24.6.10

Armenia (di Antonio Gramsci, 1916)

Un Gramsci giovanissimo ma già grande. Un tema insolito nel panorama socialista del tempo. Un approccio attualissimo, soprattutto per il metodo, per la qualità della riflessione. (S.L.L.).
Avviene sempre così. Perché un fatto ci interessi, ci commuova, diventi una parte della nostra vita interiore, è necessario che esso avvenga vicino a noi, presso genti di cui abbiamo sentito parlare e che sono perciò entro il cerchio della nostra umanità. Nel Père Goriot, Balzac fa domandare a Rastignac: “Se tu sapessi che ogni volta che mangi un arancio, deve morire un cinese, smetteresti di mangiare aranci?”, e Rastignac risponde press’a poco: “Gli aranci e io siamo vicini e li conosco, e i cinesi son così lontani e non sono neppure certo che esistano”.
La risposta cinica di Rastignac noi non la daremmo mai, è vero; ma tuttavia, quando abbiamo sentito che i turchi avevano massacrato centinaia di migliaia di armeni, abbiamo sentito quello strappo lancinante delle carni che proviamo ogni volta che i nostri occhi cadono su della povera carne martoriata e che abbiamo sentito spasimando subito dopo che i tedeschi avevano invaso il Belgio?
E’ un gran torto non essere conosciuti. Vuol dire rimanere isolati, chiusi nel proprio dolore, senza possibilità di aiuti, di conforto. Per un popolo, per una razza, significa il lento dissolvimento, l’annientarsi progressivo di ogni vincolo internazionale, l’abbandono a se stessi, inermi e miseri di fronte a chi non ha altra ragione che la spada e la coscienza di obbedire a un obbligo religioso distruggendo gli infedeli.
Così l’Armenia non ebbe mai, nei suoi peggiori momenti, che qualche affermazione platonica di pietà per sé o di sdegno per i suoi carnefici; “le stragi armene” divennero proverbiali, ma erano parole che suonavano solo, che non riuscivano a creare dei fantasmi, delle immagini vive di uomini di carne ed ossa. Sarebbe stato possibile costringere la Turchia, legata da tanti interessi a tutte le nazioni europee, a non straziare in tal modo chi non domandava altro, in fondo, che di essere lasciato in pace. Niente mai fu fatto, o almeno niente che desse risultati concreti. Dell’Armenia parlava qualche volta Vico Mantegazza nelle sue prolisse divagazioni di politica orientale.
La guerra europea ha messo di nuovo sul tappeto la quistione armena. Ma senza molta convinzione.
Alla caduta di Erzerum in mano dei russi, alla probabile ritirata dei turchi in tutto il paese armeno non è stato dato nei giornali neppure lo stesso spazio che all’atterramento di un “Zeppelin” in Francia. Gli armeni che sono disseminati in Europa dovrebbero far conoscere la loro patria, la loro storia, la loro letteratura. E’ avvenuto in piccolo per l’Armenia ciò che in grande per la Persia. Chi sa che i più grandi arabi (Averroè, Avicenna etc.) sono invece… persiani? Chi sa che quella che si è soliti chiamare civiltà araba è invece in gran parte persiana? E così quanti sanno che gli ultimi tentativi di rinnovare la Turchia furono dovuti agli armeni e agli ebrei? Gli armeni dovrebbero far conoscere l’Armenia, renderla viva nella coscienza di chi ignora, non sa, non sente.
A Torino qualcosa si è fatto. esce da qualche mese una rassegna intitolata appunto “Armenia” che con serietà di intenti, con varietà di collaborazione dice cosa sia, cosa voglia, cosa dovrebbe diventare il popolo armeno. Dalla rivista dovrebbe partire l’iniziativa di una collana di libri che con più efficace persuasione e dimostrazione desse all’Italia un quadro di ciò che è la lingua, la storia, la cultura, la poesia del popolo armeno.
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Firmato A. G., “Il Grido del Popolo”, 11 marzo 1916, anno XXII, n.607, ora in Opere di Antonio Gramsci. Scritti giovanili (1914-1918).

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