16.6.10

Un marchese perugino. Orazio Antinori, naturalista e repubblicano, esule ed esploratore. Uno "spostato" sempre nel mirino della polizia.

Erano tutti massoni
"Arancia blu" è uno dei supplementi più belli che abbia mai accompagnato "il manifesto". Uscì, credo mensilmente, tra il gennaio del 90 e il dicembre del 91, con la direzione, credo, di Enzo Tiezzi, uno scienziato di grande valore, ma anche uno dei padri in Italia dell'ecologia politica.
"Arancia blu", il cui nome derivava dall'impressione che la terra fece ai primi astronauti, si presentava come una "rivista di ambientalismo scientifico ed ecologia dell' immaginario" e proponeva una lettura in verde dei grandi temi culturali. Si occupava, quasi in parallelo, dei grandi temi della incipiente globalizzazione e degli angoli nascosti della provincia italiana. Erano cento pagine di carta patinata, con foto di qualità e inchieste. Curava la redazione Fabio Mariottini, poi per molti anni direttore responsabile di "micropolis".
L'articolo che qui propongo (da alcune pagine ritagliate senza indicazioni di numero o di data) è di Simonetta Lombardo ed Enrica Lucarelli. In qualche modo mette in relazione la nostra Perugia e i grandi spazi del mondo, raccontando di un avventuroso marchese repubblicano.
Trovo la storia interessante e divertente; dissento da una qualificazione buttata là, alla fine, senza spiegazioni, "massone", indicata come origine della diffidenza verso Orazio Antinori "della ridondante Italia sabauda". E' sbagliato: anche l'Italia moderata e conservatrice era in gran parte massonica. Massone era il re (come Garibaldi), massoni erano tanti ministri (come i loro oppositori in Parlamento), massoni probabilmente erano anche quei funzionari di polizia che tenevano d'occhio il marchese Antinori (S.L.L.). "Tentare le vie orientali per raggiungere la regione dei Laghi equatoriali, allontanandosi completamente dagli itinerari conosciuti, e scrutare negli spazi ignorati che si stendono a mezzodì dell’Abissinia la migliore direzione per intersecare la linea percorsa da Speke e da Grant, partendo dal paese dei Somali e dirigendosi verso il bacino lacustre del Vittoria Nianza”. Questo in breve lo scopo della prima esplorazione governativa tentata in Africa dal neonato stato italiano, nel 1876. A spingere il governo sabaudo nell’avventura esotica non è stato solo un moto d’orgoglio nazionalistico di rivalsa rispetto ad altre più potenti nazioni europee, n’è l’amore per la ricerca scientifica.
Il motore principale dell’esplorazione è, come è avvenuto precedentemente per Francia e Gran Bretagna, l’apertura di una via di penetrazione per la colonizzazione. Non a caso la spedizione organizzata dalla Società geografica italiana e finanziata da una raccolta di fondi pubblica, partiva da una Regione, l’Abissinia, in cui in seguito si svilupparono ampiamente le mire espansionistiche italiane.
La missione fu un disastro. Privi di mezzi, circondati da popolazioni che pagavano un pesante tributo alla tratta degli schiavi, gli italiani furono costretti a tornare indietro, senza nemmeno aver avvistato il primo dei laghi equatoriali, quella serie di piccoli oceani che segnano la spaccatura della Rift, tra gli attuali Kenia e Tanzania. Capo della spedizione era un anziano signore dall’aria dimessa, fisicamente e culturalmente molto lontano dall’ideale dell’esploratore africano, Orazio Antinori.
Naturalista e repubblicano, aveva passato dieci anni di vita nell’asilo politico ed ancora all’epoca della spedizione era sotto osservazione della polizia sabaudo, come appartenente al cosiddetto partito d’azione, ovverosia al movimento repubblicano. Un uomo a cui era strano affidare la direzione della prima esplorazione di regime. Ma talvolta, e questo era il caso, le intenzioni dei governi e quelle dei singoli non corrispondono.
Il marchese Orazio Antinori nasce a Perugia nel 1811 da una famiglia legata al regno pontificio: aristocrazia “nera” che finalmente, dopo la tempesta napoleonica, può a tornare a respirare liberamente. Gli studi sono poco proficui, il liceo benedettino non lo attrae, solo gli studi naturalistici con il monaco Barnaba Lavia strappano il giovane Antinori all’ozio. E’ con una presentazione della nobile ma squattrinata famiglia che nel 35 arriva a Roma per lavorare con Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino nipote di Napoleone e naturalista di fama, allora, mondiale. E’ con lui che Orazio Antinori comincia a entrare seriamente nel vivo della scienza zoologica, ancora impastoiata in grandi problemi di classificazione e suddivisioni in categorie.
