6.7.10

Camorra. Da e su un libro di Francesco Barbagallo.

Di Francesco Barbagallo, ho letto qualche anno fa il magnifico pamphlet Napoli fine Novecento. Politici, camorristi, imprenditori, pubblicato da Einaudi nel 1997, scritto con la competenza e il rigore dello storico di qualità e la passione del cittadino e che, ancora nel pieno del cosiddetto "Rinascimento napoletano" dell'allora sindaco Bassolino, leggeva la fragilità di quella rinascita e i rischi di una ancora più grande influenza della criminalità organizzata nella capitale del Sud Italia.
Leggo sul supplemento "Tuttolibri" de "La Stampa" del 1° maggio scorso la recensione del volume di Barbagallo, uscito quest'anno per Laterza, Storia della camorra, che traccia le linee dell'organizzazione criminale campana dall'età borbonica. Sarà uno dei miei libri per l'estate e, date le qualità dell'autore (rigore e acutezza), mi sento di consigliarlo anche senza averlo letto prima. Posto qui il brano sull'origine del nome "camorra", disponibile nel sito dell'editore, e la recensione già citata di Felice Piemontese (S.L.L.)

“Mistero” e misteri di Napoli

di Francesco Barbagallo

“Lo straniero e anche l’Italiano che or fa poco tempo sbarcava a Napoli, spesso era meravigliato, mentre toccava terra, vedendo un uomo robusto accostarsi al suo barcaiuolo, e ricevere da lui, segretamente, un soldo o due. Se il viaggiatore prendeva vaghezza di chiedere chi fosse quell’esattore meglio vestito degli altri plebei, spesso coperto di anelli e di gioielli, che si faceva innanzi come padrone, e divideva, senza proferir verbo, il prezzo del passaggio coll’umile barcaiuolo, udiva rispondersi: è il camorrista”.

Quello descritto intorno al 1860 dallo scrittore italo-svizzero Marc Monnier (figlio di un albergatore residente nella capitale borbonica) era il primo passo di una peculiare catena di montaggio che definiva immediatamente la Napoli ottocentesca. Dopo il barcaiuolo toccava al facchino, che portava i bagagli alla locanda, pagare un secondo esattore. Quando il viaggiatore saliva su una carrozza compariva un altro individuo, che riceveva il suo soldo dal cocchiere.

E così via: “ad ogni passo – proseguiva Monnier – ne’ quartieri poveri, alle stazioni delle strade ferrate, alle porte della città, sui mercati, nelle taverne incontrava il bravo implacabile, che l’occhio fiero, la testa alta, con pantaloni larghi, si intrometteva negli affari e ne’ piaceri dei poveri, in specie ne’ piaceri viziosi e negli affari equivoci, e a vicenda agente di cambio, mezzano, intermediario, ispettore di polizia secondo i casi, faceva presso a poco l’ufficio di quelle grandi potenze, che si mischiano negli affari che non le riguardano”.

A suo modo, questo onnipresente personaggio rappresentava un aspetto di quel “mistero di Napoli” che sarebbe poi stato individuato da Antonio Gramsci nell’attiva ma improduttiva “industriosità” dei napoletani.

L’inchiesta di Monnier, condotta durante il processo unitario, è un documento prezioso perché si giovò delle testimonianze dirette dei maggiori esperti, ministri e dirigenti delle forze di polizia, sia del regime borbonico, che del nuovo governo italiano. È quindi una fonte storica ben più attendibile dei fantasiosi racconti e leggende che si tramandano in gran numero sulle origini, le forme organizzative, i riti, i miti di questa peculiare forma di organizzazione criminale, che si sviluppa nel tessuto urbano della Napoli ottocentesca, dentro gli strati sociali plebei.

