5.2.13

Comunismo del 900. Garavini (Giuliano) contro Pons

Un certo Pons, storico, ha preteso di scrivere un definitivo requiem sul comunismo novecentesco con un libro dal titolo La rivoluzione globale, quasi una risposta a Massimo Salvadori, lo storico che subito dopo la cosiddetta “caduta del muro” aveva in Italia tentato un bilancio critico della storia comunista (L’utopia caduta, Laterza, 1991), che non negava la grandezza del disegno, il fascino che lo aveva caratterizzato, la qualità degli uomini e delle donne che avevano tentato di realizzarlo.
Secondo il Pons la più importante sfida al capitalismo del ‘900 sarebbe nata male, cresciuta peggio, sostanzialmente fallita in meno di 50 anni. Il libro è ampio e documentato, ma assolutamente fazioso, e la documentazione è scelta e letta con il criterio di difendere la tesi prescelta, quella secondo cui il comunismo novecentesco nasce “comunismo di guerra” e tale rimane. La prima guerra mondiale, con il suo tremendo carico di morte e di violenza, e la successiva guerra dell’Armata Rossa contro gli “eserciti bianchi” e i corpi di spedizioni stranieri inviati a loro sostegno – secondo Pons - avrebbero impresso un marchio indelebile alla società  nata dall’ottobre: «L’autentica base neoautoritaria, plebea e anticontadina della statualità sovietica».
Pons, d’altro canto, non prova neppure a spiegarsi come il comunismo internazionale attiri milioni di militanti di ogni razza e colore, gli intellettuali e gli artisti più avanzati, la gioventù colta dei paesi coloniali e dipendenti. Il Movimento comunista internazionale da lui rappresentato è guidato dalla componente “messianica” del movimento operaio, fatta da gruppi di volenterosi un po’ fanatici, neppure consapevoli di servire solo gli interessi dell’Unione sovietica e otterrebbe consenso di massa in Europa solo con la partecipazione alla coalizione antifascista durante la seconda guerra mondiale, coalizione dal Pons considerata innaturale.
A Chruscëv lo storico attribuisce una sorta di opzione terzomondista, il tentativo cioè di proporsi come modello di sviluppo ai paesi post-coloniali, naufragato già negli anni Sessanta per lo scisma cinese. Dopo il 1968, l’anno dell’invasione di Praga, finirebbe per sempre la capacità egemonica del modello sovietico e la dirigenza sovietica sarebbe capace solo di errori.
Sul carattere “ideologico” di questo libro mi ritrovo ampiamente d’accordo con le considerazioni di Giuliano Garavini, docente di Storia delle Relazioni Internazionali, su “Pubblico” del 13 dicembre 2012. Garavini (che è figlio di Sergio, di cui non ha dimenticato la lezione) scrive: “Eric Hobsbawm aveva considerato la storia del comunismo centrale per spiegare le conquiste novecentesche. François Furet, pur liquidandola come illusione utopica, aveva descritto il fascino della rivoluzione russa erede dell’idea di progresso incarnata dalla rivoluzione francese. Pons presenta un’ideologia comunista mai adeguata alla sua epoca, strumento di uno Stato non altro che involuzione arcaica e militarizzata del modello europeo”.
Garavini in primo luogo contesta la negazione di qualsiasi spinta progressista al comunismo internazionale nel secondo dopoguerra. Scrive Pons che «le forze socialdemocratiche, liberali, cattoliche protagoniste della riforma del capitalismo dopo la guerra furono più danneggiate che favorite dall’esistenza del comunismo come modello e come movimento». Commenta Garavini: se così fosse, come si spiega che, in assenza della sfida rappresentata allora dal modello comunista, il piano Beveridge del 1942, il sistema di tutela dei cittadini «dalla culla alla tomba», appaia oggi un reperto archeologico assediato dai mercati finanziari?
In secondo luogo Garavini respinge l’interpretazione del ruolo del comunismo internazionale al di fuori del contesto europeo data da Pons, in questo allineato agli storici anglosassoni che hanno visto nello scontro fra Urss e Usa la principale fonte di instabilità nel Terzo Mondo.
In verità - scrive Garavini - il neocolonialismo del secondo dopoguerra “aveva più legami con la pervasività della mentalità razzista e la necessità di controllare preziose materie prime che con il pericolo rosso”.; e cita a questo proposito le élite emerse nei paesi del Terzo Mondo, da Ho Chi Minh a Nehru a Che Guevara. Scrive Garavini: “Per nessuno di questi il comunismo fu influenza intellettuale esclusiva, ma la critica dell’imperialismo di Lenin e la lotta al capitalismo monopolistico fu al centro della cultura politica loro e della gran parte dei dirigenti nei paesi di nuova indipendenza”.
Il giudizio di Garavini sul socialismo sovietico non è affatto indulgente: “un sistema di sicurezza sociale basato sulla compressione della libertà, la repressione del dissenso, il culto della forza: una modernità viziata che ha contribuito ad affossare l’aspirazione ideale a superare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. E non gli pare dubbio che il legame con l’Urss, cioè con “uno statalismo autarchico e dirigista”, rappresenti alla fine un limite per il movimento comunista internazionale. Resta per lui fondamentale il riferimento al comunista Gramsci, il più adatto per "continuare ad interrogarsi evitando di rievocare acriticamente i successi delle democrazie liberali e l’ineffabile capacità di autoriforma del capitalismo".

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