15.5.13

Franco Fortini. Il lessico nascosto delle cose prime (Edoarda Masi)

Per il decennale della morte di Franco Fortini fu organizzato a Siena nell’ottobre del 2004, organizzato dal Centro studi a lui intitolato e dall’Università un convegno cui partecipò, tra gli altri, Edoarda Masi. Riprendo dal “manifesto” alcuni brani di quell’intervento. (S.L.L.)
 
Franco Fortini
In che direzione e in quale misura la lettura attenta di Franco Fortini può essere di aiuto nella ricerca di una via e di un'azione efficace? Che senso ha il messaggio lasciato da lui vicino a morte: «proteggete le nostre verità»? La sua capacità di anticipare gli eventi, di intendere il corso della storia senza cedere all'apparenza del caos, e quindi di ricercare una soluzione attiva perfino nelle condizioni più disperate, si fondava, anche, su una scelta che risale agli ultimi anni di guerra: riconosciuta la centralità della lotta fra le classi, collocarsi da una parte del fronte, in rottura con la radice piccoloborghese. La critica andrà perfezionandosi col trascorrere degli anni.
La condizione di intellettuale piccolo-borghese [uso questo termine non come sinonimo di lower middle class ma nell'accezione di borghesia non grande-capitalista] è costantemente riconosciuta da Franco Fortini come propria, un aspetto di necessità oggettiva nella sua biografia; e costantemente oggetto di critica e negazione. Questo va inteso con riferimento sia alla condizione propriamente di classe, sia alla sua specifica attività di scrittore. Si estende, in termini più complessi, anche all'attività di creazione poetica.
La radice familiare, e di formazione giovanile, è nella piccola borghesia antifascista; quella che per brevità e in modo approssimativo posso indicare, al suo livello più alto, con l'etichetta «partito d'azione». (Vi appartenne suo padre, come pure quel suo padre spirituale che fu Giacomo Noventa). Portatrice di un'istanza democratica all'interno del sistema del capitale, fu sconfitta in Italia dalla più conseguente ala fascista dello stesso ceto. Così come, sul piano internazionale, furono sconfitti i tentativi di riforma ispirati a teorie keynesiane o ad un liberalismo capitalistico con velleità socialiste. A risolvere la grande crisi fu - necessariamente - la guerra mondiale. Questa, paradossalmente, rese possibile un grande fronte unito antifascista che celava agli occhi dei popoli un mondo diviso in due blocchi antagonisti. Che tuttavia si rivelò appieno dopo la sconfitta del nazismo.
A Franco Fortini è chiaro che dietro ed entro il conflitto fra potenze si cela un altro conflitto, ben più profondo. Nel saggio Mandato degli scrittori e fine dell'antifascismo fa proprie le parole pronunciate da Bertolt Brecht nel 1935, al tempo della formazione del fronte unito: «Quelli fra i nostri amici che di fronte alle crudeltà del fascismo sono atterriti quanto noi ma vogliono mantenere immutati i rapporti di proprietà o rimangono indifferenti di fronte alla loro conservazione non possono condurre vigorosamente e abbastanza a lungo la lotta contro la barbarie dilagante perché non possono suggerire né promuovere le condizioni sociali che rendono superflua la barbarie. Quelli invece che cercando la radice del male si sono imbattuti nei rapporti di proprietà, sono discesi sempre più profondamente, attraverso un inferno di atrocità sempre più profondo, finché sono giunti là dove una piccola parte dell'umanità aveva ancora il proprio spietato dominio. Essa lo ha ancorato in quella proprietà del singolo individuo che serve allo sfruttamento del prossimo e che viene difesa con le unghie e coi denti, a prezzo dell'abbandono di una cultura [...]. Compagni, parliamo dei rapporti di proprietà!»
Sono gli stessi rapporti che dividono il mondo, anche fra colonizzatori e colonizzati all'interno dei singoli paesi e sul piano internazionale, oggi che al bipolarismo è subentrato il monopolio del dominio. Contro i valori della sua classe d'origine e dei quali era egli stesso impastato e contro la falsa concordia e la falsa tolleranza Fortini sceglieva la divisione, là dove è autentica.
Leggiamo in I cani del Sinai: «In pratica - nella pratica della pigrizia - avevo accettato l'assurda idea che ebraismo, antifascismo, resistenza, socialismo fossero realtà contigue. Come ci si può ingannare. Era accaduto che l'ebraismo fosse inseparabile da una persecuzione immensa e non ancora del tutto esplorata: testa di Medusa per chiunque. Era parsa riassumere qualsiasi altra persecuzione, qualsiasi altro strazio e quindi perdere la sua specificità. Fra ideologi dei carnefici e ideologi delle vittime c'era stato un accordo paradossale: per i primi gli ebrei erano stati incarnazione dello spirito satanico, e per questi, quelli. I difensori del pensiero democratico-razionale avevano veduto negli ebrei un universale, incarnazione di quanto l'uomo potesse avere di più caro, la tolleranza, la non violenza, l'amore della tradizione, la razionalità. Questo errore non era innocente».
