25.7.10

Alemanno e l'innominato al convegno d'Orvieto. L'articolo della domenica.

Si è svolto da venerdì a 23 luglio alla mattinata di oggi, 25 luglio ad Orvieto il triduo dei circoli “Nuova Italia”. L’associazione, promossa dall’attuale sindaco di Roma Gianni Alemanno quando era ancora un capo corrente di An, ne è tuttora la proiezione locale; i circoli sono coordinati da un tronfio deputato umbro, lo spoletino Domenico Benedetti Valentini, che da sempre – dice - auspica il primato dei valori spirituali sul piatto materialismo della sinistra.

Dato il momento di forte tensione interna del Pdl soprattutto in conseguenza delle iniziative di Fini, più che come riunione di corrente (parola oggi bandita dal Pdl) il convegno si è caratterizzato come un tentativo di costruire a destra un argine contro lo strapotere della Lega, come un momento di confronto interno e infine come passerella per un certo numero di notabili. Ci sono stati, tra gli altri, Tremonti, Gelmini, Frattini, La Russa, Sacconi, Mantovano, Cicchitto, Gasparri.

Il tema fissato era Dalle identità locali all'unità nazionale, sussidiarietà e federalismo per ritrovare l'Italia, concepito come percorso per approfondire il tema dell’identità nazionale a cento cinquant’anni dall’Unità e il convegno alternava il dibattito generale alle tavole rotonde, varie per argomento e peso.

Se si legge il convegno nel quadro degli equilibri interni della destra al governo, sembra evidente che esso rappresenta un pronunciamento di Alemanno e dei suoi seguaci a favore di Tremonti: ne è riprova il calore che ha accolto il discorso del ministro dell’Economia, di cui vengono soprattutto apprezzati i riferimenti alla Tradizione (Dio, Patria e Famiglia), tanto cara alla destra conservatrice. Ma Tremonti è, anche, l’uomo dell’alleanza con la Lega Nord di Bossi, che ama le piccole patrie regionali e che non ha mai abbandonato le propensioni secessioniste e questo non dovrebbe essere gradito ad un ambiente affetto da nazionalismo. La chiave del rebus è nel titolo del convegno. Infatti l’idea cardine, ripetuta nelle forme più svariate sebbene con pochi argomenti, è stata quella di una “classe dirigente” molto territorializzata, di un ceto politico conservatore e perfino reazionario che interpreti umori localistici e perfino campanilistici.

A destra impostazioni di questo tipo non sono del tutto nuove: ne è matrice la lettura “strapaesana” del fascismo, quella che Maccari e gli altri andavano propagando nel “Selvaggio”. Il fascista, in questa luce, era “popolano” e antimoderno, ostile al femminismo, al problematicismo, all’intellettualismo, xenofobo, sanguigno, volgare e manesco, capace di fare a botte non solo con i socialisti ma anche con i fascisti del paese vicino. Ma amava la sua città, il suo borgo, la sua terra, oltre che la grande patria italiana. Anche allora questo modello che, entro certi limiti, fu operante (c’era un fascismo emiliano, un fascismo lombardo, uno pugliese e uno siciliano) produceva conflitti, ma a mediare e a decidere c’era sempre il castigamatti (“Sorge il sole/ canta il gallo / Mussolini va a cavallo” scriveva Maccari). Ma oggi sembra mancare una guida siffatta e la domanda diventa inevitabile. Riusciranno la bandiera, l’esercito, l’inno nazionale, la spiritualità (di cui tanti intervenuti parlano) a tenere insieme la realtà magmatica del Pdl resa più conflittuale dal federalismo?

Credo che della probabile insufficienza della retorica nazionalistica si siano resi conto anche Alemanno e Mantovano (che è oggi il principale alleato del sindaco di Roma). Tant’è che ad Orvieto hanno voluto collocare nell’orario migliore della giornata di sabato, alle 11, una tavola rotonda dal titolo Identità italiana e libertà della Chiesa. Introdotti e commentati da Mantovano vi hanno partecipato i ministri Frattini e Ronchi, il vescovo di San Marino e del Montefeltro Negri, un arabo cristiano e Rocco Buttiglione. Quest’ultimo ha raccontato del suo martirio, voluto dalla potentissima (?) lobby gay, quando gli fu rifiutata la nomina a commissario europeo, perché non volle tacere le sue convinzioni sull’omosessualità come deviazione e fonte di disordine morale. Quasi tutti hanno raccontato la favola di una Chiesa assediata dal laicismo, dal relativismo, dall’Islam, quasi silenziata, e ne hanno ricavato la morale di un ancoraggio identitario.

