L’articolo che segue, a mio avviso assai bello, rievoca le condizioni della nascita del capolavoro sartriano, ne interpreta storicamente i contenuti, ne verifica la possibile attualità. Scritto per il cinquantenario resta da leggere, conservare e, per quel poco che si può, diffondere anche per i settant’anni. (S.L.L.)
Parigi, maggio 1942: il commissario per i problemi ebraici di Vichy, Darquier de Pellepoix, stabilisce l'obbligo per ogni cittadino «di razza ebraica» di portare la stella gialla. Luglio dello stesso anno: l'operazione ironicamente denominata «Vento primaverile» e condotta senza scrupoli dalla polizia francese non è che una grande retata della popolazione ebraica parigina ammassata al Vélodrome d'Hiver. Dalle stazioni partono i primi convogli di deportati. La pressione dell'occupazione tedesca contro tutto ciò che abbia l'ombra ebrea o comunista diventa intollerabile.
In questo clima Jean-Paul Sartre, allora trentasettenne, è impaziente di scrivere. Era già stato chiamato alle armi, inviato in Alsazia e fatto prigioniero a Trèves (Stalag XIII D). Una volta libero, affianca l'impegno politico nella Resistenza con l'inderogabile urgenza della scrittura. Sartre scrive senza pausa e dappertutto. E nonostante allarmi e bombardamenti comincia a prendere corpo L'Essere e il Nulla. Pubblicato nel giugno del '43, il libro resterà praticamente ignorato fino alla fine della guerra, quando Sartre diventa una sorta di eroe culturale. Le sue riflessioni filosofiche sono provocate dalla condizione storica: collaborazionismo o resistenza, accettazione o denuncia, inautenticità o scelta responsabile. L'impassibilità non fa parte dei «possibili». L'appello alla libertà nasce proprio dall'oppressione quotidiana, dalla necessità personale di rompere gli argini in una Parigi occupata.
Un chilo di nulla
Ma nell'anno di guerra 1943 quel libro di 722 pagine non si vende. Si dice che l'edizione Gallimard pesasse un chilogrammo e che questo fatto provocasse un uso non proprio ortodosso dell'opera. Lo ricorderà Raymond Queneau: «Sartre ha fatto veramente un bel colpo. Pubblicare nel '43 un libro che pesa esattamente un chilo... tutti i commercianti che vendono farina o patate a peso saranno obbligati ad avere un volume in magazzino ».
Nella Parigi occupata la sussistenza quotidiana può essere un problema insormontabile. L'argomento preferito delle conversazioni riguarda più la penuria di viveri che la filosofia, e la Resistenza sembra essere l'unica strada percorribile. Insieme ad alcuni noti intellettuali, Sartre fonda Socialismo e libertà, tentativo che comunque avrà vita breve. Non resta che scrivere ed attendere il crollo del nazismo e Sartre sa sparare solo inchiostro sulla carta.
La grande offensiva esistenzialista si scatena alla fine del '45. Nella stessa settimana di ottobre escono il primo numero del mensile «Les Temps Modernes» e i due volumi dei Chemins da la liberté: L'età della ragione e Il rinvio, mentre sempre in quei giorni Sartre tiene quella che diventerà la sua più celebre conferenza dal titolo: «L’esisistenzialismo è un umanismo».
Il comitato di redazione della rivista riunisce un eccezionale gruppo di intellettuali tra cui Merleau-Ponty, Raymond Aron e Simone de Beauvoir. Nella presentazione del primo numero, dedicata alla necessità dell'impegno degli scrittori, Sartre - che è anche direttore - dà quella che sarà l'impronta del mensile. «Non vogliamo perdere nulla del nostro tempo» — scrive il filosofo - «forse ce n'è di migliori, ma questo è il nostro, non abbiamo che questa vita da vivere, in mezzo a questa guerra, forse a questa rivoluzione ...». Proprio quando «Les Temps Modernes» comincia a circolare, Sartre è chiamato a un una riunione del partito comunista dove gli viene rimproverato il tentativo di lavorare indipendentemente dal partito stesso, mentre - altro grave crimine che gli viene imputato - la sua filosofia non marxista sembra costituire un irresistibile richiamo per i giovani.
