5.2.18

La sera in cui l’Austria sparì (Paolo Soldini)

È il 12 marzo del 1938. Sono passate da poco le otto di sera. Il dottor Kurt Schuschnigg, cancelliere federale della Repubblica austriaca, sta per lasciare per sempre il palazzo sede del governo, al numero 2 della storica Ballhausplatz. Le stanze sono vuote e buie, ma nelle finestre della Sala delle Colonne, quella in cui si riuniva il Consiglio dei ministri, brilla il riverbero della festa che ha riversato migliaia di viennesi sulla Hofburg. L’Austria finisce. Sotto il grande ritratto di Francesco Giuseppe, Schuschnigg scorge nella penombra un gruppo di persone, armate e in borghese. Sono tedeschi, ma non sono soldati: sono agenti della Gestapo.
L’invasione sarà domani, ma l’Austria è finita stasera. Schuschnigg viene portato via, passerà sette anni tra Buchenwald e Dachau. Poco dopo il presidente della Repubblica Wilhelm Miklas, per evitare un massacro, cederà all’ultimo ricatto e nominerà il fedelissimo e fanatico Arthur Seyss-Inquart, che già era stato imposto al ministero dell’Interno, a capo di quella che diventerà la Marca Orientale del Terzo Reich. Hitler entrerà da trionfatore nella «sua» Linz e poi terrà un memorabile discorso sulla Hofburg gremita di austriaci in delirio. Il referendum per sancire l’Anschluss, l’annessione, sarà un plebiscito e per sette anni la Oestermark fornirà al Reich di cui è parte soldati, poliziotti, funzionari pubblici. E torturatori, e boia nei campi di sterminio.
La ricostruzione di quella sera alla Ballhaus è il racconto della Grande Contraddizione che l’Austria del dopoguerra non è riuscita ancora, dopo settant’anni, a scrollarsi di dosso. Si sa: per motivi che avevano molto a che fare con i delicatissimi equilibri della guerra fredda e molto poco con la realtà dei fatti, le grandi potenze inscenarono negli anni 40 e 50 la farsa dell’Austria «aggredita» e «soggiogata» dal potente vicino del nord, rimuovendo ogni considerazione sui fattori endogeni che avevano portato spontaneamente una buona parte dell’opinione austriaca dalla parte del «connazionale» Hitler e della sua corte feroce. Solo da qualche anno la parte più consapevole dell’intelligencija ha cominciato a valutare i danni che questo imbroglio storico fondato su una (comprensibile e per certi versi perfino ragionevole) manifestazione di Realpolitik ha prodotto nello spirito pubblico austriaco: a cominciare dalla mancanza di un dibattito critico «sulle colpe dei padri» come quello che, con tutte le debolezze e tutte le contraddizioni, ebbe luogo in Germania almeno dai processi di Auschwitz dell’inizio degli anni Sessanta in poi.
La storia non torna mai indietro e non avrebbe alcun senso ripercorrerla alla ricerca delle colpe per omissione dell’establishment politico (e più ancora culturale) in materia di riflessione sulle responsabilità che gli austriaci ebbero nella Shoah e nel grande massacro della guerra mondiale. Quello che però si può fare, e che secondo molti l’opinione austriaca non ha mai fatto abbastanza, è indagare sul perché e sul come la giovane Repubblica alpina ritagliata dentro i confini etnici tedeschi dall’impero multinazionale absburgico cedette alle pressioni del regime ultranazionalista e ferocemente antislavo del grande vicino del nord contro gli interessi e contro l’opinione che (almeno nell’establishment) era, anche dopo la reductio, largamente contraria in Austria all’ipotesi grossdeutsch, ovvero all’unificazione di tutte le nazioni europee etnicamente tedesche.
