9.2.13

Il filo rosso di Edoarda Masi (di Angela Pascucci)

Il filo rosso di Edoarda Masi (di Angela Pascucci)
Quello che segue è, in apparenza, uno di quei commenti alla scomparsa di una persona amica che i giornali chiedono e che sovente risultano imbarazzati o generici o vacuamente retorici o vagamente mnemonici, proprio per la difficoltà di fare i conti – in quattro e quattr’otto – con la ricchezza e la complessità di una vita. Qui Angela Pascucci riesce a fare assai di più ed il ricordo di Edoarda Masi riesce a trasmetterci un esempio di cui avevamo assoluto bisogno. (S.L.L.)  
Edoarda Masi

La speranza delle contraddizioni
«Saluta i compagni», così Edoarda Masi concludeva ogni volta le nostre conversazioni telefoniche, negli ultimi tempi purtroppo sempre più rare. E io ogni volta, commossa, mi chiedevo se fossi all'altezza della profondità e della coerenza che Edoarda poneva in quel termine caduto in disuso, oberato di sconfitte, ma al quale lei riusciva a infondere un senso vivo e presente, mai intaccato dai tempi gretti e carichi di solitudini in cui viviamo.
Non c'era soluzione di continuità tra la fiducia convinta con cui Edoarda pensava ai «compagni» e il rigore intellettuale con cui continuava a leggere le vicende tumultuose della Cina e con esse il mondo. Attirandosi talvolta le critiche di chi lo considerava un atteggiamento «ideologico», una nostalgia senza fondamento per un passato idealizzato e mai davvero esistito. Gli sterilizzatori della storia, i «normalizzatori» che a legioni si affannano a giustificare il presente che vince, non accettano che si possa coniugare passione politica e rigore intellettuale, come faceva Edoarda Masi, continuando a tenere ben saldo in pugno il filo rosso della coerenza. Coerenza che non significa acritica adesione a idee astratte, ma fedeltà a una visione del mondo e del suo futuro che renda, nella libertà e nei diritti, uguali le persone.
Edoarda non celava il proprio pessimismo sul presente. Su questo giornale, nel febbraio del 2008, aveva scritto. «Dovunque il medesimo processo di distruzione è in corso - delle nazioni, delle persone, delle cose e dell'intelligenza delle cose - senza che ancora appaia l'inizio di una nuova strada per liberarsi del mostro, che si presenta inafferrabile» e si chiedeva: «Allora in Cina ha avuto la meglio la colonizzazione - da cui era stata colpita ma a cui pure aveva resistito per secoli, fino alla liberazione nel 1949 - e non saprà dirci più niente di diverso da quanto già sappiamo?».
Sulla Cina di oggi, il suo sguardo era molto critico, ma non privo di speranza. Un paese talmente in trasformazione e diversificato, pieno di centomila contraddizioni, che sembra impossibile afferrarlo, mi diceva. Ma considerava questo anche il segno di una estrema vitalità.
Ogni volta che, viaggiando in Cina per “il manifesto”, ero colta dallo smarrimento per la miriade di situazioni contraddittorie che mi venivano incontro e che non riuscivo a combinare in una visione coerente, le scrivevo una mail, facendomi forte della sua fiducia e stima nel mio lavoro. La sua risposta, sempre affettuosa e incoraggiante, riusciva ogni volta a far ripartire la testa e rompere la solitudine, ridando senso al mio lavoro.
Nel 2006, nel mezzo di un viaggio carico di suggestioni poco domabili dalla scrittura, mi ricordò che lei stessa, nel 1957, quando si era recata in Cina per la prima volta, si era impegnata a mandare qualche corrispondenza a Raniero Panzieri per “Mondo operaio”: «non riuscii a farlo, era tutto troppo complicato e ricco». Mi consigliò di prendere appunti su tutto, «scrupolosamente e minuziosamente» e mi raccomandò «non sprecare nulla, non preoccuparti di arrivare subito a delle conclusioni (credo che nessun cinese, del resto, sia oggi in grado di farlo)». La sua lunga mail si concludeva con alcune considerazioni che ancora oggi ho ben presenti quando svolgo il mio lavoro. «Forse, nonostante tutto, "per questo paese c'è speranza" - come diceva Mao. Ma chissà per quali vie. Quello che io temo di più è la formidabile capacità di penetrazione distruttiva del capitalismo. E non so se la fiducia in una resistenza della propria civiltà, alla quale alcuni intellettuali cinesi credono, non sia illusoria. Ma la Cina non è l'Europa, e neppure quello che della Cina gli europei riescono a vedere. Non scoraggiarti, il tuo stesso apparente smarrimento è un punto di partenza utile per conoscere. Con "l'anima fanciulla", come scrisse un tempo Li Zhi». Grazie, Edoarda.

“il manifesto”, 2 settembre 2011

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