24.2.18

Che ne sai tu di un campo di grano (Martina Liverani)

Una coltivazione di grano tenero della varietà Gentil Rosso

Tra gli appassionati di panificazione, pasticceria, pizza e lievitati in genere, da qualche anno circola il tormentone “grani antichi”, che sta a indicare la farina ottenuta da grano che non ha subito incroci varietali naturali per migliorarne le caratteristiche produttive. Al di là dell’agronomia, tali grani sono interessanti dal punto di vista storico, organolettico e paesaggistico (le spighe sono alte o nane, con una gamma di colori che va dall’oro al rosso, dal verde al marrone scuro) ma, sebbene sia molto di moda, la dicitura convenzionale non deve invitare a generalizzare. Perché la novità è proprio questa: un grano al plurale, con tante declinazioni territoriali.
L’Italia è da sempre un granaio pieno di diversità, al punto che si potrebbe creare una mappa regionale con le differenti tipologie di grani locali. A moltiplicare questa varietà ha contribuito Nazareno Strampelli, l’agronomo marchigiano che all’inizio del secolo scorso si occupò del miglioramento genetico dei grani, praticando incroci naturali tra semi italiani e semi stranieri per ottenere specie più forti e produttive. Il lavoro di Strampelli – che da un lato creò nuove varietà poi diffuse rapidamente in tutto il Paese (tra cui il Senatore Cappelli, celebre tra i gourmet), ma dall’altro fu il primo tassello verso l’abbandono delle varietà autoctone – venne poi superato dalle coltivazioni industriali, standardizzate e a resa ancora più alta.
L’inversione di tendenza si è avuta negli ultimi quindici anni, quando alcuni piccoli agricoltori italiani hanno ricominciato a seminare i grani dimenticati. Giuseppe Li Rosi (terrefrumentarie.it), agricoltore siciliano, preferisce parlare di grani locali: la sua regione vanta un primato di diversità, tutte raccolte alla Stazione Sperimentale di Granicoltura di Caltagirone (granicoltura.it), che dal 1927 si occupa di preservare le cinquanta specie di grani siciliani. Grazie al lavoro di agricoltori come Giuseppe, negli ultimi anni i grani locali stanno tornando nei campi con un’opera culturale e ambientale che fa bene al territorio e anche a chi se ne nutre: «Il frumento locale non ha bisogno di essere difeso dalle piante infestanti con diserbanti chimici, né di funghicidi, ma è in grado di badare a se stesso: le spighe si difendono da sole le une con le altre».
In Romagna, Lucia Ziniti (cantinasanbiagiovecchio.com) ha ripreso la coltivazione del Gentil Rosso, che da quei terreni era sparito a seguito dell’adozione delle varietà inventate da Strampelli. Come la maggior parte dei grani antichi locali, il Gentil Rosso ha un basso contenuto di glutine e la sua farina ha minor elasticità rispetto a quelle comuni a cui siamo abituati, ma in compenso è più digeribile e organoletticamente più ricca. A piena maturazione, le spighe sono alte fino a 1,60 metri e sembrano giganti rispetto alle spighe delle coltivazioni commerciali, che arrivano strategicamente all’altezza di 90 centimetri (perfetta per la trebbiatura). Nelle Marche, Massimo Mancini (pastamancini.com) ha costruito il suo pastificio in mezzo ai campi su cui coltiva sia varietà moderne che grani antichi turanici, così chiamati perché originari del Khorasan – regione a Nord-Est dell’Iran – e presenti in Italia prima di essere dimenticati in tempi moderni. La resa è molto inferiore rispetto ai grani “moderni”: si va dai 45 ai 55 quintali per ettaro per questi ultimi, contro i 15 quintali per i grani turanici. Una scelta di qualità, tutela e conservazione, che ha un costo.
Oltre che per le rese minori, le farine ottenute dai grani antichi hanno prezzi superiori rispetto alle farine ottenute da varietà moderne perché ogni passaggio della filiera è più costoso rispetto al processo industriale. Spesso sono macinati a pietra, come accade al Mulino Marino (mulinomarino.it) di Cossano Belbo nelle Langhe, dove dall’inizio del Novecento si usano ancora le macine a pietra naturale per la lavorazione dei grani “primordiali” (questa è la definizione che Fulvio Marino ama usare); tale macinazione permette di preservare le caratteristiche organolettiche, ma se con un impianto industriale a cilindri si possono macinare fino a 3 mila chili di farina ogni ora, le macine a pietra naturale producono dai 150 ai 200 chili, e ciò incide al rialzo sul prezzo finale.
Anche gli chef amano la farina di grani antichi, sia per i loro cestini di pane che per le creazioni di pasticceria, un po’ per moda, un po’ per le richieste del cliente sempre più attento alla questione della digeribilità. In Alta Badia, Andrea Tortora lavora come pasticcere nella brigata di Norbert Niederkofler presso il ristorante stellato Rosa Alpina e dice: «Parte del mio lavoro sta proprio nella ricerca di grani antichi e locali, che uso perché hanno meno glutine e sono quindi più digeribili».
Al di là della digeribilità, piacciono tanto perché in fondo rappresentano un legame con la civiltà rurale a cui apparteniamo.

Pagina 99, 20 febbraio 2016

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