22.7.10

Il lavoro e il lessico del centrosinistra. Lettera aperta a Nichi Vendola.


Caro Nichi Vendola,
apprezzo e sostengo la tua battaglia politica e, più ancora, culturale contro la destra e vedo con piacere che la tua sfida al centrosinistra “realmente esistente” mantiene il punto su molte ed importanti questioni di principio e di programma. E trovo un eccesso di diffidenza in quanti a sinistra sospettano che la tua candidatura alle primarie per le prossime elezioni politiche possa portarti ad una piacioneria, ad un “volemose bene” verso i potenziali componenti della coalizione di centrosinistra ed, in particolare, verso quella parte del Partito democratico più subalterna al liberismo ed al berlusconismo che hanno imperversato in questi anni. 
Su tutto ciò ho già scritto qui e non ho cambiato idea (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/07/larticolo-della-domenica-la-sfida-di.html)Di più. Della tua sfida mi sento partecipe e nel mio piccolissimo (per esempio in questo blog) la sostengo come posso. In particolare mi convince la tua insistenza sui temi del lavoro, la tua denuncia della sottomissione ed emarginazione cui è stato obbligato dalle politiche (dal pacchetto Treu alla legge 30) che ne hanno progressivamente ferito la dignità, avallando precarietà e caporalato. E mi ha convinto la tua solidarietà “senza se e senza ma” alla Fiom e agli operai di Pomigliano, offesi da illegali accordi e illegali referendum nei loro diritti costituzionali.
Anche ieri nell’intervista con Corradino Mineo e nelle notizie di agenzia ho accolto con condivisione profonda le tue parole specie quando dici che “l'articolo 21 della nostra bella Costituzione non può vivere se non è preceduto dall'articolo 1 e dall'articolo 3” e instauri un legame profondo tra la dignità e la valorizzazione del lavoro e la libertà di tutti. Questo nesso inscindibile tra diritti del lavoro e democrazia è tra i lasciti più importanti dell’ultimo Berlinguer, che, agli albori della cosiddetta “seconda repubblica”, riviveva soprattutto nelle battaglie di Sergio Garavini. Gli anni trascorsi hanno confermato questa impostazione: quanto più vengono meno la libertà e i diritti del lavoro, nelle fabbriche e negli uffici, nei negozi e nelle scuole, nelle officine e negli ospedali, tanto più cala il buio sull’intero ordinamento democratico.
Credo che questa solidarietà di fondo con le tue parole e con la loro ispirazione mi autorizzi a segnalare un limite nel tuo dire che mi pare di un certo peso. Tu dici che anche il centrosinistra non ha più “nominato” il lavoro, ha quasi espunto la parola “lavoro” dal suo lessico. Immagino che ti riferisca al fatto che i suoi esponenti, in alto ed in basso, hanno praticamente abbandonato i lavoratori a sé stessi, e in questo non ti si può dare torto. Ma, se si va più a fondo, ci si accorge che non è del tutto vero che la parola "lavoro" sia scomparsa. Prendiamo le ultime elezioni politiche: Veltroni non solo parlava di lavoro, ma anzi nominò “lavoratori” i Callearo e i Colaninno che candidava (“anche l’imprenditore – disse – è un lavoratore”). In realtà innominabile e censurato non è tanto il lavoro, quanto il conflitto capitale-lavoro, per dirlo con altre parole “la lotta di classe”. E tuttavia, mentre la lotta di classe spariva dal lessico del centrosinistra e talora anche della sinistra, c’era chi non cessava di praticarla: i capitalisti. O se si preferisce, “nominandoli” con un termine “vieto” perché vietato, i padroni.

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