Nello stesso testo, sui «macelli» nazisti e sugli ebrei: «Quel senso era: di aver riassunto, nella posizione di vittime e in una incredibile concentrazione di tempo e di ferocia, tutte le forme di dominio e violenza dell'uomo sull'uomo proprie dell'età moderna, di aver riprodotto ad uso di una sola generazione umana quel che diluito nel tempo, nello spazio, nella abitudine e nella insensibilità, le classi subalterne europee e le popolazioni colonizzate avevano subito come diniego di esistenza e di storia, come alienazione reificazione annichilimento. Ma ricavare questo senso e una lezione di lotta contro le condizioni estreme a noi note che rendono possibile la distruzione dell'uomo, di cui la strage ebraica è solo un esempio, è stato di pochi. Molti portavoce della cosiddetta "cultura" d'Occidente cercavano interpretazioni extrastoriche e metapolitiche e rapidamente giungevano a situare le stragi naziste nell'ordine del "sacro", a considerarle opera del Male In Sé, in sostanza ad accettare, rovesciandone i contenuti, uno dei miti centrali della mistica nazista: la purezza o purificazione attraverso l'olocausto».
La falsa concordia e la falsa tolleranza sono complici del grande inganno ideologico nei singoli paesi e sul piano planetario, funzionali all'opera di distruzione della vita civile e di colonizzazione globale in atto. Un'altra pagina di I cani del Sinai rappresenta con grande forza e chiarezza questa verità: « Chi sa che il conflitto di classe è l'ultimo dei conflitti visibili perché è il primo per importanza, è fuori di ogni "diritto" naturale, è una delle "cose ignobili del mondo", delle "cose sprezzate", delle "cose che non sono"; e deve, in un certo senso, "tollerare" e "permettere" le false accuse… Mi chiedo anzi se quella che è stata chiamata vocazione alla sconfitta di tanti movimenti rivoluzionari  non si accompagni sempre ad una coscienza della dialettica di comunicabilità e incomunicabilità, di persuadibilità e impersuadibilità, di comunanza e di estraneità - simboleggiata al condannato a morte che fino all'ultimo parla ai carnefici - dove però prevale, alla fine, nel punto alto della curva, la rinuncia alla comunicazione presente in nome di una possibile comunicazione avvenire. È l'affermazione d'una verità di cui non si può dare testimonianza se non morti, secondo la formula d'un antico eretico…».
A chi è nato e cresciuto negli ultimi anni le parole di Fortini potranno apparire lontanissime. Segnano una distanza dai nostri giorni, quando il termine stesso di «politica» è divenuto sinonimo di politicantismo. Purtroppo è quello che, nelle mutate condizioni di oggi, rende sempre più debole politicamente la solidarietà con i palestinesi e con gli altri popoli aggrediti e colonizzati. Che è costretta a fondarsi o sulla difesa del principio della nazione o sui generici «diritti umani»: cioè su principi sostanzialmente falsi. Eppure la distanza va superata, vanno recuperati i contenuti e il senso stesso della vita e della storia del secolo che si è appena concluso per riferirli al nostro presente; anche contro l'operazione in corso, di vilipendio e di oscuramento.
La radicalità di Fortini è controllata dall'impegno politico. Vide con simpatia e partecipazione la rivolta studentesca del `68. Era indirizzata, fra l'altro, contro le dirigenze dei partiti comunisti europei in un tentativo di recuperare il protagonismo dei soggetti. A questo fine gli studenti scelsero di allearsi con gli operai, evitando gli intermediari che ne oscuravano la coscienza e rompendo le barriere gerarchiche. Si estesero fra un pubblico più vasto sia la conoscenza dei contenuti della rivoluzione cinese, alternativi al marxismo sovietico, sia quella del marxismo critico, che fra minoranze limitate era cresciuto in Europa fin dagli anni Venti, e in Italia dal secondo dopoguerra ad opera anche di personalità come lo stesso Fortini.
Ma la rivolta di un ampio settore della gioventù contro i padroni era anche diretta contro i padri, e come tale ambivalente: contrassegnata dalla centralità dell'individuo contro il limite - qualsiasi limite - imposto dalla società-collettività - da qualsiasi collettività. Era lo spirito del cieco individualismo piccoloborghese che Pierpaolo Pasolini ebbe a criticare così aspramente. Senza però rendersi conto che sottolineare quell'aspetto e omettere il resto poteva essere sociologicamente corretto, ma sul piano politico significava mettersi dalla parte dei padroni e da quella dei poliziotti che - proletari o non - agivano comunque per ordine dei padroni.
Con gli esiti degli anni successivi e fino a oggi, quando molti fra i protagonisti del movimento di allora, in Francia e in Italia, hanno rivelato il seme piccoloborghese, anticomunista in toto, che covava sotto la protesta, quell'invettiva di Pasolini acquista un carattere profetico. E tuttavia le ragioni di Fortini, che gli si oppose, vanno più in profondità: sono aperte alla possibilità della critica, che certo non lesinò, ma esclusivamente all'interno di un fronte; se la critica si pone al di sopra o al di fuori delle parti, dimentica che la via d'uscita va ricercata fuori e contro, non all'interno del sistema di dominio, o finisce col rispecchiare e ripetere lo stesso oggetto criticato.

“il manifesto”, 16 ottobre 2004

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