6.2.13

Colombo, un mistico verso il Nuovo Mondo (Valerio Castronovo)

Non è facile decifrare un personaggio come Cristoforo Colombo, figura complessa e contraddittoria, oggetto delle versioni più fantasiose. Le sue stesse origini sono rimaste per molto tempo avvolte nell' oscurità, e ciò ha dato luogo ad interminabili dispute. Di volta in volta gli sono state attribuite nazionalità diverse: italiano, corso, catalano, portoghese. E c'è chi, come Salvador de Madariaga, ha sostenuto che Colombo fosse un ebreo convertito profugo dalla Spagna; mentre altri lo facevano venire, addirittura, dalla Grecia o dalla lontana Scandinavia. Ma anche quando lo si riconosceva di sangue italiano, non tutti erano d'accordo sui suoi natali genovesi: alcuni lo avrebbero voluto originario di questo o quell' altro centro della riviera ligure, se non del Piacentino o del Monferrato.
A dire il vero, il maggior responsabile di tanta babele fu il figlio stesso di Colombo e suo primo biografo, Fernando, preoccupato tanto di nascondere le origini modeste del padre quanto di sviare opportunatamente le pretese di quanti avrebbero voluto metter le mani sulla sua eredità. Oggi si sa, senza alcuna ombra di dubbio, che la famiglia di Colombo, originaria dell' Appennino ligure, dopo aver soggiornato a Savona, si stabilì nei sobborghi di Genova per praticare la tessitura della lana e un piccolo commercio di vini, e che il giovane Cristoforo compì il suo primo tirocinio navigando al servizio di diversi mercanti genovesi che possedevano varie filiali lungo le coste del Mediterraneo e intrattenevano rapporti fin nella lontana Guinea.
Fatto sta che nel 1479 lo troviamo in Portogallo, in possesso di una solida esperienza marinara e tutt' altro che sprovvisto di conoscenze geografiche: giacché la sua convinzione che la terra fosse rotonda, e non già piatta, si fondava sulla lettura di un buon numero di testi di scienziati e di umanisti da lui compulsati riga per riga con un lavoro scrupoloso da certosino (anche se le premesse scientifiche del suo viaggio, che lo avrebbe dovuto portare nel favoloso Kataj navigando verso occidente, si basavano su calcoli erronei in ordine ai tempi e alle distanze del percorso). Tutto ciò smentisce le dicerie, fatte circolare da alcuni suoi critici malevoli, che Colombo fosse un plagiario o un ladro di segreti altrui, per quanto sia innegabile che egli badasse a tenere gli occhi ben aperti quando si imbatteva nelle carte di astronomi e cosmografi.
Per il resto, interi squarci della vita dell'uomo che saldò il Vecchio al Nuovo Mondo rimangono tuttora senza storia. Tanto che del protagonista della scoperta dell'America si conosce meno di quanto si sappia invece di alcuni grandi viaggiatori dell'antichità. Ciò che è pervenuto fino a noi del suo Giornale di bordo non è altro che un riassunto dell'originale steso dal domenicano Bartolomè de las Casas: pochi sono i passi autografi dell' ammiraglio in questo diario che, per quanto suggestivo ed avvincente in alcune pagine, si presenta ora eccessivamente decurtato, ora infiorato di commenti superflui. D'altra parte né gli amici più intimi di Colombo, né i suoi familiari ci hanno lasciato testimonianze precise o esaurienti; persino nella vastissima collezione dei suoi ritratti non c' è un solo dipinto che lo colga dal vero senza indulgenze agiografiche o qualche adattamento di circostanza. Si deve alle indagini più recenti di alcuni autorevoli studiosi - dal francese Jacques Heers (di cui è stato tradotto nel 1983 un documentato saggio per i tipi di Rusconi) a Paolo Emilio Taviani (che, presso la De Agostini, ha pubblicato una robusta opera in due volumi) se alcune lacune sono state infine colmate e se parecchie circostanze non appaiono più, come in passato, contraddittorie o diffuse di luci ingannevoli.
Chi era dunque Colombo? Innanzitutto era un grande uomo di mare che conosceva perfettamente l'arte della navigazione e quella del comando. Per quanto possa sembrare strano, non tutti hanno infatti riconosciuto a Colombo il talento e la perizia necessari per mettersi a capo di una spedizione tanto ardita ed ambiziosa. Onde il suo successo sarebbe stato propiziato, esclusivamente o quasi, da una fortuna fuori del comune. Così come ad una serie di circostanze casuali, se non ai misteri dell'animo femminile, sarebbe dovuta l'approvazione del suo progetto da parte della regina Isabella. In realtà, sebbene Colombo non abbia esitato a servirsi di vari stratagemmi per accreditare il suo piano, l'astuzia di cui pure era dotato non sarebbe bastata di per sé a far breccia presso la monarchia spagnola, se essa non fosse stata sorretta, oltre che da una buona dose di audacia e di ostinata determinazione, dall'appoggio che numerosi personaggi d'alto rango finirono per accordare ad una causa che in fondo era congeniale alle mire espansionistiche della Spagna appena unificata.
Quanto al modo con cui fu varata e condotta la spedizione, solo a prima vista le tre piccole caravelle su cui egli e i centoventi uomini del suo equipaggio salparono da Palos nell'agosto 1492, possono sembrare delle fragili giunche che, una volta nel mezzo dell' Atlantico, non si inabissarono per puro caso. Si trattava, invece, di imbarcazioni scelte a ragion veduta: navi tonde per eccellenza, esse potevano affrontare infatti, senza correre il pericolo di essere travolte, non solo i venti di traverso ma anche quelli contrari, e inoltre erano quanto mai adatte a bordeggiare in vicinanza di qualsiasi tipo di costa e a risalire i fiumi all'interno grazie alla loro leggerezza e al loro basso pescaggio. Di fatto, con una flotta di questo genere, Colombo riuscì a vincere due spaventose bufere in pieno inverno. Ma, ciò che è più importante, l'uso della caravella (il cui costo d' armamento non era molto elevato), una volta che fu collaudato nel primo viaggio verso l'America, rese accessibile quasi immediatamente la rotta oceanica a una folta schiera di altri esploratori e colonizzatori.