Riti e miti risultano ad ogni modo fortemente intrecciati, dipanarli non è facile. Da più parti, ad esempio, si riferisce di un rito iniziatico che vedeva riuniti i camorristi intorno a un tavolo su cui erano posti un pugnale, una pistola carica e un bicchiere d’acqua o vino avvelenati. L’aspirante bagnava la mano nel sangue che gli veniva estratto e giurava fedeltà alla setta, mostrando di essere pronto a spararsi e a bere il veleno. Il capo della riunione prendeva atto del giuramento di sangue; scaricava l’arma, gettava a terra il bicchiere e consegnava il pugnale al nuovo camorrista. Questo cerimoniale pareva essere di rigore, ma non era indispensabile seguirlo in ogni circostanza. Altre testimonianze indicavano procedure molto semplificate, specie nelle carceri. In ogni caso l’ingresso nell’associazione camorristica veniva festeggiato con grandi banchetti.

Le stesse spiegazioni etimologiche del termine “camorra” proposte dagli studiosi sono numerosissime e molto divergenti. Le difficoltà sono accresciute dal fatto che la parola “camorra” è entrata nella lingua italiana dal gergo, non scritto, usato tra Settecento e Ottocento dai malviventi napoletani. A cavallo tra questi due secoli, peraltro, il termine “camorristi” viene usato ripetutamente – accanto a “oziosi”, “vagabondi”, “rissosi”, “giocatori di professione” – nei documenti della polizia borbonica e del ministero della Guerra.

Tra le interpretazioni più recenti, comunque, ce ne sono un paio di carattere storico, profondamente differenti. L’una associa “gamorra” alla città biblica di Gomorra, come traslato di vizio e di malaffare. L’altra afferma una sorta di solidarietà lessicale fra i nomi delle tre organizzazioni criminali dell’Italia meridionale – camorra, mafia, ’ndrangheta – e li fa risalire alla terminologia pastorale della cultura appenninica preromana. Secondo questa spiegazione semantica, che sottolinea l’originario fine protettivo e non criminale di queste “fratellanze” segrete, “morra” significherebbe “madre di tutte le greggi”. Ci sono poi le possibili derivazioni dalla lingua castigliana: i termini “camorra”, “camora”, “gamurra” rinviano sia a una corta giacca di tela, sia alla rissa, alla lite. Ma il significato di “veste” si ritrova anche in antichi testi napoletani: «camorra de seta» nel Novellino di Masuccio Salernitano (XV secolo); «camorre de teletta» nel Cunto de li cunti di Giovan Battista Basile (XVI-XVII secolo).

La connessione tra camorra e gioco d’azzardo, tra camorrista e biscazziere si è fatta risalire, già da Monnier, al termine arabo “kumar”; e si ritrova di frequente nei vocabolari dialettali napoletani dell’Ottocento. Per Basilio Puoti, nel 1841, “gamorra” «è giuoco proibito dalla legge, che si fa da vili persone; ed anche il Luogo stesso dove si giuoca. “Biscazza, biscaccia”».

Proprio al gioco d’azzardo si connette l’interpretazione più diffusa nel corso dell’Ottocento, per cui camorra diventa sinonimo di estorsione, di riscossione di una tangente, una mazzetta, un pizzo su qualsiasi tipo di attività. “Fare camorra” identifica l’atto dell’estorsione. Ancora Monnier scriveva: «Far la camorra, nel linguaggio ordinario, significa prelevar un diritto arbitrario o fraudolento».

Poi, anche per l’influenza indiretta delle sette segrete – la massoneria, la carboneria, l’“unità italiana”, i calderari del reazionario principe di Canosa – la camorra diverrà sempre più organizzazione, strutturandosi, specie dopo l’unificazione nazionale, in associazione di delinquenti specializzati anzitutto nelle estorsioni su ampia scala, ma diffuse soprattutto nelle carceri e quindi negli eserciti, dove spesso venivano arruolati i criminali già detenuti.


Fu il terremoto lo sponsor della camorra

di Felice Piemontese

A prima vista, un libro come Storia della camorra di Francesco Barbagallo può sembrare in qualche modo debitore di quello di Saviano. Ma, in realtà, Barbagallo ha cominciato ad occuparsi della camorra e dei suoi intrecci con il potere politico e le istituzioni già nel 1988, ed ha sempre continuato a interessarsi di questo fenomeno criminale – unico o quasi, nel mondo accademico – pubblicando ad esempio Il potere della camorra (Einaudi,1999).

