23.2.13

Parola di luogo: "Fornace". Vampe di luce ribelle (di Sandro Portelli)

Nell’agosto del 1989, “il manifesto” – com’è d’uso nel mese delle vacanze – dedicò tutti i giorni una delle pagine culturali ad una lettura più ampia dell’ordinario. Quell’anno il titolo della serie di ampi articoli era Parola di luogo ed ogni pezzo, affidato ad un collaboratore prestigioso, aveva come tema un luogo, visitato nei suoi riscontri filosofici e letterari, definito nella sua complessa significazione.
La parola Fornace venne affidata a Sandro Portelli, figura poliedrica di intellettuale, storico, musicologo, americanista, che usò come materiale di riflessione alcune tra le opere più importanti della narrativa nera degli Usa. (S.L.L.)

«Fissò la caldaia. Una nuova idea lo fece tremare. Poteva - poteva - poteva metterla, poteva metterla dentro la caldaia. Bruciarla! Era la cosa più sicura. Si accostò alla caldaia e aprì lo sportello. Un immenso letto rosso di carboni s'infiammò e si scosse con liquida furia».
E' la «scena madre» di Native Son (Paura), di Richard Wright (1941), e una delle scene madri di tutta la letteratura afro-americana. Bigger Thomas, ragazzo del ghetto, è stato appena assunto come autista dalla ricca famiglia Dalton (ma un altro suo compito è di tenere in funzione la fornace del riscaldamento in cantina). Accompagna fuori Mary, la figlia dei padroni, e quando questa torna a casa è troppo ubriaca per tornare in camera da sola; Bigger la porta su ma, mentre è nella sua stanza, sta per essere sorpreso dalla madre di lei. Per impedire che Mary lo tradisca, le mette un cuscino in faccia e - accidentalmente, ma fino a un certo punto - la soffoca. E, in una delle scelte più intenzionalmente sanguinose della letteratura nera, ne fa sparire il corpo bruciandolo nella fornace (e decapitandola a colpi d'accetta per farcela entrare). A lungo Bigger riuscirà a sviare le indagini: in quanto nero, creatura sotterranea e invisibile, è letteralmente al di sotto di ogni sospetto.
Caldaie, fornaci, cantine, tombini: nella tradizione afroamericana, sono un luogo deputato, metafora della collocazione sociale dei neri, ma anche del loro segreto potere di amministratori delle tenebre e del fuoco, della loro invisibilità alienante e minacciosa.
All'altro estremo della gamma della cultura, nel cuore profondo della tradizione orale, troviamo un'altra fornace: la stiva e le caldaie del Titanic, dove si annida uno degli eroi-trickster del folklore narrativo nero urbano, Shine. L'affondamento del Titanic fu accolto dai neri d'America come una specie di punizione divina alla hubris, all'arroganza, dei bianchi, forse addirittura una compensazione per il dramma del «passaggio Atlantico», il trasporto degli schiavi dall'Africa nelle stive delle navi negriere. «Quando la nave cominciò il viaggio, i ricchi rifiutarono di stare con i poveri; perciò misero i poveri di sotto, e furono i primi ad andare...». Ma l'eroe popolare Shine - un nome che è anche uno dei modi ironici di designare i neri - è invece l'unico a salvarsi: «Il sergente e il capitano si presero a male parole quando andarono a sbattere contro l'iceberg ed ecco che sale su Shine da giù di sotto: 'Capitano capitano, guarda che abbiamo nove piedi d'acqua nella sala caldaie...'».
E’ Shine che fa andare avanti la nave, ed è Shine che potrebbe salvarla pompando via l'acqua dalla stiva. Ma, incurante degli ordini e delle implorazioni dei banchi, del capitano che gli offre soldi e della figlia del capitano che gli si offre, si butta in acqua e torna a terra a nuoto: «Verso le quattro e mezza quando il Titanic stava affondando/ Shine era a Los Angeles col bicchiere in mano». Sono sicuro che questa è la storia che aveva in mente Malcolm X, quando diceva che ai neri non interessava «integrarsi in una nave che affonda».
Una elaborazione letteraria di Shine è in un episodio centrale di Invisible Man, di Ralph Ellison (1952). Il protagonista senza nome lavora in una fabbrica di vernici, e viene assegnato alla sala caldaie sotterranea («Era uno scantinato profondo. Tre piani sottoterra spinsi una pesante porta di metallo con scritto 'Pericolo' e scesi in una stanza opaca e rumorosa»), come assistente allo scorbutico Mr. Lucius Brockway, unico nero in questa fabbrica di bianchi che produce vernice bianca per gli edifici pubblici. Quasi nessuno si ricorda neppure più della sua esistenza, ma Brockway è il solo che sappia regolare la pressione nell'intrico di tubi e manometri dello scantinato; è lui che, segretamente, mescola alla vernice bianca quella goccia di nero che le conferisce il suo splendore di ingannevole purezza.
«Lo sanno tutti che io sono qui fin da quando esiste questo posto - ho persino aiutato a scavare le prime fondazioni»: è una metafora del sapere segreto del nero, partner segreto, invisibile fondamento dell'America (Ellison e Wright spremono il massimo di significato allusivo dalla parola inglese per «cantina»: basement).
«Loro hanno tutti questi macchinari,» dice, «ma c'è qualcosa che non hanno: Siamo noi i macchinari dentro il macchinario». Quando il protagonista dimentica di girare una manopola («Quella bianca, scemo, quella bianca!» gli urla Brockway), l'intero edificio ciò salta in aria.
Nel primo racconto pubblicato di Wright, Big Boy Leaves Home, un ragazzo che ha ucciso un bianco per difendersi sfugge al linciaggio nascondendosi dentro una rudimentale fornace che con i suoi amici aveva scavato per gioco su una collina. Immerso dentro la terra, invisibile, assiste al linciaggio del suo amico a lotta disperatamente con creature infernali, un bulldog e un serpente.