Colombo non era soltanto un marinaio per eccellenza, era anche un uomo ben consapevole dei problemi della società in cui viveva e profondamente intriso dei valori del suo tempo. L'idea che egli concepì di raggiungere l'Estremo Oriente molto più sicuramente e rapidamente da ovest anzichè da est, trovò udienza perché affondava le sue radici nell'ossessione di cui era allora afflitta mezza Europa, quella di una crescente penuria di oro e di argento che, minacciando di inceppare il rifiorire dei traffici, si pensava di rimuovere con la ricerca di nuove fonti nelle contrade più lontane. Ma Colombo, partendo per la meta che si era prefissa, e che si sarebbe poi svelata sotto le sembianze di un immenso continente fino ad allora del tutto ignoto, non si riprometteva soltanto di riportare in patria una gran quantità di metalli preziosi, né di impersonare gli ideali del Rinascimento proiettato alla scoperta dell' uomo e del mondo.
La letteratura storiografica - che a lungo si è soffermata sui motivi economici dell'impresa di Colombo, o che nella scoperta dell'America ha fissato una sorta di spartiacque tra l'età medievale e quella moderna, fra un'epoca soggetta ai dogmi ecclesiastici e ai vincoli della natura e una nuova pervasa di valori laici e di grandi fermenti creativi - ha trascurato la profonda religiosità di Colombo e le matrici più autentiche della sua sfida all'Oceano. Per quanto fosse uno spirito inquieto e aperto alle novità, egli era più legato alla Spagna della "reconquista" che all' Italia rinascimentale: era l'uomo che nel gennaio 1492 aveva visto sventolare le bandiere della Cristianità sulle torri dell'Alhambra, l'ultima roccaforte iberica dell'Islam, e che aveva intrapreso la sua missione (preannunciata da varie profezie) come il proseguimento delle Crociate all' ombra della politica di evangelizzazione del papato.
Secondo Heers, l'avventura nelle Indie fu, per Colombo, soprattutto una sorta di ricerca mistica e di peregrinazione, volta alla conquista degli infedeli e dei pagani sotto il vessillo della Croce. Insomma, una missione nel segno della fede, come quelle che in epoca medievale spingevano i "campioni di Dio" ad abbandonare tutto per porsi al servizio della chiesa. Ciò non toglie che, una volta approdato in America, Colombo sia tornato in Europa, dal suo secondo viaggio, con le navi cariche di schiavi e, dal successivo viaggio, con un buon bottino di oro e di perle, e in più con un desiderio di potere ben lontano dai suoi propositi originari. Ma non fu lui a instaurare quello spietato regime coloniale che di lì a pochi anni avrebbe depredato e distrutto le antiche civiltà indigene.
Tornato in Spagna nel novembre 1504, dal suo quarto e ultimo viaggio - durante il quale, insieme all' esigenza di far quadrare i conti della sua spedizione, tornarono a manifestarsi le sue suggestioni religiose, quasi si trattasse di concludere un compito storico affidatogli dalla divina Provvidenza - egli assistette da lontano nell' ultimo scorcio della sua vita, sempre più solo fra molte delusioni e amarezze, alla rapace e crudele dominazione di quanti si erano gettati sulle sue orme.
I "conquistadores" - sebbene fossero mossi dal suo stesso desiderio di avventura e di proselitismo - appartenevano ormai a un'altra razza. E' vero che uomini come Cortès, Pizzarro, Almagro e altri - per metà esploratori e per metà affaristi - avevano ancora in testa alcuni ideali cavallereschi, divulgati dai poemi epici medievali, o erano pervasi da quello stesso spirito di Crociata che aveva animato a suo tempo la Spagna cristiana nelle guerre contro i mori. Ma essi recavano con sè soprattutto le frustrazioni e i bisogni di rivalsa di strati sociali in cerca di quella fortuna che era loro preclusa in patria.
Furono costoro, figli cadetti della piccola nobiltà o rampolli squattrinati di famiglie borghesi cadute in povertà, e non Colombo, a edificare le fondamenta della Spagna imperiale. Ed essi lo fecero con tanta avidità di potere e di ricchezza, con un' aggressività così straripante, con una somma tale di arroganza e di pregiudizi, da relegare presto in secondo piano non soltanto la fama che Colombo si era procurata ma da far passare per peccati veniali gli arbitrii che a suo tempo egli aveva commesso nei confronti degli indigeni.
Al Genovese, uomo di mare e figlio di artigiani, era toccato in sorte di scoprire il Nuovo Mondo; ma furono poi i Castigliani, gente di terra nomade e guerriera, alla ricerca da sempre di qualche titolo o di un piccolo feudo che li affrancasse da una condizione di estrema precarietà, a imporre in America l' idea della conquista, della sopraffazione di altri popoli e del dominio imperiale. "Siamo venuti qui - scriverà con franchezza disarmante Bernal Diaz del Castillo, lo storico della conquista del Messico condotta con inenarrabili atrocità - per servire Dio e il Re e anche per diventare ricchi".

“la Repubblica”, 7 marzo 1985

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