La ricerca si fa sul campo, nel vero senso del termine, e rigorosamente dietro al mirino di un fucile da caccia. Poi segue l’opera accurata del tassidermista che deve rispettare tutte le minime caratteristiche fisiche che permettano di far rientrare un mammifero o una lucertola nell’elenco di questa o quella famiglia o specie. Un lavoro sporco ma essenziale per gli scienziati dell’epoca, che lo affidano volentieri a un assistente. E’ Antinori a costruire l’enorme collezione bonapartiana di animali impagliati, a predisporre le pose più naturali in cui i disegnatori che collaborano alla stesura della Iconografia della fauna italica, il primo trattato italiano di grandi dimensioni, ritraggono pipistrelli, talpe e gabbiani.
Alcune delle litografie che illustrano le dispense periodiche dell’Iconografia sono attribuibili ad Antinori, fra cui il bellissimo falco che pubblichiamo su queste pagine. In cambio della collaborazione Bonaparte fa partecipe il giovane naturalista dei suoi studi e gli attribuisce la scoperta di una nuova specie, il Sorex antinorii, una piccola arvicola dei campi. Ma non è solo arvicola l’influenza del principe di Canino, animatore dei circoli repubblicani e democratici, che spianano la strada alle riforme di Pio IX prima e alla proclamazione della Repubblica Romana nel 1949. Lo stesso Antinori lascia il ruolo di eterno secondo per gettarsi nella lotta politica. Con Mazzini siede all’Assemblea costituente come rappresentante del popolo romano: una carica che si è conquistata, fra l’altro, arruolandosi nell’esercito di volontari romani che corre in aiuto di Venezia contro gli austriaci. E’ fra gli ultimi a lasciare Roma, dopo la sconfitta della Repubblica, trascinando con sé la cassa delle finanze che gli viene comunque sequestrata a Terni dalle stesse truppe francesi e papalini a cui voleva sottrarla.
E’ l’esilio, in Grecia e in Asia minore. Da Costantinopoli, Smirne e Rodi, dove sopravvive di espedienti cerca, secondo le fonti della polizia segreta, di riorganizzare le sparse fila dell’emigrazione politica, ma senza troppo successo. Nel frattempo la sua illustre famiglia lo disereda e, ancora dopo la sua morte, suo nipote si riferirà a quel periodo come di una “visita” in Grecia. Le necessità di sopravvivenza ne fanno una specie di withe hunter, un procacciatore di selvaggina per le battute di caccia esotica degli europei in Asia minore. Poi un piccolo commercio di animali impagliati per i Musei, in società con uno svizzero: apparentemente lo stesso lavoro che ha fatto per Bonaparte, ma è finita l’avventura scientifica e di conoscenza…
Nel 1859 è per caso in Egitto, porta dell’Africa. La possibilità di un’avventura molto diversa: al Cairo fa sosta la strana fauna dei malati d’Africa, mercanti di cera e piume di struzzo, cacciatori d’elefanti, avventurieri vari di cui tanti immischiati nella tratta di schiavi. E’ una tentazione troppo forte per l’ex repubblicano, un uomo non più giovanissimo che vive da dieci anni vagando, senza riuscire a trovare una ragione di agire. Fino al ’62 è preso da un vorticoso giro di esplorazioni: si cercano le sorgenti del Nilo e il Sudan è diventato terreno privilegiato per spedizioni di tutti i generi. Antinori è quasi sempre con due o tre compagni, quasi privo di mezzi e di equipaggiamento. Il suo bagaglio è costituito in gran parte da strumenti di ricerca, lentini, vasetti e alcool, dagli attrezzi per impagliare. Scegliendo le sue compagnie fra quelli non coinvolti per la tratta di schiavi, scende a più riprese a sud di Karthum, prima sul Nilo Azzurro, poi più ad Occidente, nella regione di Kordofan e infine, nel ’60, sul Nilo bianco nel tentativo di raggiungere la regione degli Azande, quella dei mitici Niam Niam, i “selvaggi con la coda” di improbabili reportage di esploratori ottocenteschi. Il viaggio, come del resto i precedenti, si svolge tra difficoltà incredibili. Antinori e Carlo Piaggia, un mugnaio lucchese