inventiva degli urbanisti possa prevedere. Sicché i piani regolatori sembrano star lì solo per esser violati dagli speculatori fondiari.
La forza della continuità è visibile persino nelle più celebri e discusse operazioni urbanistiche fasciste, gli sventramenti del centro storico. Mussolini benedice e santifica il "piccone demolitore", ma non l'ha inventato certo lui. I pregiudizi ottocenteschi contro il "pittoresco", il malinteso zelo igienista, la singolare idea di incanalare il traffico verso l' imbuto di Via del Corso, hanno già provocato, nel cinquantennio liberale, le demolizioni nel quartiere dell'Oca, gli sventramenti per via Nazionale e Corso Vittorio, le distruzioni a Monti e alla Suburra. Lo sventramento della "spina" di Borgo, intrapreso dal fascismo e completato dal Campidoglio democristiano, era allo studio già nell' autunno 1870. Ora come allora, il potere impone i suoi mutevoli simboli nel tessuto del vecchio centro.
Mussolini mobilita l'apparato propagandistico per conferire dignità ideologica alla "liberazione" dei monumenti romani dai sedimenti depostivi nei "secoli di decadenza". L'impresa affascina certi ambienti artistici e letterari. Emilio Cecchi teorizza la "psicologia delle demolizioni": "Le città camminano con gli uomini e non possono fermarsi... L'aspetto delle città è aspetto di vita e non di opera d'arte. E pur di non sostare, la vita accetta e naturalizza tutte le amputazioni, anche le più sconce e deturpanti".
1935. Mussolini inaugura i lavori per via dell'Impero e palazzo del Littorio
Il plauso del “Times”
In più di un caso l'avanguardismo demolitorio sfocia nel delirio e il Duce deve intervenire per frenare gli sventratori incontinenti. Così boccia il progetto Brasini, sorta di "soluzione finale" imperniata sull'annientamento e la ricostruzione neoromanesca dell'intero centro. Oppure, come vuole la leggenda, fa portare nottetempo colonne, bassorilievi e frammenti marmorei nel cratere appena scavato dell' Argentina, per impedirvi l'edificazione di un mostruoso palazzo dell' Istituto Beni Stabili.
Il ritmo degli sventramenti - ma si parla di "resurrezione" della maestà romana - è scandito dalle fatidiche date del 21 aprile, Natale di Roma, e 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma, quando gli alti dignitari si danno convegno per celebrare demolizioni e ricostruzioni compiute con "fascistica puntualità cronometrica". Mito della velocità? Non solo. E' come se il regime avvertisse la provvisorietà delle proprie fondamenta, e s' affrettasse a lasciare impronta di sé nel corpo venerato dell'Urbe.
Fulcro degli sventramenti è l'area tra Campidoglio e Colosseo. Mussolini impernia la scenografia della sua Roma ideale su Piazza Venezia, raduno delle folle oceaniche. Occorre perciò un imponente boulevard da parata tra l' Anfiteatro Flavio e Piazza Venezia. Per costruirlo a tempo di record (appena un anno), si sacrificano le case e le chiese barocche che ingombrano le pendici del Campidoglio, si scavano i Fori per poi ricoprirli in buona parte sotto una coltre d' asfalto, si sbanca la collina Velia. Cinquemilacinquecento sono i vani distrutti, millenovecento gli abitanti deportati in periferia.
Il 28 ottobre 1932, decennale dell' era fascista, Mussolini inaugura Via dell'Impero. Lo stradone, largo trenta metri, lungo novecento, lancia diritto il suo asse al balcone di Palazzo Venezia. Il Duce a cavallo di un nervoso destriero bianco passa in rivista i mutilati schierati lungo le vestigia di Roma imperiale. La stampa fascista esalta la "magnifica strada moderna", irride i "ritardatari che vorrebbero ancora visitare Roma con la guida di Stendhal, e si disperano di non trovar più i vicoli sudici e i pidocchi". Architetti di tutto il mondo e d'ogni orientamento salutano lo scavo dei Fori, esempio di integrazione tra città antica e moderna. Il “Times” plaude ai "miglioramenti che hanno cambiato il volto dell' Italia da quando Mussolini è al potere", assicura che "la rivista è stato uno spettacolo stupendo" e che la nuova arteria "ha uno sfondo senza pari". Altre voci criticano il dilettantismo degli scavi archeologici, la cieca distruzione dell' ambiente e dei documenti rinascimentali e barocchi. Le Corbusier dichiara che se potesse parlare con Mussolini, uomo di "mente sintetica", lo convincerebbe della necessità di tener distinto l'antico dal moderno, perché "in materia d'urbanesimo è una chimera volersi ricollegare al passato, che è sterilizzante: è come fare del turismo in paesi morti". Le Corbusier propone invece di collegare i sette colli con grandi ponti, come enormi passerelle gettate sulle antichità.
1936. Mussolini inaugura i lavori a Borgo di Spina
