6.2.13

Tripoli 1912: “Ciau, mare! Addio core!”. Soldati, famiglie e cinema (Luigi Lucatelli)

Di Luigi Lucatelli (all’anagrafe Oronzo Marginati), autore di un sorta di instant book sulla guerra di Libia del 1911-12, per molti versi sorprendente, ho già “postato” alcuni brevi brani c orredati da qualche notizia.
Anche il testo che segue viene dall’esperienza di corrispondente di guerra di costui in quelle terre africane. E’ un articolo di giornale che racconta l’impatto del cinematografo quando, nel marzo del 1912, venne proiettata a Tripoli una cinematografia costituita dalle immagini dei familiari dei soldati impegnati nella conquista del “bel suol d’amore". Le riprese erano state fatte sul finire dell’anno precedente per iniziativa del Ministero della Guerra italiano.
(S.L.L.)

Tripoli 1912
«Oggi il cinematografo, unico intrattenimento intellettuale di questa neo-italiana città, ci ha dato una simpatica sorpresa. Sotto gli occhi dei soldati, chiamati “per distretto”, sono sfilate le famiglie dei combattenti, in tante “films” prese nelle varie città della penisola.
(…) E in quel silenzio il quadro muto su cui passa, per solito, la volgarità della “scena comica finale” s’è aperta come una strana finestra sulla patria lontana. Ho avuto la sensazione indefinibile di assistere ad un impreveduto animarsi delle cose: era realmente la vita, una vita calda di passione tutta fremente di ricordi e baci, che passava innanzi a noi irradiando inesplicate ondate di simpatia nella sala assorta, facendo vibrare echi addormentati da anni nei cuori, ridestando impeti di passione.
Nel tremolìo della luce proiettata sullo schermo era un fremito di carezze, e tutti sentivamo su di noi una ignota solidarietà umana, una tenerezza sola, diffusa in diecimila creature come una fede religiosa unica e molteplice. D’un tratto, nel silenzio, uno ha gridato: “Ma è mia sorella!...” ed ha teso la mano tremante verso una signorina pensierosa, un visetto tondo di bimba per bene, che sorrideva, mentre la manina inguantata faceva: “Addio, addio”...
Poi, molti altri, qua e là, hanno riconosciuto i loro cari, li hanno salutati con voci liete che tremavano di pianto: qualcuno ha gridato bizzarre espressioni dialettali, e s’è levato da quella folla nascosta in una semi-oscurità un brusìo strano e commosso, un vocìo allegro.
Passavano, sulla tela muta, piccole famiglie borghesi vestite a festa, facce bonarie di vecchi impiegati, figure curve, un po’ stanche ed un po’ tristi, di vecchi lavoratori. S’intuiva che fra i soggetti cinematografati si era dovuta formare una specie di fraternità improvvisa, come fra le mamme che attendono i bimbi sull’uscio di scuola o quelle che attendono l’ora della visita sulla porta d’ospedale. Si capivano, a vederli urtarsi col gomito, i dialoghi di pochi momenti prima: “E il suo figliuolo dov’è?...”— A Bengasi. — Il mio a Derna. —  Potessimo rivederli presto!... Certe sposine lasciavano vedere una civetteria paziente ed accurata, una smania di farsi più belle, di non farsi dimenticare... Una ha fatto un segno, con la mano, come per dire: Bada birichino.... Altri pareva che non si decidessero a staccarsi dal campo dell’obbiettivo: un vecchio, serio serio, un vecchietto preoccupato, è tornato indietro ed ha fatto un altro saluto: si vedeva che teneva le lagrime a stento.
Poi, passava una moltitudine di bimbi: bambocci alti come un soldo di cacio, che le mamme tenevano in alto con tutte e due le mani, per farli vedere, bimbette ravviate, donne in erba, che battevano le mani... I soldati salutavano i bambini con tempeste d’applausi... Un signorino di tre o quattro anni, grasso come una palla di burro, ha avuto un’ovazione. In generale i bimbi ed i giovani ridevano; i vecchi avevano un’aria di tristezza contenuta, come se non avessero voluto intenerirsi troppo, ma si capiva che per un nonnulla, sarebbero scoppiati in singhiozzi. Una vecchietta, si vede,
