21.7.10

Fottere e piangere. La borghesia mafiosa milanese.


Le recenti indagini milanesi e lombarde fanno giustizia di una storiella tutt'altro che innocua, che nel Centro Nord sono soliti raccontarsi per tranquillizzare le coscienze con poca spesa. La storiella è la seguente: le mafie vengono dal Sud, si infiltrano nelle nostre realtà sane, impongono il pizzo ad alcune imprese, altre ne strozzano con l'usura, di alcune si impadroniscono e portano così il male, il cancro in realtà sane, che non conoscevano disonestà e violenza. I legami e le cointeressenze che le ultime indagini lasciano trasparire tra politicanti e imprenditori lombardi da una parte e criminali della 'ndrangheta, sia a mano armata che con colletto bianco, dall'altra, svelano che spesso il ruolo dei primi non è affatto quello passivo di vittime o di corrotti, ma quello di alleati e promotori di iniziative economiche e criminali.
C'è di più: una sentenza pronunciata l'11 giugno, le cui motivazioni sono state rese note il 15 luglio scorso, ha spiegato come, in molti casi, lo stesso pagamento del pizzo non sia soltanto un subire per evitare mali peggiori, ma anche ed ancor più la retribuzione di un sostegno per ricavare vantaggi economici. I giudici della settima sezione penale di Milano hanno concluso che un imprenditore obbligato a «versare il pizzo ai mafiosi», se da questo rapporto con la criminalità organizzata spera e ottiene di «condurre in porto gli affari con un utile», frutto «anche della capacità di pressione dei mafiosi schierati al suo fianco», fa parte dell'associazione mafiosa.
Da qui la condanna a 4 anni e mezzo a Maurizio Luraghi, titolare di un'impresa edile milanese, per aver fatto parte della 'ndrangheta. Nel processo, scaturito dall'inchiesta denominata Cerberus coordinata dalla Dda di Milano, sono stati condannati a pene fino ai 9 anni altri quattro imputati, tra cui i boss Domenico, Salvatore e Rosario Barbaro. Secondo l'accusa, l'azienda di Luraghi, agiva in pieno accordo con la 'ndrangheta, che aveva una sorta di monopolio nel settore del movimento terra nei comuni a sud di Milano, tra cui Buccinasco.
«Era certamente vero che Maurizio Luraghi doveva versare il pizzo ai mafiosi - spiega il collegio, presieduto dal giudice Barazzetta - ma senza di loro non sarebbe riuscito a prendere il lavoro al prezzo che erano i mafiosi stessi ad imporre ai committenti: un regime di monopolio conveniente per entrambe le parti». Luraghi ha sempre sostenuto di essere una vittima, uno dei tanti imprenditori, a Milano e in Lombardia, costretti a subire la presenza mafiosa nei cantieri. Per i giudici Luraghi diede soldi al boss Salvatore Barbaro che li chiedeva «in maniera arrogante e fissa», ma l'imprenditore «aveva operato un calcolo complessivo» per trarre «un utile» da quel rapporto e mantenere «una egemonia nella zona». Insomma, mentre subiva la vilenta imposizione del pizzo, intascava il malloppo: in Sicilia lo chiamerebbero "fottere e piangere". Per il reato di associazione mafiosa, si legge nelle motivazioni, è necessario «un contributo causale effettivo» che rafforzi la «congrega criminosa». Nel caso di Luraghi la «risposta» è «incondizionatamente positiva».
La mia impressione è che questo sia solo l'inizio: è imminente l'emersione nel Nord Italia di pezzi consistenti di imprenditoria indigena che con le mafie militari hanno un rapporto "alla pari" e che anzi in molte circostanze le orientano e guidano. Forse il primo ad accorgersene, 15 anni fa, fu Umberto Bossi, quando chiamava Berlusconi "il mafioso di Arcore". Ora però trova coinvolti nel giro criminale anche alcuni dei suoi uomini nelle amministrazioni locali.

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