L’inquieto Bottai
Gli sventramenti obbligano il regime a trovare nuovi alloggi per le migliaia di famiglie sfrattate. Per loro, come per gli immigrati senza casa e senza lavoro che continuano ad affluire verso la Capitale dell' Impero, sorgono le borgate. Le prime - San Basilio, Prenestina, Gordiani - si segnalano per la povertà dei materiali, autarchici o di recupero, per l'assenza delle fondamenta e i poco invidiabili servizi igienici. Tra il '35 e il '40 sorgono altri insediamenti suburbani - Pietralata, Tufello, Trullo, Primavalle - di qualità migliore. E' la "sacrosanta opera di ramazza": si trasferiscono in periferia i poveri che offendono la vista, i riottosi, gli antifascisti inguaribili, i baraccati. Roma fascista deve apparire "lustra e pulita". "Delenda baracca!", proclama la rivista del governatorato. E, inorridita, descrive la cintura dell' Urbe, "una bruttura di sudicie baracche, un disordinato assedio di cenci pestilenti: pestilenze fisiche - crediamo che la spagnola vi abbia falciato dentro con gran giro di mano - e pestilenze morali, poiché i germi del vizio e del delitto allignano in quei tuguri con tutte le loro più venefiche insidie".
In realtà, malgrado l'efficacia di alcune opere assistenziali e igieniche, il dramma della miseria non verrà debellato. Più che altro, lo spettacolo fastidioso sarà progressivamente allontanato dal centro, verso la periferia.
La cura del decoro urbano è una vera ossessione, e non tocca solo i baraccati. Nel 1926 il governatore insedia una Commissione per l'Estetica Cittadina. Essa deve "disciplinare, con unicità di criteri, le molteplici iniziative per la costruzione delle mostre dei negozi, vetrine, tende, per la tinteggiatura dei fabbricati, per il collocamento di tabelle pubblicitarie luminose, insomma per tutto ciò che può considerarsi appartenente alla suppellettile della strada". Questa sorta di tribunale anfizionico si riunisce due volte a settimana, di buon mattino, e produce una media annua di diecimila pareri.
Il regime si sfoga con baracche e vetrine perché non sa o non vuole disciplinare l'edilizia. L'unico piano regolatore prodotto dal fascismo, disegnato nel 1930 da Piacentini, Brasini e Bazzani ispirandosi ai concetti espressi "con largo respiro di petto romano e sintetica lucidezza di mente latina" da Mussolini in persona, è il trionfo della "macchia d'olio". La Grande Roma cresce in ogni direzione, senza vincoli. Negli anni Venti e Trenta le palazzine coprono i Monti Parioli, cuore della città borghese, s'arrampicano su Monte Mario, dilagano oltre il Flaminio. Casermoni popolari spuntano a Est e a Sud lungo la Prenestina, la Casilina, l' Appia Nuova e l'Ostiense, fra le baracche e gli accampamenti di fortuna. L'espansione urbana soggiace tuttora al controllo delle grandi imprese di costruzione e dei monopoli fondiari. Il fascismo trova modo di caratterizzarsi con le enclaves monofunzionali: Città Universitaria, Cinecittà, Foro Mussolini. Non tutti i capi fascisti si rassegnano al caos edilizio.
L'inquieto Bottai, governatore dell' Urbe nel 1935-36, studia con Le Corbusier l'idea di una nuova Roma orientata verso i colli Albani e Sabini, per salvare quel che resta del centro storico. Ma poi si spaventa del proprio coraggio e lascia cadere il progetto.
Intanto l'Ufficio Studi del governatorato s'è innamorato del piano per la Grande Mosca varato da Stalin. Il Bollettino della Capitale elogia il progetto bolscevico. Esso è "caratteristico di un regime che accentra nello Stato ogni potestà normatrice e regolatrice della vita degli individui: non si limita a tracciare sulla carta strade, a indicare zone e altezze delle costruzioni, ma - programmando parallelamente i vari rami dello sviluppo urbano, dalle scuole agli ospedali ai trasporti ai magazzini di distribuzione - intende comprendere in una visuale unitaria tutta la città". Non si può esprimere più chiaramente la frustrazione di un regime che si vorrebbe rivoluzionario e organicista, costruttore dell' uomo e della città nuova, ma si vede superato sul suo terreno dal mortale nemico comunista.
Nemmeno Mussolini deve amare la "macchia d' olio", concetto che l'urbanistica fascista bolla come "abulico, agnostico, tipicamente ottocentesco". In un estremo sussulto, il Duce tenta di spezzare la tela di ragno: nasce il progetto Eur. La Capitale dell' Impero ottiene di ospitare l'Esposizione universale del 1942. E' la grande occasione per creare infine la Terza Roma fascista. Il 15 dicembre 1936 Mussolini ispeziona in automobile il territorio tra la città e il mare, e stabilisce che l' Esposizione (in sigla E 42) sorga presso le Tre Fontane.

