9.5.13

Adorno. La teoria estetica (Filippo Scarpelli)

L’arte rinuncia all’armonia
perché armonico è il dominio
Nella Teoria estetica Adorno sostiene che l'industria culturale, lungi dall'aver bisogno di una specifica ideologia, si limita a riempire di vuoto il tempo vuoto, sì che tutti i contenuti sono, per essa, ugualmente appetibili. Non ha bisogno neppure di deformare le coscienze con l'indottrinamento: le è sufficiente non aggiungere nulla, nei suoi prodotti, a ciò che le coscienze sono, perpetuando, con ciò stesso, la maledizione del lavoro e il consumo di merci di bassa qualità, che ne è l'altra faccia.
Con questo, arriviamo alla posizione che l'indagine teorica sull'arte occupa nell’«antisistema» filosofico di Adorno. Sempre nella Teoria estetica, egli scrive che coloro che hanno sete delle merci dell'industria culturale «si trovano al di qua dell'arte: per questo appercepiscono l'inadeguatezza dell'arte all'attuale processo di vita della società - anziché la falsità di tale processo. La passione di non lasciar essere alcun'opera ciò che è», fa sì che «la vergognosa differenza fra l'arte e la vita che essi vivono e in cui non vogliono essere disturbati, perché altrimenti non sopporterebbero lo schifo», debba sparire. L'industria culturale e la sua «sete di profitto» distruggono, insomma, la memoria e il rapporto col passato; Adomo, però, a differenza di Lukacs, nell'arte del passato non vide mai epoche di pienezza e armonia, ma solo «l'espressione di un anelito» verso qualcosa di diverso.
L'arte, in questa situazione, non si limita a subire passivamente l'aggressione della cultura depravata a barbarie: dotata, a giudizio di Adorno, di una natura mimetico-espressiva e, contemporaneamente, reattivo-costruttiva, riflette in sé quella cultura, sviluppando un canone di proibizioni che rende tabù, per gli artisti, i modi espressivi sanciti dalla tradizione, ormai ridotti a schemi inerti, ripetibili a piacere. Quanto al contenuto, tale processo è rappresentato in maniera incomparabile nel Doktor Faustus di Thomas Mann (durante la stesura del quale Adorno fece a Mann da consulente musicale), nella scena in cui il compositore Adrian Leverkuhn, sconvolto dalla morte atroce dell'amato nipotino, concepisce la terribile Lamentatio Doctoris Fausti: «Quello che è buono e nobile, che si dice umano, benché sia buono e nobile, quello per cui gli uomini hanno combattuto, ... che i vincitori hanno annunciato trionfanti, ecco, non deve essere. Io lo voglio ritirare». Insomma Leverkuhn vuole ritirare la Nona Sinfonia.
Quello che Mann racconta, diventa - per Kafka, Paul Celan e Beckett in letteratura; per Berg, Schonberg e Webern in musica - principio formale di stilizzazione: «La poesia si è ritirata in ciò che si abbandona senza riserve al processo di disillusione dal quale è roso il concetto di poetico: è in questo l'irresistibilità dell'opera di Beckett»…
L'arte, dunque, secondo i Minima Moralia, si rivela «magia liberata dalla menzogna di essere verità», mentre l'essenza della magia consiste nel suo essere la primordiale tecnica del dominio: e perciò i lamenti sulla perdita dell'incanto poetico nell'arte moderna suonano falsi.
L'accenno al disincanto del mondo, peraltro, consente agevolmente di notare come il rapporto di Adorno con Max Weber sia un po' più complicato delle chiacchere correnti contro il concetto weberiano di «gabbia d'acciaio della tecnica». Con il concetto di razionalizzazione, Weber suggerisce ad Adorno, che le separazioni tra i saperi, indotte dal processo storico, sono irreversibili, non possono essere ricomposte. Ciascuno degli ambiti specialistici in cui, secondo Weber, la totalità sociale si disgrega, costituisce, per Adorno, sia la rivelazione dello scacco in cui il pensiero teorico si trova, sia una smentita all'identità idealistica di spirito e processo storico totale…
L'arte non fa eccezione: ma nel suo soggiacere alla razionalizzazione si ritrae sempre più decisamente dal modello della razionalità strumentale e assolve, nell'ambito della dialettica negativa, a una funzione rivelatrice della limitatezza intrinseca a quel modello di razionalità.

“il manifesto”, 6 agosto 1989

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