25.7.10

Mafia! 1972: un delitto a Ragusa.

Giovanni Spampinato era cronista de “L’Ora” da Ragusa, nella cosiddetta “Sicilia babba”, considerata cioè tranquilla e immune da fenomeni mafiosi. Fu ucciso a soli 25 anni, quando, indagando da giornalista sull’omicidio di un ingegnere imprenditore, tal Angelo Tumino, si imbatte in fetido intrigo affaristico criminale, dentro cui sguazzano fascisti protetti da poliziotti e magistrati, terroristi, mafiosi e malavitosi. Lo scorso anno è uscito, opera del fratello Alberto, giornalista dell’Ansa, un libro che rievoca il delitto e il clima torbido in cui si svolse, dal titolo C’erano bei cani ma molto seri. Storia di mio fratello Giovanni ucciso per aver scritto troppo. Ne riprendo qui un brano dal capitolo conclusivo. (S.L.L.)

Il primo giorno di primavera del 2005 ero in piazza del Campidoglio. Da quirinalista dell’Ansa – ruolo che svolgo dal 1999 – seguivo il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che, quel giorno, aveva lasciato il Quirinale per partecipare alla «decima Giornata del ricordo e della memoria delle vittime delle mafie» promossa dall’associazione Libera di don Luigi Ciotti. C’era molta gente. C’era anche il presidente emerito Oscar Luigi Scalfaro. Vari oratori si alternarono al microfono per leggere da un elenco i nomi delle vittime della mafia. Un rosario di 640 nomi, in ordine cronologico dal 1893 in poi. Arrivati al 1972 dissero il nome di Giovanni. Non me l’aspettavo, sentii un tuffo al cuore, ma non dissi nulla alle persone che erano con me e non ci avevano fatto caso.

Sei mesi dopo provai la stessa emozione quando accompagnai Ciampi nella visita alla Casa del Jazz di Roma, ospitata a Villa Osio, la splendida residenza sequestrata al boss della banda della Magliana Enrico Nicoletti. Ciampi si fermò alcuni minuti in raccoglimento all’ingresso, davanti a una lapide che riportava i nomi di quelle centinaia di vittime della mafia. Di nuovo, c’era il nome di Giovanni.

Mafia! Non avevo mai pensato di classificare la morte di Giovanni come un delitto di mafia. Era un impasto di così tante cose che si faceva fatica a darne il senso. L’impossibilità di dire in una parola che cos’era aveva contribuito a farlo dimenticare. Capii solo allora che non era arbitrario chiamare mafia quel miscuglio di insabbiamenti, depistaggi, contrabbando, traffici illeciti, trame nere, oscuri moventi, sentenze di favore.

Ripresi vecchi contatti con Ragusa. Organizzai un convegno in memoria di Giovanni. Scoprii che in quegli anni di mia lontananza, a Ragusa, un giovane storico, Carlo Ruta, di sua iniziativa, aveva ripreso il filo delle inchieste di Giovanni e aveva riproposto tutti i suoi dubbi sull’insabbiamento dell’inchiesta per l’assassinio di Angelo Tumino. Per questo si era scontrato con il magistrato che aveva condotto le prime indagini e aveva subito una ingiusta condanna. Ognuna di queste cose smosse qualcosa dentro di me. Mi fece capire che non ero il solo a pensare che Giovanni non era morto per una fatalità e che era ingiusto fare credere che non aveva fatto bene il suo lavoro.

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