La ricostruzione accurata degli eventi che portarono all’Anschluss, resa possibile soprattutto dai verbali del Processo di Norimberga (e in particolare dagli interrogatori di Göring, dell’ex ministro degli Esteri Joachim von Ribbentrop, di Seyss-Inquart, del Capo di Stato Maggiore Alfred Jodl e del comandante generale della Wehrmacht Wilhelm Keitel), offre alcuni spunti importanti di riflessione.
Il primo è la durezza con la quale furono trattati Schuschnigg e il suo ministro degli Esteri Guido Schmidt nell’incontro all’Obersalzberg dove Hitler li aveva convocati l’11 febbraio. Le testimonianze rese a Norimberga da Keitel e Ribbentrop fanno pensare a vere e proprie torture psicologiche, come per esempio il divieto di fumare imposto al cancelliere, affetto da un tabagismo che lo portava a consumare 50 o 60 sigarette al giorno; oppure le «sceneggiate» con cui Hitler faceva credere che l’invasione dell’Austria fosse già in atto e che Schuschnigg e Schmidt sarebbero stati arrestati, se non fucilati sul posto. Ma se alla fine il cancelliere cedette e firmò un documento in cui per gli assassini del suo predecessore Engelbert Dollfuß (ucciso nel luglio del ‘34 durante un tentativo di putsch nazista) era prevista non solo l’amnistia ma l’arruolamento nella polizia austriaca, fu anche perché la situazione politica del regime era molto debole.
La dittatura clerico-fascista, antioperaia e antisemita, che era stata instaurata da Dollfuß aveva distrutto le organizzazioni della sinistra e i sindacati, ma aveva affondato il regime in una situazione di crescente isolamento, con la borghesia che era affascinata dai successi economici del Reich, il mondo intellettuale e scientifico che soffriva sotto il giogo asfittico d’una chiesa cattolica la quale, pur se inquieta per la presenza evangelica nel vicino Reich, sentiva fortemente il richiamo di Roma e della vicina Baviera alla crociata antibolscevica.
Una sola certezza aveva avuto, fino a un certo momento, il regime fascista austriaco: l’appoggio dell’Italia. Era stato Mussolini che, schierando le truppe al confine, aveva fatto fallire il putsch del ’34. E, come risulta dagli atti di Norimberga, nella fatidica notte del 12 dicembre fu solo alle 22 e 45, quando l’ambasciatore tedesco a Roma, il principe Filippo d’Assia, riferì a Hitler sull’atteggiamento del Duce, che si ebbe la certezza della riuscita del colpo di Stato. «Arrivo ora da Palazzo Venezia», telefonò l’ambasciatore al Führer: «Il Duce ha preso la cosa in modo molto amichevole e mi incarica di salutarla di cuore». «Non lo dimenticherò mai», disse Hitler, e le stesse parole le indirizzò direttamente, il giorno dopo, in un messaggio «all’amico Benito».
La ricostruzione effettuata a Norimberga, dove l’Anschluss ebbe notevole spazio nella discussione perché fu individuato, giustamente, come una delle violazioni del diritto internazionale che avrebbero portato alla guerra, permette di fissare tre punti dai quali la cultura della Repubblica, ma più ancora il suo spirito pubblico, dovrebbe trovare forse più motivi di riflessione sulla sua propria storia. Il tradimento di Mussolini ebbe conseguenze nefaste perché avvenne ai danni di un regime che era già intrinsecamente debole. La debolezza del regime diede mano libera ai dirigenti nazisti: se Schuschnigg e il pur coraggioso Miklas non fossero stati considerati nelle cancellerie europee già cadaveri politici, forse le potenze occidentali avrebbero trovato più motivi a sostenere l’indipendenza dell’Austria di quanti non ne avrebbero trovati, sei mesi dopo a Monaco, per difendere l’indipendenza della Cecoslovacchia. La storia non si fa con i «se», ma ragionarci intorno è possibile e, spesso, necessario. Forse l’Austria, a settant’anni dall’Anschluss, dovrebbe esserne più consapevole.


“l’Unità” 9 febbraio 2008

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