A mettere insieme “strapaese” e integralismo cattolico ci ha pensato stamane Isabella Rauti, deputata, che nel convegno, in quanto moglie di Alemanno, era una sorta di first lady. Figlia di Pino Rauti ha seguito l’esempio del padre nel riuso degli stilemi togliattiani. Al padre piaceva “veniamo da lontano, andiamo lontano” e una volta apostrofò Fini, suo competitore in un congresso: “Veniamo da così lontano che tu non riesci neanche a immaginare da dove”. Voleva dire “da Salò”. La figlia a sua volta ha recuperato “l’unità nella diversità” del memoriale di Yalta. Ma il suo passaggio più bello ed esplicito è stato quando ha detto “Vandea”, significando la rivolta dei “territori” contro lo stato giacobino nemico della religione, delle chiese e dei campanili.

Se questo era il “tema” principale del convegno non poteva mancare in un ambiente post-missino e post-anista una presa di distanza dal capo di un tempo, Gianfranco Fini, in molti interventi alluso, in molti altri citato. La punta di lancia nella critica è rappresentata dall’accusa d’essere diventato un “compagno”. La Russa, a questo proposito, si lascia andare alla nostalgia. Rievoca i congressi del Msi che finivano a sediate. Cita Filippo Anfuso che ne fu deputato siciliano, di cui ricorda ch’era stato ambasciatore a Berlino pe la repubblica di Salò, ma non rammenta che era dietro l’assassinio dei fratelli Rosselli (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2009/12/una-storica-sentenza-del-tribunale-di.html) . Pare che ad un congresso, durante una rissa, costui commentasse: “E’ bellissimo”; e al camerata Nino Buttafuoco che lo guardava perplesso dicesse: “Si battono per un’idea, non per un’interesse”. Fini, invece - lascia intendere La Russa - l’idea l’ha tradita.

Un altro tema d’attacco al “cofondatore del Pdl” è la legalità, anche se l’obiettivo dichiarato degli interventi è più spesso il finiano Granata, che ha accusato il governo di tolleranze e compiacenze verso il crimine. “Fini lo sconfessi”, dice uno; “chieda scusa o si dimetta”, reclama un altro; “le scuse non bastano”, soggiunge un terzo. E’ un vero tiro al bersaglio. La risposta fattuale A Granata tocca a Mantovano, che è sottosegretario agli Interni ed elenca i successi governativi nella guerra alle mafie, ma poco può parlare della lotta alla corruzione e alle complicità politiche con le organizzazioni criminali.

Questo, per quel che ne ho compreso, il succo del dibattito. Ma, come si suole dire, è nei dettagli che si nasconde il diavolo. Vediamolo dunque il dettaglio.

Ieri ad Orvieto Alemanno ha proposto ai suoi una petizione da rivolgere ai vertici del Pdl per svolgere entro marzo i congressi comunali e provinciali. Dice che “per rigenerare il Pdl” occorre “una grande spinta dalla base, dal territorio”. Aggiunge che “da questi congressi la leadership di Berlusconi certamente sarà rafforzata e non indebolita”. Alla fine della “tre giorni” il Cavaliere si materializza con un messaggio: sì ai congressi locali, ma niente correnti. Si tratta in realtà di una risposta interlocutoria. Aveva già fatto sapere che non andrà in vacanza per occuparsi del partito: ma per uno come lui occuparsi del partito vuol dire in sostanza scegliere, località per località, i propri agenti fiduciari, tutto il contrario di un congresso. E c’è perfino chi gli attribuisce l’intenzione di uscire lui dal Pdl, lasciando il partito attuale a Fini come vuoto simulacro.

La stranezza non è, ovviamente, in questo un po’ ridicolo botta e risposta, ma nel fatto che questi due momenti sono tra i pochissimi in cui si sia avvertita nel dibattito orvietano la presenza di Berlusconi. Fino all’anno scorso, in convegni analoghi, era d’obbligo condire ogni intervento con un richiamo al capo e al fondatore. C’era chi ne esaltava la lungimiranza, chi il legame con il popolo, chi il prestigio internazionale, chi la distanza dal teatrino della politica; e il tono era encomiastico, un misto di ammirazione e gratitudine. Quest’anno niente di tutto ciò: ci si schiera contro Fini come lui desidera, ma non lo si nomina. Il fatto è che si comincia a pensare alla possibilità di un futuro senza Berlusconi ed a cercare nel “territorio” e nelle clientele locali la sopravvivenza delle proprie carriere.

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