Con l’aggravarsi della crisi economica, etica e politica, inevitabilmente crescerà la tentazione di buttarla sull’istituzionale e sul costituzionale; e come diversivo si impegnerà l’opinione pubblica in Grandi Riforme. Nell’articolo che qui riprendo, di una ventina di giorni fa, Mauro Volpi, costituzionalista di peso, ironizza sulle possibilità che avrebbero le “Ricostituenti” di cui si torna a parlare e dunque minimizza il pericolo che può venire da simili operazioni che giudica di facciata. Io, stavolta, sarei un po’ meno ottimista. La disinvoltura quirinalizia nell’interpretare funzioni e ruoli è già al limite del golpismo. Quel limite potrebbe essere superato e l’appello al “populo” oggi respinto come populista, potrebbe essere il momento conclusivo di una campagna ben orchestrata. (S.L.L.)
Ci risiamo. Da più di venti anni si parla di riforma costituzionale, più o meno «grande», e si inventano nuovo procedure «costituenti». Il pensiero va alla Commissione bicamerale De Mita-Jotti del 1992/93. Poi alla Commissione bicamerale D'Alema del 1997/98. In entrambi i casi si è previsto con legge costituzionale un procedimento eccezionale in deroga a quello stabilito dalla stessa Costituzione (all'articolo 138) per le revisioni del testo. Il risultato: zero assoluto.
Non solo non è stata fatta la «grande» riforma auspicata da alcuni, ma neppure specifiche e puntuali revisioni costituzionali su questioni sulle quali a parole da decenni sono tutti d'accordo, come il superamento del bicameralismo paritario, con la creazione di un senato delle Regioni e l'attribuzione del voto di fiducia per il governo alla sola camera dei deputati, e la riduzione del numero dei parlamentari. Ora gli strateghi della riforma, gli stessi che in un anno e mezzo di governo Monti non sono stati in grado di cambiare la legge ordinaria che disciplina il sistema elettorale, ci spiegano che le vecchie Bicamerali sono fallite «perché le tensioni del mondo politico si sono riversate proprio su quelle commissioni» (così Violante su “l'Unità” del primo maggio). Oh bella! Ma non era proprio per questa ragione che si era voluto evitare il procedimento previsto dalla Costituzione che passa per una fase iniziale di esame dei disegni di legge costituzionali da parte delle due commissioni competenti di camera e senato?
Ora ci spiegano che la formazione di commissioni speciali non ha funzionato. E allora tirano fuori dal cilindro un nuovo coniglio. La parola magica è «Convenzione». Il comitato di quattro saggi designati dal presidente della Repubblica ha proposto una «Commissione redigente», con la encomiabile dissociazione di Valerio Onida, l'unico costituzionalista partecipante, che ha ribadito la necessità di applicare l'articolo 138 della Costituzione senza inventare pericolose via traverse. Di cosa si tratta? Mistero. Nelle sue dichiarazioni programmatiche il presidente del Consiglio Letta non ce lo ha spiegato. I saggi si sono limitati a dire che il nuovo organismo sarà formato da parlamentari e non parlamentari.
Una cosa è certa: per fare funzionare la Convenzione occorrerà approvare una legge costituzionale in deroga all'articolo 138 e quindi dovranno passare alcuni mesi prima che si discuta del contenuto delle riforme. In quella sede dovrebbero essere sciolti i nodi sul tappeto. Qualche ingenuo si è spinto a pensare che per evitare i condizionamenti della vita politica la Convenzione dovrebbe essere formata esclusivamente da esperti. Ma pare che al contrario sarà composta in prevalenza da parlamentari e da ex parlamentari. La smentita più autorevole della natura tecnica della Convenzione è venuta dalla candidatura alla presidenza di Berlusconi, al quale evidentemente non basta che un esponente del suo partito (Quagliariello) sia stato nominato ministro delle riforme. Molto meglio apparire come «padre costituente»! E se un domani egli subisse una condanna penale, poco male. Come ci spiega il guru Ferrara, questa si ritorcerebbe contro i magistrati. È naturale che il Pd, per quanto in stato confusionale, non potrebbe accettare una soluzione di questo tipo.
Ecco allora che sembra farsi strada una soluzione di compromesso, come si conviene nella nuova fase di concordia nazionale e di «pacificazione» largamente strombazzata in questi giorni. Un ottimo Presidente sarebbe Roberto Calderoli. Sì. Avete capito bene. Non è un omonimo. È lo stesso Calderoli primo firmatario dell'orribile legge elettorale che è stata denominata Porcellum grazie ad una sua intervista nella quale ammetteva che alla vigilia delle elezioni del 2006 l'allora maggioranza di centrodestra aveva fatto una «porcata». Ed è quel Calderoli che si riunì insieme ad altri tre «padri costituenti» nella baita di Lorenzago per proporre una riforma della seconda parte della Costituzione che fu approvata nel 2005 dalla maggioranza parlamentare, ma venne sonoramente bocciata dal corpo elettorale nel referendum del 25/26 giugno 2006. Insomma Calderoli come un novello Meuccio Ruini, il grande giurista e uomo politico che ai tempi dell'Assemblea Costituente presiedette la commissione dei settantacinque incaricata di redigere il testo della Costituzione. Basterebbe questo per farci capire che non si tratta di una cosa seria.
Il guaio è che purtroppo non siamo su Scherzi a parte, ma abbiamo a che fare con quello che passa oggi il convento della politica. E allora proviamo a far ragionare gli aspiranti «costituenti». Siete proprio sicuri che l'ostacolo alle revisioni della Costituzione stia nel procedimento previsto dall'articolo 138, che è uno dei meno complessi tra quelli previsti nel mondo democratico? O non stia piuttosto nella incapacità della politica di provvedere a quel che è veramente urgente e indispensabile per fare funzionare meglio le istituzioni, a cominciare dalla riforma del sistema elettorale con legge ordinaria? E anche nella furia iconoclasta con cui molti vorrebbero sbarazzarsi della Costituzione, immaginando procedimenti che possono surrettiziamente mascherare da riforma un processo costituente «suscettibile di travolgere l'insieme della Costituzione» (come ha sottolineato Onida all'interno del comitato dei saggi)? E poi siete sicuri che assemblando in un unico testo proposte di modifica di varie parti della Costituzione, sia più facile che la riforma sia approvata? Non vi hanno insegnato nulla i precedenti che dimostrano che più cose si mettono dentro più è facile che le opposizioni alle singole proposte si sommino e facciano fallire l'intera proposta? Infine, non sarebbe meglio che un governo che non sembra avere avanti a sé un radioso avvenire, si accontentasse di mettersi subito all'opera per quelle riforme urgenti e quegli aggiornamenti costituzionali che ci consentirebbero di tornare al voto con qualche speranza di avere un sistema funzionante?
Ma qui si misurerebbe l'effettiva volontà politica di trovare un accordo. Meglio abbaiare alla luna e deviare l'attenzione dei cittadini verso i massimi sistemi. Per fortuna con scarsissima probabilità di cambiarli.
“il manifesto”, 3 maggio 2013
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