Ma l'interesse per la sua posizione filosofica si evidenzia nel successo della conferenza L'esistenzialismo è un umanismo del '45, la cui forza divulgativa ha il merito di chiarire e in qualche modo introdurre un'opera non proprio di facile approccio com'è L'Essere e il Nulla. Una folla di studenti e di professori, di intellettuali, di donne, di amici e di allievi, di giornalisti e di letterati riempie la sala. Molti restano fuori. La ressa rischia di trasformarsi in qualcosa di peggio tanto che è necessario l'intervento della polizia. Una donna sviene poco prima che Sartre cominci a parlare e si alzi finalmente un gran silenzio attorno a lui.
Il giorno dopo i giornali parigini non parlano d'altro e Jean- Paul Sartre e Simone de Beauvoir sono ormai due celebrità. L'Essere e il Nulla diventa un best-seller. L'esistenzialismo ateo di Sartre è al centro di un movimento culturale che ha come quinta i caffè parigini. Punto di riferimento obbligato per gli intellettuali di tutto il mondo. La filosofia sembra essere uscita da un lungo letargo, la cultura diventa qualcosa da fare, da costruire, da inventare. Parlare di «filosofia» e di «moda» sembra, oggi, parlare di due cose senza alcun rapporto. Una si propone come una scelta di profondità, intensiva, qualitativa, mentre l'altra si definisce come qualitativamente accettata, come uniformemente estesa.
La libertà di negare
Fu proprio tramite l'esistenzialismo che questo improbabile se non impossibile avvicinamento si concretizzò. Si discuteva di filosofia, si cercavano nuove idee e nuovi pensatori, si esaurivano i saggi nelle librerie, si cercava un futuro. «Stava a noi» - ricorderà qualche anno dopo nelle suo memorie Simone de Beauvoir - «costruire l'avvenire che si sarebbe aperto, forse politicamente, in ogni caso sul piano intellettuale: dovevamo fornire un'ideologia al dopoguerra ».
Nell'Essere e il Nulla si elabora infatti una ontologia come contrapposizione fra l'essere-in-sé della realtà immediata e l'essere-per-sé della coscienza trascendente, mai astratta, sempre coscienza di qualcosa (coscienza posizionale ). Proprio questo rapporto costituisce il fondamento della sua capacità di negazione. L'essere umano, sostiene Sartre, ha la possibilità di negare e in questa possibilità risiede tutta la sua libertà. Il per-sé non ha l'essere, è un vuoto di essere, non essendoci necessità non c'è coercizione: è il luogo della libertà. Questa «mancanza di essere» nella realtà umana si trasformerà in «desiderio di essere», in desiderio di essere Dio, di essere un Assoluto, di essere-in-sé, di raggiungersi. L'unica cosa che questa libertà non può negare è se stessa. Il progetto originario, la scelta fondamentale può essere modificata, revocata, annullata. Ma la libertà, la ricerca dell'Assoluto, questa ricerca dell'essere è fatalmente destinata allo scacco, al fallimento. E per questo Sartre dirà: «l'uomo è una passione inutile». Anche se le categorie sviluppato nell'Essere e il Nulla costituiscono il fondamento dalla sua evoluzione posteriore, man mano che questa si produceva, acquisitva più peso la nozione di «situazione», quale lungo dove sì materializza un concetto, dove un'idea si nutre di senso per diventare sensata, in rapporto col suo tempo, utile, vitale.
Protagonista mezzo secolo fa, lo ritroviamo venticinque anni dopo a fianco degli studenti del maggio del '68. La «moda» dell'esistenzialismo aveva trovato il modo per mantenersi attuale, legandosi indissolubilmente al suo tempo, alla sua situazione, confluendo nel tentativo che postulava «l'immaginazione al potere».
Che era successo nel frattempo? Sartre da intellettuale piccolo-borghese come lo avevano bollato a lungo i comunisti, diventa l'enfant terrible della cultura francese. Pensatore irrequieto, nella sue opera autobiografica Le parole confessa di aver sempre scritto contro se stesso: “Sono ostile allo ricorrenze né credo che la Storia sia puntuale e tanto meno mi affido allo coincidenza matematiche”. Ma nella mancanza di prospettive del nostro presente smemorato, come proiezione che non riesce a immaginare il proprio futuro, credo che sia ancora valido proporre quel chilogrammo di carta, fardello scarabocchiato per soppesare lo nostre esistenze.
"il manifesto", 24 giugno 1993
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