29.3.18

La Gerusalemme di Flaubert e di Dumas (Franco Cardini)



Gerusalemme. La cupola della moschea di Umar in sezione. Incisione (1864)
Il 29 ottobre 1849 due amici allora entrambi neppure trentenni, Gustave Flaubert e Maxime Du Camp, lasciavano Parigi per un viaggio che, in un anno e mezzo, li avrebbe condotti attraverso Egitto, Libano, Siria, Palestina. Avrebbero voluto andar oltre, fino a Baghdad e alla Persia: dovettero rinunziarvi per rientrare attraverso l’Asia Minore, ovviamente Istanbul, la Grecia e l'Italia. Ne uscì nel 1852 uno straordinario album illustrato, il primo nel suo genere, a firma di Du Camp; quanto a Flaubert, che ormai sembrava aver già penetrato l’Oriente da quando aveva scritto tra il 1846 e il 1847 Les sept fils du derviche, aveva viaggiato tutto il tempo come assorto e quasi insensibile a quel che vedeva. Quando arrivò a Gerusalemme, nel 1850, pensava a Madame Bovary, il che non lo induceva certo a immagini compatibili con un pellegrinaggio (per quanto il carattere erotico dei pellegrinaggi sia stato spesso notato tanto nella letteratura quanto nella coscienza «popolare»). Alla Porta di Giaffa, si stupì di un’involontaria reazione piuttosto noiosa del suo apparato digerente: proprio lì... Quindi si dette a cercare il macabro, il marcio, lo spettrale; lo affascinavano le rovine, grandiose certo, ma «diabolicamente» tali; e naturalmente trovò, anche lui come tanti altri, che la città era incredibilmente sporca. Qua e là, ci si potrebbe dimenticare di star leggendo Flaubert e si potrebbe avere l’impressione di esser piombati tra le pagine di Céline. Dinanzi al Santo Sepolcro, ostentò un’indifferenza che qualcuno potrà credere affettata e qualcun altro fin troppo realistica: e chi ha qualche esperienza del viaggio gerosolimitano riterrà agevolmente che entrambe le ipotesi potrebbero esser giuste. Poi, però, a livello d’immaginario i risultati di quel viaggio ch’egli sembrava aver vissuto in modo tanto svagato si sarebbero tradotti nel racconto di Salammbò. Diceva di lui Du Camp: «Anche Balzac era così: non guardava niente e si ricordava di tutto».
Del resto, come qualunque luogo della terra - e soprattutto i più desiderati -, Gerusalemme poteva esser visitata anche con gli occhi della fantasia e del desiderio. Il «pellegrinaggio spirituale», il «pellegrinaggio dell’anima», l’avevano fatto in tanti. Dal profeta Muhammad a santa Bona da Pisa sino a Francesco d’Assisi che nel 1219 era arrivato ad Acri, per poi avviarsi al campo crociato sul delta del Nilo, ma che ai Luoghi Santi - il pellegrinaggio ai quali il papa interdiceva in tempi appunto di crociata - non aveva potuto accedere: e li avrebbe ricostruiti più tardi celebrando a Greccio la Natività di Gesù e, alla Verna, il suo stesso Calvario. Ma non sapremo mai quanti diari di pellegrinaggio, che noi di solito prendiamo per autentici pur rilevandone le somiglianze e magari i plagi rispetto ad altri testi, sono in realtà dei centoni composti da viaggiatori intorno a uno scrittoio.
Difatti nemmeno Alexandre Dumas, che pure aveva molto viaggiato, fu mai a Gerusalemme. La sua ansia, il suo desiderio teso «verso l’Oriente splendido e non verso l’Occidente brumoso», in ciò non fu appagata. Eppure, egli ci ha descritto - come avrebbe fatto più tardi Michail Bulgakov - una «sua» Gerusalemme, quella dei tempi di Gesù, nel suo romanzo incompiuto del 1853, che venne bloccato sul nascere dalla censura imperiale. L’Isaac Laquedem, ou le roman du Juif errant era la riproposizione dell’antica leggenda dell’Ebreo errante: un romanzo che si apriva proprio con un allucinato eppure a suo modo lucidissimo racconto-descrizione dell’origine, della fondazione e delle vicende della Gerusalemme biblica ed evangelica, fino ai tempi della Passione di Gesù. Era la convinzione dell’aver toccato il centro profondo del tempo, del mondo e della storia, a dettare quelle pagine dove non c’è una riga di originale e dove tutto sembra geniale: “Ci sono nomi di città o nomi d’uomo che, pronunziati in qualunque lingua, svegliano immediatamente un pensiero così grande, un ricordo così innamorato da far sì che chiunque oda pronunziare quel nome, come cedendo a una potenza sovrannaturale e invincibile, si senta piegar le ginocchia”.
Gerusalemme è uno di questi nomi santi per tutte le lingue umane: il nome di Gerusalemme è balbettato dai fanciulli, invocato dai vecchi, citato dagli storici, cantato dai poeti, adorato da tutti.

Da Gerusalemme. Una storia, Il Mulino 2012

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