17.6.10

Piero Calamandrei sulla mafia (1956)

Uno dei primi libri (e dei più belli) pubblicati in Italia sui rapporti tra la mafia siciliana e il gangsterismo Usa è opera di Ed Reid, un brillante giornalista americano. Lo pubblicò nel luglio del 1956, in un tempo in cui la politica di governo negava perfino l’esistenza della mafia, l’editore Parenti di Firenze, nella traduzione di Mario Pacor e con la prefazione di Piero Calamandrei. Sono passati cinquant’anni e più e le riflessioni del grande giurista antifascista mi sembrano tuttora penetranti. Ne posto qui una parte (S.L.L.).

E’ bene che gli Italiani leggano, anche se con una continua stretta al cuore, questo libro. Vien fatto di domandare se tutto quello che finora è stato detto sulla mafia non abbia bisogno di una certa revisione. Si è detto che la mafia è il portato della miseria. Ma i Siciliani che capeggiano la mafia americana sono miliardari; e anche in Sicilia i capi della mafia non sono poveri: i poveri fanno sempre, anche di fronte alla mafia, la parte di vittime e di ricattati. Si è detto che la mafia è il portato della società feudale, che tuttora sopravvive in certe zone della Sicilia; ma l'economia americana è ben lontana dal feudalesimo; e tuttavia la mafia di origine siciliana vi alligna con spaventoso rigoglio.
Un carattere comune, in Sicilia e in America, mi pare che meriti di essere rilevato: che è sempre difficile stabilire con una linea netta, qua e là, dove l’attività della mafia cessi di essere attività criminale e diventi camarilla elettorale: dove cessi di essere brigantaggio e diventi cricca politica. Nel caso di Giuliano è tipica questa incertezza di confini. In Sicilia come in America questa complicità rimane costante: la mafia vive indisturbata, perché le autorità politiche (certe autorità politiche) hanno in essa il proprio strumento elettorale. prima che un fenomeno sociale ed economico è un fenomeno di costume politico: è un metodo di sottogoverno di una classe politica.
In Sicilia la mafia non scomparirà fino a che vi saranno sindaci, deputati e magari ministri che debbano la loro elezione alla mafia; che contino sulla mafia per la loro rielezione; fino a che non vi saranno partiti di popolo che nelle lotte elettorali osino dichiarare, denunciando nomi e cognomi, guerra aperta alla mafia, come una volta, in un memorando comizio che finì con una sparatoria generale, ebbe il coraggio di fare Girolamo Li Causi, che vi restò ferito.
La sparizione della mafia non può venire in Sicilia che dalla vittoria popolare, che porti a un rovesciamento della situazione politica e infranga omertà e acquiescenze. Durante il processo di Danilo Dolci a Palermo ogni tanto mi sentivo sussurrare nomi di deputati e anche di ministri, le cui fortune si fondano, si dice, sul favore della mafia. Chi si mette contro questi uomini è perduto: il meno che gli possa accadere è di trovarsi isolato, col vuoto intorno, alla fame. Non si ha un’idea chiara, fuori dalla Sicilia, dell’eroismo di cui debbono dar prova certi avvocati e certi magistrati per osare di prendere le difese della giustizia, e di far luce su certi delitti.

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