L’Eur è una cometa
In un primo momento vorrebbe accontentarsi della solita, effimera esposizione di cartapesta, destinata a scomparire nel nulla. Sembra sia Bottai a convincerlo della possibilità di farne il nuovo centro di Roma. E allora torna di moda persino Sella, l'unico statista risorgimentale capace di immaginare l'espansione lineare della Capitale, sia pure nella direzione opposta a quella prevista dal Duce. L'architetto Giovannoni paragona l'E 42 a una "coda di cometa che si distacca dalla Roma attuale, dapprima limitata e serrata, poi sparsa nella campagna liberamente fino a Castel Fusano, fino al Tirreno". Ugo Ojetti canta la maestà del nuovo quartiere, magnifica il palazzo della Civiltà italiana coi duecento archi di travertino su sei piani, il palazzo dei Congressi che può contenere il Pantheon. L'onnipresente Piacentini coordina la straordinaria scenografia metafisica, dove i palazzi marmorei abitati da statue si stagliano su piazze deserte, come in un De Chirico. La guerra uccide anche l'ultimo sogno di Mussolini. Sarà Roma democristiana a costruire il quartiere incompiuto. Ma l'Eur non potrà essere il ponte avveniristico gettato verso il mare, a indicare il destino imperiale dell'Urbe. La "macchia d'olio" finirà per inghiottirlo, e la cometa di Giovannoni tornerà banalissima stella.

“la Repubblica”, 9 dicembre 1984

1 commento:

Unknown ha detto...

Mentre nel mondo nasceva il Razionalismo , metodologico- didattico di Walter Gropius, di Le Corbusier, di Alvar Aalto e di F.L.Wright , che trasformeranno a misura d'uomo il concetto stesso di Architettura e di Urbanistica mondiale, il Duce sventrava Roma per proporre le sue manie di grandezza al mondo: una grandezza che che non c'era, una pistola scarica.

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