15.2.18

Antonia Pozzi, un suicidio annunciato (Francesco Erbani)

Antonia Pozzi
Milano
Quando Antonia Pozzi arrivò, la mattina del 2 dicembre 1938, la neve aveva rivestito di bianco la campagna intorno all'abbazia di Chiaravalle. Lasciò la bicicletta e si sedette a pochi metri da una roggia, come in Lombardia chiamano i piccoli corsi d'acqua che traversano i campi. Aveva con sé un barattolo di pasticche. Le ingoiò con una sola sorsata d' acqua e poi si sdraiò sulla neve, dove la trovarono ancora viva. Morì poche ore dopo. "Polmonite", fece sapere il padre, un avvocato milanese possessivo ed ambizioso, sposato ad una nobile discendente di Tommaso Grossi, sacerdote di un rito mondano che bandiva il suicidio e che l'indusse a frugare nei cassetti dove la figlia custodiva le sue carte, a cancellare, tagliare, anche bruciare e poi emendare e ricopiare col proposito di consegnare al secolo un'Antonia Pozzi come voleva che fosse, una poetessa tragica, che cantava la natura e la morte, ma mondata di quelle che riteneva impurità del vivere.
Antonia Pozzi si suicidò a 26 anni. La gran parte delle sue poesie sono edite: la principale raccolta si intitola Parole ed è uscita recentemente da Garzanti in una versione ampliata rispetto alle precedenti, a cura di Alessandra Cenni e Onorina Dino (pagg. 424, lire 42.000). Ma ancora restano degli inediti: le carte della poetessa vennero donate dal padre della Pozzi alla Congregazione delle suore del Preziosissimo Sangue di Monza, insieme alla splendida villa settecentesca di Pasturo, in Valsassina, con tutti gli arredi e i libri che Antonia inondava di annotazioni. Molto restie, le suore a volte cedono alle insistenze di chi, per studio, vuol vedere quei quaderni. A niente, invece, sono valsi finora gli sforzi perché sfociasse in una pubblicazione la tesi di laurea di Elena Borsa, una giovane filologa allieva di Maria Corti, che ha curato l'edizione critica dell' intero "corpus" poetico di Antonia Pozzi. Alla poetessa milanese, che non ha ancora il risalto che la sua voce merita, è ora dedicata una piccola ma bella mostra organizzata da "Archivi del '900" (Via De Grassi 11, Milano), in cui sono raccolte le edizioni delle sue opere, alcuni manoscritti e soprattutto molte delle fotografie da lei realizzate, una specie di proiezione visiva dei suoi versi.
Antonia inizia a scrivere poesie a diciassette anni e fra i primi versi spiccano quelli dedicati ad Antonio Maria Cervi, il professore di latino e greco del liceo Manzoni, un uomo piccolo e per nulla fascinoso, di cui si innamora. È attratta - ricorda Elvira Gandini, una sua amica di allora - dalle sue lezioni sull'etimologia e sulla flessione delle parole, che le appaiono organismi dotati di vita. Cervi è uno studioso di talento. Forse non è del tutto consapevole di cosa provi per lui quella studentessa dalla sensibilità acuminata, longilinea e un po' legnosa, che riversa nella poesia il fallimento di una vita che sognava diversa. Un giorno Antonia e il suo professore si ritrovano a Napoli per una gita al Museo archeologico. In famiglia, però, la relazione è contrastata in ogni modo. L'avvocato Pozzi convoca Cervi e gli ingiunge di abbandonare la figlia. Ma è lo stesso Cervi che fa un passo indietro e chiede il trasferimento a Roma (si è anche detto, ma è improbabile, che sia stato il padre di Antonia a fare in modo che il professore cambiasse sede). In ogni caso la passione di Antonia non scema. "Amore, amore mio, tanti baci, sai, continuamente sognavo di dare e di ricevere nella mia adolescenza, quando ero sola e cattiva, ma erano sogni torbidi come un delirio", gli scrive nel gennaio del '30. "L'altro giorno mentre ti baciavo, l'anima mia era limpida come una tazza d'acqua". La corrispondenza dura almeno fino al febbraio del 34, accompagnata dall'avversione del padre di lei, un'ostilità che si manifesta persino dopo la morte di Antonia, quando l'avvocato Pozzi si trova per le mani le poesie dedicate al professore e con un rabbioso tratto di penna cancella quel nome (e questa amputazione la ritroviamo ancora nell'edizione di Parole del 1989).