pieno di risorse cui si devono le maggiori scoperte geografiche del periodo, si trovano, si fanno largo a forza si scure nelle foreste acquatiche del Nilo Bianco, sulle tracce dei cacciatori d’avorio, fino a raggiungere il territorio del Djiur, nell’estremo lembo meridionale del Sudan, quasi ai confini dello Zaire attuale. Gli incontri dei due esploratori e della loro ridottissima scorta si limitano a quelli con le carovane degli schiavi, ma, attorno, la natura offre molte possibilità d’oCorsivosservazione a un ornitologo. Le febbri, le inondazioni, la morte di un acquistato compagno di viaggio costringono i due a riprendere la via del ritorno. Riportano con loro una ricchissima collezione ornitologica comprendente 250 specie diverse e una serie di oggetti di grande interesse etnografico. La prima viene venduta dallo stesso Antinori al Museo di Torino. La collezione di oggetti di uso comune (monili, poggiatesta, banchetti, vasi) viene ceduta all’Università perugina. Si tratta in ambedue i casi di reperti di grandissimo interesse raccolti nel momento che precede la massiccia colonizzazione di quella parte dell’Africa.
Dopo l’avventura africana l’esule può coronare due sogni: tornare in Italia, essendo cadute con l’unificazione le antiche liste di proscrizione, e inscrivere il suo nome tra i naturalisti. A Torino incontra Negri e Correnti, che stanno mettendo in piedi la Società geografica italiana, ed entra in contatto con un folto gruppo di scienziati. Ma è sempre nel mirino della polizia. dai documenti del Ministero dell’Interno si sa che egli è tenuto d’occhio per il suo passato. Nel 1867 diventa il primo segretario della Società geografica italiana: è sempre alle prese con problemi finanziari, ma gli si aprono le porte degli incarichi ufficiali. E’ all’inaugurazione del Canale di Suez; testimone dell’acquisto della Baia, un improbabile stazione di sosta per le navi italiane che percorrono la nuova via d’acqua; poi in Tunisia, a verificare quanto sia folle il progetto di colmare una parte delle basse terre con acque canalizzate dal Mediterraneo, per farne una sorta di mare interno e modificare il clima del Sahara.
L’avventura ai laghi equatoriali, nel 1876, è rischiosa, ma fa di tutto per averne il comando. In un certo senso l’esperienza dell’esilio ne ha fatto, come spesso accade, uno “spostato”. stavolta però la responsabilità è grande e il suo modo di viaggiare e di concepire l’esplorazione si scontra con la concezione tutta coloniale di fare le cose in grande. Tanti attrezzi e vettovaglie, tanti rapporti diplomatici da tenere: la spedizione si rivela su questo piano un disastro. La partenza da Zeila, porto sul Mar rosso poco distante da Gibuti, si fa praticamente senza l’assenso dell’emiro che la governa, poi c’è la massacrante ascesa sull’altipiano etiopico, l’attraversamento del fiume Awash – oggi parco nazionale - , l’arrivo nel regno dello Sioa, dove viene ricattato dal re Menelik che chiede sostanziosi invii di fucili in cambio del suo appoggio. La spedizione si divide: il capitano Martini Bernardi torna in Italia a perorare senza successo questa richiesta, Antinori che ha perso l’uso della mano destra in un incidente rimane a Let Marafià, divenuta base italiana, Cecci e Chiarini continuano vero Sud, ma sono imprigionati nel piccolo regno di Ghera. Un’esplorazione fallita che dura, in tutto, ben sei anni, fino alla morte di Antinori, nel 1882. Un inizio disastroso per la disastrosa colonizzazione italiana dell’Africa orientale: non si dovevano affidare a un repubblicano, a un esiliato, a un senza terra, un massone, i destini della ridondante Italia sabauda.

1 commento:

simonetta lombardo ha detto...

Caro Lo Leggio
in effetti Antinori era un massone del genere mangiapreti, non troppo ben visto dall'Italia sabauda. Peraltro, lo stesso Garibaldi non si può dire che abbia goduto di tutti i privilegi che la sua fama avrebbe potuto garantirli. Una piccola imprecisione invece su chi curava Arancia Blu, non era Mariottini (effettivamente in redazione) ma Simonetta Lombardo, come caporedattore. Cordiali saluti
Simonetta Lombardo :)
(Ha ragione, Arancia blu è stata una rivista splendida, finita troppo presto e anche abbastanza male)

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