27.3.18

Wislawa Szymborska. Uno sguardo nitido e mai compiaciuto (Antonella Anedda)

Quando vinse il Nobel nel 1996 molti, non conoscendola, si stupirono. In realtà Wislawa Szymborska, già famosa all’estero, era stata pubblicata da Vanni Scheiwiller poco prima e tradotta, con un legame che solo la morte di entrambi, a poca distanza l’uno dall’altra, ha spezzato, da Pietro Marchesani. Il libro, si intitolava Gente sul ponte. L’immagine sulla copertina era tratta da una tavola del pittore giapponese Utagawa vissuto nella prima metà dell’Ottocento e ammirato da Van Gogh. Rappresentava alcune persone sorprese da un acquazzone su un ponte. Non si vedevano i visi, ma solo i corpi descritti con precisione tra gli aghi di pioggia. Una scelta perfetta che sembrava sintetizzare il tratto di questa poesia: essenziale, nitida, complessa. C’era in Wislawa Szymborska, e la conoscenza della persona lo confermava, qualcosa della Cordelia shakespeareana. La sua poesia non a caso forse così traducibile, non ha nulla di compiacente, né di arrogante, ma prova a dire la verità a costo di essere sgradevole, con se stessa prima di tutto. La sua franchezza non ha bisogno di ornamento, il suo linguaggio è leggero per trasparenza. Prima di parlare a noi dà del tu a se stessa, interrogandosi ci interroga. Non ha paura delle ripetizioni né delle parole comuni. Non ha risposte per quanto riguarda la poesia: «la poesia -\ma cos’è mai la poesia?\Più d’una risposta incerta è stata già data in proposito,\Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo \come alla salvezza di un corrimano».
I suoi soggetti vanno da un gatto nell’appartamento di un morto a una riflessione sul Novecento, da una lettura di poesia con pochi partecipanti a una riscrittura dell’episodio biblico della moglie di Lot. È - come Elizabeth Bishop (non a caso paragonata anche lei, a Cordelia, da Seamus Heaney,.. ) - un poeta di sguardo, un’osservatrice darwiniana, dimentica di sé, disinteressata, Anche Szymborska cerca, e cerca spesso, divertita dalla difficoltà, risoluta e allo stesso tempo reticente, Se dice io è appunto per mettersi alla prova e semmai chiedersi se esista davvero, Se smaschera qualcosa è il nostro smarrimento, il nostro dimenticare che le nostre origini non sono né angeliche, né demoniache, Conosce il potere, dunque l’impotenza, sa che il corpo è più forte della mente.
Diversa ma impensabile senza l’esempio di Tadeusz Rozewicz, Julia Hartwig, Mi-losz e soprattutto la lezione di stoicismo di Zbigniew Herbert, Szymborska attraversa e sperimenta anche attraverso errori personali come una poesia dopo la morte di Stalin, la paura e il conformismo, non nega le sue responsabilità, ammette di aver ceduto alla tentazione dell’ideologia: «Ho fatto parte di una generazione che ha creduto», precisa in un’intervista del 1991, «io credevo, svolgevo i miei compiti in versi credendo di far bene». La delusione per un secolo che doveva essere e non è stato migliore di altri è affidata a versi che denunciano l’indifferenza della storia, a parole scritte su «un foglio comune» e a un vocativo che non dà scampo: «Scrivilo,,, \non fu dato loro da mangiare / Tutti sono morti di fame. Tutti, quanti? /È un prato esteso, quanta erba è toccata a ciascuno? / Scrivi: non saprei, \La storia li arrotonda a zero»,
Ecco, davanti a questo «arrotondare a zero» l’unica possibilità della parola che non consola e non salva, è forse dare realtà a quell’unico nome, corpo che viene inghiottito dalle cifre, scegliere l’esattezza, non avere illusioni, né certezze ma compassioni. La moglie di Lot (pubblicata e allora passata inosservata la prima volta su «Micromega» pochi mesi prima dell’assegnazione del Nobel) è uno dei commenti più struggenti alla fragilità di noi esseri umani e forse il testo più emblematico della sua opera. Rileggiamola tenendo a mente il forse che fruscia dietro ogni lettera, Lot non si volta ma sua moglie sì. Dicono lo abbia fatto per curiosità ma Szymborska precisa, dandole voce, che si è voltata per mancanza, per rivolta, per desiderio di cose mortali: «guardai indietro perché rimpiangevo la mia coppa d’argento per distrazione - mentre mi allacciavo un sandalo / per non dover più guardare la nuca proba di mio marito Lot, / per l’improvvisa certezza che se fossi mortale non si sarebbe neppure fermato, / Per la disubbidienza degli umili...».

“il manifesto”, 3 febbraio 2012

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