27.7.10

Scettro di sangue. La vita di Ivan il Terribile raccontata da Pietro Citati ("la Repubblica" 6 luglio 2000)

Quando leggiamo la vita di Ivan il Terribile, non abbiamo l' impressione di conoscere la storia di un sovrano come gli altri, che abitava nella realtà e parlava e comandava ad uomini come noi. Tutto, qui, ha il segno dell' irrealtà: quasi che i suoi pensieri, i suoi peccati, i suoi pentimenti, la sua morte fossero stati sognati da un personaggio shakespeariano, come Macbeth o Riccardo III.

Quali oceani, quali profumi avrebbero potuto estinguere il sangue che bagnava le sue mani? Per tutta la vita, Ivan il Terribile fece il male: con una fantasia, un eccesso, una grandiosità, un furore, un terrore e una devozione, che sembrano possibili soltanto in un incubo. Rimase orfano di padre nel 1533, a tre anni: orfano di madre a otto anni; nell' infanzia, conobbe umiliazioni, che pesarono sul suo animo per tutta la vita, e che continuò a rinfacciare ai nemici e agli amici, come se tutta la Russia ne fosse colpevole.

La storia, o la leggenda, ci lasciano il ricordo del suo sadismo infantile. Tormentava gli animali: strappava le penne agli uccelli catturati, cavava loro gli occhi, li sventrava con un coltello, seguendo con un minuzioso piacere tutti i momenti della loro agonia; in piedi sui bastioni della fortezza, prendeva in mano i suoi cagnolini, li faceva roteare sopra la testa, e li gettava nella corte perché si spezzassero le zampe. Amava cacciare: l' orso, il lupo, la volpe bianca. Batteva le foreste con i figli dei boiari, braccando gli animali feroci: oppure, col girifalco in pugno, inseguiva i cigni selvatici.

Cominciò a regnare giovanissimo; e comprese che regnare non è che una lunga tortura imposta al mondo. Non esiste segno più diretto del potere. Mentre egli torturava in terra, Dio lo seguiva con lo sguardo, e guidava il suo braccio dal cielo. Faceva sbranare dai cani gli avversari politici: divorare i monaci ribelli da orsi selvaggi, tenuti in gabbia: stuprava ragazze e donne sposate, e un giorno si vantò di aver fatto scempio di mille vergini: massacrava chi si rifiutava di danzare con lui ad un ballo mascherato: fece arrostire col fuoco i corpi degli abitanti di Novgorod, li fece legare con corde strette alle mani e ai piedi, stringere i figli alle madri e gettarli nel fiume, mentre i suoi uomini in barca trapassavano con le scuri e le lance coloro che risalivano a galla; tagliava a strisce la pelle degli interrogati, li gettava nell' acqua bollente e nell' acqua gelida, impiccava, sgozzava, faceva pezzi, impalava...

Possedeva un sinistro segno del potere: un lungo bastone di legno, che terminava con una punta di acciaio; e con quel bastone in mano, di cui accarezzava amorosamente l' impugnatura, scendeva nei sotterranei, assisteva alle torture, alle urla, ai rantoli, colpiva con la punta chiodata, lasciando che il sangue dei torturati gli imbrattasse la faccia. Quando riformò il suo impero, costituì una guardia del corpo di seimila uomini. Imponeva loro fedeltà, come se la giurassero a Dio, con le stesse parole dei Vangeli: "Chi ama padre e madre più di me, non è degno di me; e chi ama figliolo e figliola più di me, non è degno di me". Le sue guardie scorrazzavano a cavallo indossando una veste nera, armati di coltellacci, mazze e scuri. Sulle selle portavano un segno barbarico: una testa di cane e una scopa, perché i nemici dello zar dovevano sapere che sarebbero stati dilaniati da fauci canine, e il tradimento spazzato via dall' impero.