Barbagallo fa risalire l’origine del fenomeno camorristico al primo ’800 e ne parla come di un’organizzazione primitiva, plebea, legata al sottosviluppo e alle forme peculiari dell’economia e delle istituzioni nel regno borbonico. Questa peculiarità negativa farà si che nel giro di pochi decenni essa diventi «una specie di potere parallelo rispetto a una debole struttura sociale».

A tal punto che si potrà assistere – all’arrivo di Garibaldi e dei suoi, mentre crolla il regno borbonico – al più incredibile dei fenomeni: il prefetto di polizia Liborio Romano invita a casa sua il capo della camorra, Tore e’ Criscienzo, e gli propone di trasformare i capi dei vari clan di quartiere in commissari e ispettori di polizia, e i picciotti in guardie cittadine. Cosa che puntualmente avviene, con reciproca soddisfazione.

Solo dopo molti anni lo stato unitario si renderà conto della cospicua dimensione del fenomeno camorristico, e del suo legame con una condizione sociale e civile sempre più precaria, grazie anche al documentato lavoro di denuncia di studiosi come Pasquale Villari e Giustino Fortunato. Si susseguiranno «leggi speciali per Napoli» e interventi straordinari per lo sviluppo del Mezzogiorno, e in effetti sembrerà, nei primi decenni del ’900, che il fenomeno criminale sia ormai ristretto a una dimensione quasi folkloristica, col «guappo» pronto a lavare col sangue l’offesa all’onore, ma anche a «rendere giustizia» a modo suo, come ad esempio Il sindaco del rione Sanità dell’omonima commedia di Eduardo.

Bisogna arrivare agli anni Sessanta perché i clan – diventata ormai la provincia di Napoli un deserto produttivo – comincino ad estendere sempre più la propria influenza e a ragionare in grande, grazie anche agli intensificati rapporti con la mafia siciliana. Guerre intestine faranno centinaia di vittime, come avviene ad esempio nello scontro col «clan dei marsigliesi» per assicurarsi il controllo del contrabbando di sigarette.

Sarà il disastroso terremoto del 1980 a far fare alla camorra «il salto di qualità», trattandosi di mettere le mani sulla quota più alta possibile delle migliaia di miliardi riversati in Campania per una problematica «ricostruzione». E, quasi contemporaneamente, la «scoperta» che il traffico di droga è infinitamente più fruttuoso del contrabbando farà si che la camorra si trovi a reclutare migliaia di addetti, vista la capillare organizzazione che lo spaccio in grande stile – agevolato anche dalla realizzazione di nuovi collegamenti stradali – richiede, dal momento che quello napoletano è ormai il maggiore centro disponibile.

Un’espansione criminale che ha trovato «fertile terreno di coltura nel degrado urbano e civile di quella che dovrebbe essere l’area metropolitana di Napoli», «sequela informe di centri abitati da centinaia di migliaia di persone», il cui solo attraversamento costituisce una delle esperienze più allucinanti che si possano fare.

Con puntiglio cronistico Barbagallo ricostruisce intrecci tra clan, improvvise rotture, omicidi in serie e «pentimenti», attingendo ampiamente a rapporti di polizia e atti giudiziari, fino alla «apoteosi» finale dei clan, «casalesi» soprattutto, con la complicatissima «emergenza rifiuti» (che dura da quindici anni ed è ben lontana dall’essere risolta), costata finora circa due miliardi di curo.

È, la vicenda rifiuti, il momento in cui l’intreccio affaristico-politico-criminale si fa più evidente e con impensabili coinvolgimenti di massa. Una risposta dello stato c’è stata, con il clan dei casalesi colpito da arresti a decine e processi in corso o faticosamente portati a termine, ma la realtà non lascia spazio ad eccessi di ottimismo.

Come dice Manuel Castells, più volte citato da Barbagallo, «l’economia criminale globale sarà un fattore fondamentale nel XXI secolo, e la sua influenza economica, politica e culturale pervaderà tutte le sfere della vita. Il punto non è stabilire se le nostre società saranno in grado di eliminare le reti criminali, ma capire se le reti criminali finiranno o meno per controllare una parte sostanziale della nostra economia, delle nostre istituzioni e della nostra vita quotidiana».

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