La fornace è, a suo modo, un inferno personale; e all'inferno, nel posto più buio, profondo e infuocato che si possa immaginare va a finire un altro eroe popolare nero, il «bad man» Stagolee, il duro del ghetto, ambigua figura di orgoglio nero urbano. Ma i neri, creature delle fornaci e delle caldaie, all'inferno si trovano a loro agio: «Stagolee disse al diavolo, se mi tocchi col forcone, io ti buco con la mia 41. Poi prese il forcone e lo mise via dicendo, fatti indietro, Diavolo, da ora in poi in questi posto comando io».
Julius Lester, uno dei protagonisti del radicalismo nero degli anni '60, amplifica e aggiorna la canzone in un racconto: avvicinandosi all'inferno, Stagolee «sentiva l'odore delle bistecche sul fuoco e la musica dei juke boxes. Arrivò all'ingresso dell'inferno, e c'era una grande scritta: Black Power... Entrò dentro, e i fratelli e le sorelle neri avevano messo la moquette da parete a parete, luci soffuse, l'aria condizionata...».
L’inferno arredato di Stagolee ha un precedente letterario nella musica e la tappezzeria che arredano lo scantinato dove si rifugia L'uomo che visse sottoterra, un altro racconto di Richard Wright. La musica è quella di una radio rubata, la tappezzeria sono i biglietti di banca rubati da una cassaforte e incollati al muro e al pavimento, svuotati ormai di ogni valore come i diamanti di cui si impadronisce e che finiscono calpestati nel fango della fogna. L'uomo che visse sottoterra porta alle estreme conseguenze - elaborando Dostoevskij e anticipando Camus e Sartre - la figura del mondo sotterraneo delle cantine e delle fornaci come habitat metaforico del nero, creatura dell'assurdo esclusa e sempre presente, invisibile e per questo in grado di vedere ogni cosa, libero proprio in virtù della esclusione che lo fa impazzire.
Anche qui c'è una fornace, ma stavolta è un bianco che la alimenta, e il suo modo di adattarsi all'universo delle tenebre e del fuoco è diametralmente opposto a quello dei neri. Anziché figura di potere come Brockway e, a suo modo, Bigger, l'addetto bianco alla fornace è un morto vivente: «Il vecchio lavorava lì da tanto tempo che non aveva più bisogno della luce; aveva imparato a vedere in questo mondo buio come i vermi ciechi che strisciano sotto terra affidandosi al solo tatto». E infatti non ha occhi per vedere il nero nascosto, ironicamente indistinguibile su un mucchio di carbone al buio.
Il narratore di questo racconto è penetrato nel mondo sottoterra calandosi da un tombino per sfuggire alla polizia. Sfuggendo a inseguitóri diversi, neri e bianchi, l'uomo invisibile di Ellison finisce anche lui dentro un tombino, e rie fa la sua casa sottoterra. Non c'è scritto Black Power all'ingresso (Ellison non simpatizzerà mai per i movimenti radicali), ma sempre di potere si tratta: la tappezzeria di questo buco, «caldo e pieno di luce», è costituita da 1369 lampadine («Ho collegato l'intero soffitto, centimetro per centimetro. E non con le lampadine fluorescenti, ma con quelle più costose, il tipo a filamento... adesso ho cominciato con le pareti... quando avrò finito le quattro pareti, comincerò col pavimento...») alimentate dalla corrente sottratta con un allacciamento clandestino alla Monopolated Light and Power Company.
Di nuovo, Ellison estrae dalle parole tutta la loro ambiguità: «power» significa potere, e significa energia elettrica, e l'energia che lui sottrae al monopolio elettrico è metafora di una battaglia sotterranea contro il monopolio del potere e del sapere, per la luce, la visione, il calore.
E anche qui c'è musica: «Adesso ho un radio-grammofono; ho in programma di procurarmene cinque. Il mio buco è un po' sordo acusticamente, e quando sento la musica voglio sentire la vibrazio¬ne, non solo con le orecchie ma col corpo intero. Mi piacerebbe sentire cinque dischi di Louis Armstrong che suona e canta Waht Did I Do to Be so Black and Blue? - tutti contemporaneamente».
Il romanzo di Ralph Ellison condensa tutti i significati del «basement» e della fornace come metafore dell'identità nera e del potere nero. Lo spazio: nelle fondazioni, nel «basamento» stesso dell'edificio sociale. Il buio: l'esperienza dell'invisibilità e dell'assurdo, che trasforma ironicamente l'incapacità bianca di vedere, o guardare, i neri nella contromanipolazione della goccia nera che rende più bianco il bianco, nella luce sfolgorante delle 1369 lampadine sottratta (nuovo Prometeo) al monopolio del «potere». E il fuoco: potenza ctonia nella fondamenta e nelle costole stesse della terra, sapere atavico e segreto custodito da figure demoniache e grottesche come Lucius Brockway, zoppo come Vulcano, capace - come Shine - di far andare la nave e di farla saltare in aria.
E infine, per chi si illudesse che questo potere sotterraneo può bastare, il suo rovescio. Perché una cantina alla fine è una cantina, e una fogna è una fogna: e Lucius Brockway non è che un povero vecchio paranoico e sdentato, e l'Uomo Invisibile che lo sconfigge non riesce poi a uscire dalla luce e dal calore rubati del suo buco sottoterra. E per quanto «potere» lui gli sottragga, il Monopolio dell'elettricità e della luce ha alla fine la sua rivincita: e Bigger Thomas muore fulminato sulla sedia elettrica.

"il manifesto", 17 agosto 1989

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