15.2.18

'I promessi sposi', l'antiromanzo con il freno a mano (Beniamino Placido)

Ci riusciremo, questa volta? Riusciremo a far accettare ai francesi il nostro romanzo nazionale, I promessi sposi? Le premesse ci sono, in quest'ultimo tentativo dell'editore Gallimard. C' è la nuova traduzione di Yves Branca. C'è l'introduzione autorevole di Giovanni Macchia. Ce la faremo? Può darsi di sì. Quanto meno ce lo auguriamo: per amor di Patria. E di quel pezzo di patria letteraria che è rappresentato dal romanzo manzoniano. Che in patria amiamo - o quanto meno rispettiamo - sinceramente.
Non v'è chi non abbia una sua familiarità, sia pure approssimativa, con le figure di Don Rodrigo, di Don Abbondio, di Lucia Mondella e Renzo Tramaglino: i due fidanzati difficoltati. All'estero molto meno. Inspiegabilmente meno. Mentre Dante è studiato, mentre Ariosto è amato. Perché mai? Qualche ragione c'è. I promessi sposi si presenta come un romanzo, si definisce come un romanzo, ma un romanzo non è. È qualcosa di diverso. È qualcosa di più; qualcosa di meglio, forse. Ma non un romanzo. Un romanzo - e specie un romanzo ottocentesco - è pur sempre un teatro delle passioni. Che possono essere blandite o contrastate. Anche punite, alla fine. Come accade a Emma Bovary, come accade ad Anna Karenina. Ma che lì stanno, al centro della scena.
I promessi sposi è piuttosto un trattato sulla disciplina delle passioni. Nonché delle azioni che esse ispirano. È la somma di tre o quattro romanzi passionali, potenzialmente appassionanti tenuti a freno (e con che mano ferma) dall'Autore. Tu lettore - dice egli fin dall'inizio - vorresti adesso una bella storia di vendetta. Romantica e romanzesca come quella del Michele Kohlhaas di Kleist. Non l'avrai. Renzo non si farà giustizia da sé, a spese di Don Rodrigo. Ci penserà la Provvidenza a mettere le cose a posto. Lei può. Lei sola è autorizzata. Tu lettrice, ti aspetti una dispiegata storia d'amore, fra Renzo e Lucia. Siamo o non siamo in un romanzo? Ma toglietelo subito dalla testa. Nemmeno un bacio quei due si daranno. Non in mia presenza. Tu lettore senti di aver diritto a un bel western, quando arrivano i Lanzichenecchi, e i nostri buoni villici dovrebbero correre ad abbracciare lo schioppo, per resistere. No. La cosa si risolverà in altro, "provvidenziale" modo. Tu lettrice vorresti trovarti immersa in una bella storia gotica quando appare quella gotica figura - tenebrosa e sciagurata - che è la Monaca di Monza. Ti aspetti castelli e segrete, fanciulle inseguite nei sotterranei, cadaveri seppelliti furtivamente nelle cantine. Nemmeno questo avrai. Tre parole soltanto: "La sventurata rispose". Di tutto questo l'Autore ci avverte onestamente fin dall'inizio. Quell'inizio lento, cauto, labirintico ("Quel ramo del lago di Como...") che dice: qui non si affretta il passo. Qui si riflette. Qui ci si pensa sopra, alle cose ("Pensarci sù" era un suo motto). Il lettore francese - ci auguriamo - non si lascerà scoraggiare. Capirà subito che non si trova di fronte né a Stendhal né a Balzac. Ma comincerà a chiedersi, incuriosito, che cos'è mai questo severo e sorridente, originalissimo antiromanzo. Al quale non si smette più di pensare, una volta che lo si sia letto.

la Repubblica, 17 gennaio 1996

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