Dal 1930 si apre per Antonia una nuova stagione. Iscritta alla facoltà di Lettere della Statale, frequenta i corsi di filosofia tenuti da Antonio Banfi, in particolare le lezioni di estetica, ed entra a pieno titolo nel gruppo dei suoi allievi prediletti, una straordinaria officina del pensiero dove troviamo Vittorio Sereni, Giulio Preti, Remo Cantoni, Alberto Mondadori, Enzo Paci e Luciano Anceschi. Maria Corti, di qualche anno più giovane e studentessa di Benvenuto Terracini, ricorda quei seminari nella vecchia sede in Corso di Porta Romana, che iniziavano alle 11 di mattina e si prolungavano ben oltre l'orario stabilito, proseguendo sotto i portici oppure a casa di Banfi. "Banfi era elegante e ironico", racconta la Corti, "incantava quasi diabolicamente: nel sorriso e nel modo in cui passeggiava parlando di Proust o di Kant celava un forte tratto di narcisismo". Ascoltavano le lezioni anche Ernesto Treccani e Guido Morselli, studente di Legge, di cui Banfi era stato insegnante al liceo Parini. Figure diverse tra loro. "Preti assomigliava molto alla Pozzi, per la tragicità interiore che manifestava, ed era il più geniale di tutti", rievoca la Corti. "Paci era ambizioso, Anceschi incarnava il prototipo dello studioso solare". Con Banfi la Pozzi si laurea discutendo una tesi su Flaubert, che verrà poi pubblicata a cura del filosofo.
Eppure Banfi non era stato tenero con la giovane allieva. Un giorno, racconta Elvira Gandini, lei gli portò da leggere alcune sue poesie. "Si calmi, signorina", fu l'altezzosa replica messa per iscritto dal celebre professore. La Pozzi non è la sola, fra gli studenti di Banfi, a scegliere il suicidio. Ricorda Maria Corti che prima di lei, nel 1935, si uccide Gianluigi Manzi ("Io sono una donna", scrive la Pozzi nel suo diario, "ma devo essere più forte del povero Manzi che si è ammazzato per una ragione uguale alla mia"). Nel 1972 Giulio Preti va a morire a Djerba, in Tunisia, senza portare con sé le pillole cui è legata la sua sopravvivenza. Morselli si spara un colpo alla tempia nel 1973. Cantoni muore di propria volontà nel 1978. Nessuno si spinge a indicare con precisione cosa abbia indotto Antonia Pozzi al suicidio. Provò a uccidersi già un'altra volta, ma i genitori arrivarono in tempo a salvarla. Aveva contratto la depressione e con la morte conviveva da tempo, fin da quando era uscita dall'adolescenza: ne sono prova molti suoi versi e tante annotazioni di diario. Con fatica ne ha parlato una volta Dino Formaggio, al quale la Pozzi era affezionatissima, che forse amava, compagno di passeggiate e di chiacchierate lungo la strada che da Milano porta a Chiaravalle, quella percorsa in bicicletta la mattina del 2 dicembre 1938. Formaggio citava, a proposito dell'addio di Antonia Pozzi, le ultime parole di Cesare Pavese: "Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi". A Formaggio Antonia scrisse due lettere nella primavera e nel settembre del 34 accompagnando alcune sue fotografie. "Caro Dino, l'altro giorno hai detto che nelle fotografie si vede la mia anima: e allora eccotele. (...) Conservale per mio ricordo, per ricordo del nostro incontro (...). Caro, caro Dino, che tu almeno possa foggiare la tua vita come io sognavo che divenisse la mia: tutta nutrita dal di dentro e senza schiavitù". Formaggio evoca una "indistinzione immaginativa tra sogno e realtà". La Corti risale a quello "sguardo distaccato, a quell'occhio freddo di chi vede la Terra dall' aldilà". La Gandini ricostruisce il dramma collettivo di quegli ultimi anni Trenta con il fascismo che stringe ogni spazio di libertà e vara le leggi razziali, colpendo uno degli amici più affettuosi di Antonia, Paolo Treves. Ma non si può escludere l'atmosfera familiare, con una madre molto debole e un padre autoritario e simpatizzante per il regime.
Antonia ha un mondo di affetti e di valori tutto diverso, ma non riesce a realizzare né ad esternare la sua ribellione - se non nella poesia, dove compare più la natura che non le persone e dove si affollano le metafore dell' acqua e dei monti, a indicare una ricerca di sé che confina con l' annullamento. L'avvocato Pozzi, borghese esemplare, non può ammettere che i versi di Antonia ingombrino il ricordo che vuole lasciare di lei. E così manipola le carte e, fra le altre, massacra a colpi di penna una poesia che solo ora si può leggere, Canto della mia nudità, in cui esplode un corpo liberato dagli impacci: "Oggi, m'inarco nuda, nel nitore / del bagno bianco e m'inarcherò nuda / domani sopra un letto, se qualcuno / mi prenderà. E un giorno nuda, sola, / stesa supina sotto troppa terra, / starò, quando la morte avrà chiamato".


“la Repubblica”,12 giugno 1999  

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