non s’è potuta tenere, e, sull’orlo dello schermo s’è nascosta il viso fra le mani.
Passavano a compagnie di soldati, agitando i berretti: qualche mattacchione teneva dei cartelli in alto con la scritta “Ciao Pinot!”. Signori ed operai, mogli d’ufficiali e ragazze del popolo, s’erano confusi insieme in una tenerezza sola. Un vecchio, doveva essere un veterano, è passato rigidamente, con la sua brava medaglia sul petto, salutando alla militare. Qualcuno s’era messo una cartolina o una bandierina nella fascia del cappello, per farsi riconoscere.
Nella film del distretto di Roma, uno ha fatto una serie di gesti piuttosto complicati, che il mio vicino bersagliere mi ha tradotto, credendo che non avessi capito: “Dice: ‘Menate forte, che al ritorno magnamo li spaghetti!’”. Quando è passata una compagnia di coscritti, i soldati hanno gridato: “Addio, cappelloni!”. Un richiamato del 1888 (classe “di ferro”) ha gridato: “Che stecca che vi lasciamo!”. Poi c’è stato un affollamento enorme, uno sventolìo di fazzoletti, di berretti, di cappelli, un agitare di manine di bimbi e di mani scarne e tremanti, un saltellare di povere figure umane che cercavano di mettersi in evidenza, per un attimo, di farsi vedere, di lanciare, attaverso lo spazio, il messaggio della loro tenerezza.
Una vecchina si levava così disperatamente in punta di piedi che ho inteso contrarsi le mie mani, istintivamente, per una voglia illogica di tirarla su a braccia. Ma un bimbo in fasce è stato levato innanzi a lei, ed essa è scomparsa, travolta in quel torrente di passione. Poi, in ultimo, è passata, sola, una signora elegante, seria seria, che ha fatto segno con la mano: “scrivi!” Nella sala risuonavano esclamazioni in tutti i dialetti:—“Ciau, mare!”—“Se vedemo!...” — “Te vedet el Gigin?” — “Addio core!”. Quando s’è illuminata di nuovo la punta di un “toscano” con aria dinsinvolta, ma quel povero “toscano” tremava, tremava.
Distretto per distretto, passano parecchi città.... Torino ha dato, si vede, un contingente numerosissimo di soldati: quelli di Settimo Torinese son venuti apposta in città, e li abbiamo veduti sfilare con un gran cartello col nome del paese. Qua e là, qualcuno ha manifestato istinti bellicosi, inviti a picchiare sul turco, sventolato su fogli bianchi, gesti d’incoraggiamento alla suddetta bisogna, ecc. Ma i più non avevano, si vede, che una grande tenerezza, una voglia immensa di abbracciare, di accompagnare, che irradiava dallo schermo illuminato come un fluido invincibile, nella penombra della sala.
E, d’un tratto, ho pensato con un brivido, che molte di quelle mani agitate febbrilmente, salutavano un morto, che il messaggio d’amore andava, desolatamente, al sepolcro di Henni o a quello di Rababa, o giù, giù, nelle gole di Derna, sulle alture del Mergheb, sulla punta piatta e gialli di Guliana, sotto le palme altissime, o nei cantucci quieti dell’oasi, dove le tortore gemono sugli ulivi, e la terra, coperta di infiniti rosolacci, sembra che esali a perdita di vista schiuma di sangue. M’è parso, allora, che la semi-oscurità fosse animata da una invisibile presenza di creature morte, e che mille mani fatte d’ombra rispondessero al tragico saluto inutile: “Addio, addio...”.»

Da “Il secolo”, 25 marzo 1912, ora in “alias” 8 ottobre 2011

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