L'articolo rievocativo, scritto per "il manifesto" da Franco Miracco nel cinquantenario di Guernica, contiene un'intervista a un comunista spagnolo, José Renau, straordinaria figura di artista e militante che è - in qualche modo - da considerarsi il committente del capolavoro di Picasso. E' un pezzo da leggere e possibilmente ricordare. Ottimamente rievoca un tempo, un'atmosfera: l'aggressione della belva nazifascista alla Spagna repubblicana, la Parigi dei bistrot e degli artisti, l'Esposizione Universale del 1937. (S.L.L.)
José Renau |
Non ho ancora visto Guernica, ma ho parlato invece con il pittore, con il rivoluzionario spagnolo che nel 1937 andò a Parigi, da Picasso, nella speranza di convincere quel mito vivente a partecipare all'Esposizione internazionale. Quell'artista si chiamava José Renau ed era nato a Valencia nel 1907. Fa la sua prima mostra a Madrid nel 1928, ed è la crisi, i primi dubbi sul significato del proprio lavoro, su chi sono i destinatari di un quadro. Conobbi Renau circa dieci anni fa e con queste parole mi spiegò che cosa avvenne dopo la mostra : «Vivevo in ambienti reazionari, gli stessi che decretarono il mio successo d'artista nella mostra di Madrid. Io non volevo diventare il pittore di quella gente, di quella Spagna. Decisi di non dipingere più e di impegnarmi in un lavoro rivoluzionario. Per quattro, cinque anni, sarei stato al servizio della rivoluzione, immancabilmente alle porte».
Il Renau che conobbi io era un vecchio e distinto signore, miope, ma con lo sguardo fermo, vivo, baffi ben curati, quasi bianchi sotto gli occhiali. Le sue parole mi portavano agli anni del comunismo «del ferro e del fuoco», dell'internazionalismo spietato e senza limiti. Questo era1’uomo che spinse Picasso a dipingere per il padiglione spagnolo all'Esposizione internazionale di Parigi del 1937 e che, in un certo senso, provocò la nascita di Guernica.
Prima di diventare il quadro-simbolo che tutti conosciamo, Guernica era semplicemente il nome di una cittadina basca vicina al fiume Mundaca. I tedeschi la bombardarono selvaggiamente per più di tre ore il lunedì 26 aprile 1937. Da quel momento il ventesimo secolo potè disporre di un'immagine disumana, sintesi reale e visiva delle enormi tragedie collettive che per decenni lo hanno orribilmente sconvolto. Durante la guerra di Spagna Renau è il grafico, il pubblicitario della Repubblica. I suoi fotomontaggi diventano i segni della riscossa, della resistenza. La tecnica del fotomontaggio, la stessa di Heartfield, di Hausmann, di Hoch, diviene in Renau uno strumento diverso da quello elaborato dal dadaismo tedesco. Si trasforma in un oggetto estetico che colpisce duro, con forza semplificata, che vuole essere linguaggio subito comprensibile, insomma, un messaggio.
Un manifesto di Renau al tempo della repubblica spagnola (1938) |
Ricordo questa sua riflessione :«La mia morale è trovare il cammino più breve, senza intermediari, per arrivare all'osservatore. Nemmeno la mia personalità d'artista lo deve disturbare». Renau è intanto diventato il direttore delle Belle Arti della Repubblica in guerra contro il franchismo. Ed è nella sua qualità di organizzatore del padiglione spagnolo che Renau, negli ultimi giorni dell'aprile del 1937, parte per Parigi in cerca di Picasso.
Il vecchio militante comunista insiste molto sull'intensità della sua emozione di messo della Repubblica: «Non sapevo nemmeno come avrei dovuto vestirmi andando da Picasso. Mi ero portato un abito scuro, da diplomatico, che indossai non appena giunto nella sede della nostra ambasciata di Parigi. Vestito a quel modo andai a cercare il grande artista con una macchina importante, da delegazione ufficiale. Ma quando giungemmo vicino allo studio di Picasso scesi dalla macchina e proseguii a piedi. Non lo trovai. Qualcuno mi disse che lo avrei potuto incontrare in un bistrot, a pochi metri da lì».
Un Renau timidissimo entra nel bistrot e si accorge che il personaggio da lui cercato è seduto a un tavolo di giocatori di carte. Non vuole essere disturbato. Tra grandi bevute di anice, di urla, di un fittissimo, irruente, bestemmiare e borbottare tra lo spagnolo e il francese, ogni tanto gli occhi di Picasso fulminano il giovane inviato della Repubblica. Renau ricorda: «Non dimenticherò mai i suoi occhi. Chi ha visto Picasso non può non parlare di quello sguardo che ti bruciava, che ti scavava dentro».
Pablo Picasso |
Finalmente la partita nel bistrot finisce, e Renau si fa coraggio: «Ero molto preoccupato, perché sapevo che Picasso era in crisi. Era molto solo. Dipingeva donne dalle linee afflosciate, piangenti, con segni marcati che davano il senso dell'ineluttabile. Più tardi, quando vidi Guernica, capii che quell'opera non era del solo Picasso, ma apparteneva alla Spagna. La guerra aveva acutizzato, drammatizzato l’arte di Picasso. In mezzo alle sue donne smorte passò una furia che gli consentì l'impalcatura violenta di Guernica». Fin qui Renau, che con le sue parole ci riporta a quella lontana stagione, in cui Picasso, per la verità, creava immagini come quelle del Minotauro in barca, o aveva già creato (1934) le violentissime contorsioni, i potenti squarci, gli agghiaccianti apparizioni, che vediamo nella lotta fra Toro e cavallo. Ma già con la terribile e implacabile Minotauromachia del 1935 Picasso è avviato a «illuminare» fantasie inquietanti, impreviste combinazioni formali, che non possono non arrivare al testo di Guernica.
Si sa che l'artista, leggendo “l'Humanité”, è informato del massacro. Il primo maggio del 1937 Picasso è al lavoro. Dispone delle fotografie del bombardamento pubblicate da un quotidiano. Lavorerà per undici giorni, producendo oltre cinquanta studi. La grande tela (m. 3,50 x 7,77) sarà finita il 4 giugno e dopo pochi giorni verrà collocata nel padiglione disegnato da Luis Lecasa e José Luis Sert. Di fronte a Guernica fu allestita la fontana di Calder, un moto perpetuo azionato dal mercurio.
La fontana di mercurio, Guernica, ma anche le opere di Mirò, di Julio Gonzales, rappresentano la luce-libertà di quel 1937, e poi Dali, si proprio Salvador Dali, André Forgerai e André Masson. Guernica rimase a New York fin dopo la caduta di Franco. Ora è in Spagna, perché così aveva voluto che fosse Picasso.
"il manifesto", 1° maggio 1987
Nessun commento:
Posta un commento