23.3.18

Joseph Roth. Un lupo solitario senza illusioni (Italo Alighiero Chiusano)



Quest’uomo dai baffi spioventi, dagli occhi chiari e ironici è uno dei personaggi più compositi dell’Europa tra Ottocento e Novecento. Per la lingua che usa, Joseph Roth appartiene alla letteratura germanica. Per il mondo geopolitico che l’ha visto crescere e maturare fa parte dell’Impero austro-ungarico. Per la città che lo vide nascere, nel 1894, e cioè Brody, in Galizia, oggi sarebbe cittadino sovietico. Per il sangue che gli circolava nelle vene, per il midollo del suo spirito e della sua sensibilità, è un figlio del popolo ebraico. Per il paese che lo ospitò in esilio (dopo che l'avvento di Hitler lo aveva fatto sloggiare nel 1933 da Berlino e nel 1938 da Vienna) e che lo vide morire, abbrutito e miserabile come un barbone nel 1939, a Parigi, dovrebbe considerarsi francese.
Anche la sua ideologia è combattuta e cangiante. Il suo disperato assillo verso il meglio gli fa prima cercare la palingenesi dell’umanità nel la rivoluzione bolscevica, magari adattata al più duttile umanesimo europeo. Ma un «Viaggio in Russia» (questo il titolo di un suo libro), compiuto nel 1926, gli fa vedere, con forte anticipazione, che quell’esperienza è già sulla via della fossilizzazione autoritaria e burocratica. Joseph Roth resta, per qualche anno, un mesto lupo solitario, un illuminista acuto senza troppe illusioni. Poi si converte, e sul serio, al cattolicesimo. Ma in politica ne fa un uso funerario, rimpiangendo un passato ormai ben morto, ancorché affascinante: quello degli Absburgo e del loro bicipite impero.
Così, come scrittore, inizia ai confini dell’avanguardia, muovendosi in ambito ancora espressionista. Tra il 1923 e il 1929 pubblica romanzi di acerba critica sociale, rappresentando in forma franca, scheggiata, sarcastica il crollo dell’illusione liberale e borghese, lo scoppio quasi liberatorio ma anche apocalittico della guerra e della rivoluzione, l'inizio di quel terremoto planetario che è la grande crisi. Gli italiani, questo Roth prima maniera, volterriano e insieme biblico-profetico, l’hanno conosciuto più tardi, ma è forse qui che egli ci ha dato le sue note più pungenti. Parlo di libri come Hotel Savoy, La ribellione, Fuga senza fine, Zipper e suo padre, Destra e sinistra.
Poi inizia il Roth numero due, e siamo ai titoli celebri o celeberrimi: Giobbe, La marcia di Radetzky, Tarabas, I cento giorni, Confessioni di un assassino, Il peso falso, La cripta dei cappuccini, La milleduesima notte, La leggenda del santo bevitore. La religiosità di lui, prima di sapore laico e politico, un profetismo soprattutto del rinnovamento sociale, ora non solo si àncora alle sue nuove certezze cattolico-absburgiche, ma opera un intenso recupero del suo fondo ebreo, chinandosi con infinito amore su chi vive o viveva nei ghetti dell’Europa orientale.
Se nella fase precedente Roth faceva pensare ai ritmi futuristici, ai sassofoni del jazz, ai rombi delle fuoriserie, ora egli manifesta la sua vocazione a essere l’ultimo discendente di Flaubert e di Tolstoj, un narratore di grande o sommesso respiro epico. La sua «musica» adesso è quella struggente delle liturgie ebraiche, quella solenne dei corali barocchi, quella trascinante delle marce militari, o del valzer, magari il più triste e mortuario di tutti i valzer possibili.

EUROPEO/9 MAGGIO 1987

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