Malgrado i suoi crimini, o forse a causa di essi, era devoto. Visitava tutti i conventi, che trovava nei suoi itinerari: si inoltrava fino a quelli sul Mar Bianco; e implorava la benedizione di ogni sacerdote avvolto da fama di pietà e di santità. Quando stabilì la reggia in campagna, trasformò il palazzo in monastero, e le guardie, specie le più criminali, in monaci. Alle tre del mattino, si avviava alla Chiesa. Durante l' ufficio, che durava 3 o 4 ore, Ivan cantava, pregava e si prosternava davanti alle icone, battendo il capo sulle lastre del pavimento, così che sulla fronte gli si formò una lieve callosità. Indossava una lunga tonaca nera, stretta in vita da una corda, e un manto di bigello: mentre una croce di legno gli scendeva sul petto. Vegliava severamente sulla moralità pubblica. Condannò alle pene dell' inferno, come se avesse lo stesso potere di Dio, i suonatori di ribeca, di tromba e di tamburello: chi ballava, saltava o batteva le mani durante le riunioni pubbliche: tutti quanti amavano la compagnia di orsi ammaestrati, cani sapienti e uccelli, o giocavano a scacchi e a trictrac; oppure osavano tagliarsi baffi e barba e indossare abiti strani.

La fine fu tremenda, come nemmeno la sua spaventosa immaginazione avrebbe osato sognare. Un giorno del novembre 1581 percosse la moglie incinta del figlio Ivan: le rimproverò di essere vestita in modo indecente; la picchiò così forte da farla abortire. Il figlio protestò con violenza. Allora il padre acciecato dal furore - come poteva ribellarsi contro Dio in terra? -, impugnò il suo lungo bastone ferrato, e lo percosse selvaggiamente sulle spalle e sulla testa, sfondandogli una tempia. Il figlio cadde al suolo. Ivan si gettò sul corpo disteso, coprì di baci il viso, tentò invano di fermare il sangue. Urlava: "Oh me sciagurato, ho ucciso mio figlio, ho ucciso mio figlio!". Quando il figlio riprese conoscenza, baciò la mano del padre mormorando: "Muoio da figlio devoto e da suddito sottomesso...". Quattro giorni dopo morì. Lo zar perse il senno. Non riusciva a dormire. Tre vecchi ciechi gli raccontavano, ogni sera, favole e leggende, per far scendere il sonno sulla sua mente offuscata. Ma egli si alzava, si aggirava nel palazzo parlando da solo, a voce alta; e ogni notte, nella penombra, l' immagine del figlio lo visitava: talvolta sorridente e riccamente vestito, talvolta con la tempia trafitta. Scriveva ai "famosissimi e santissimi monasteri", e supplicava i monaci di "pregare, tutti assieme o separatamente nelle celle, affinché il Signore e la Santissima Vergine gli perdonassero la sua scelleratezza". Cominciò a scrivere gli elenchi di tutti coloro che aveva messo a morte - 3148 in un elenco, 3750 in un altro -, annotando i supplizi: ripercorse così passo passo la sua vita criminale; e faceva recitare preghiere di suffragio per i defunti, sperando di placare la coscienza risvegliata.

Il corpo di Ivan si gonfiò, la pelle si lacerava a brandelli, i testicoli doloravano: emanava un fetore ripugnante. Quando gli annunciarono che una cometa con la coda a croce era apparsa nel cielo di Mosca, indossò una pelliccia e si fece accompagnare nella notte. Contemplò a lungo il cielo, fissò la cometa e mormorò: "Ecco il presagio della mia morte!"

Forse c' era ancora un rimedio alla malattia e alla morte: se non Dio, la scienza degli astri; e fece chiamare a Mosca astrologhi, indovini e sciamani. Ne giunsero una sessantina, che furono rinchiusi in un palazzo. Stabilirono che la morte dello zar sarebbe avvenuta il 18 marzo 1584: Ivan disse che, se la predizione non si fosse avverata, li avrebbe fatti bruciare vivi.

Negli ultimi giorni di esistenza, si faceva trasportare nella sala del Tesoro, dove contemplava gli smeraldi, i diamanti, gli zaffiri, i rubini, i giacinti, che faceva scivolare tra le dita. "Sono tutti doni di Dio, segreti nella loro natura - diceva -; ma Dio li rivela perché l' uomo li usi e li contempli come amici della grazia...". Giocava volentieri a scacchi: provocava il caso che, per tutta la vita, aveva vinto e che l' aveva vinto. Giocò a scacchi anche il 18 marzo, il giorno della morte prevista: credeva di aver ingannato il destino; quando, di colpo, cadde morto con la testa sulla scacchiera, facendo rotolare a terra il re e la regina. Quella lunga storia di delitti e di follie era finita come la storia di qualsiasi uomo. Non restava che un corpo gonfio e putrefatto: un corpo che, qualche giorno dopo, venne consacrato monaco e sepolto col nome di fratello Giona.

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