11.5.18

Sessantotto. Aldo Capitini sui giovani e l'assemblea

Pavia, 30 novembre 1967 - Assemblea nell'Aula di Lettere occupata

Mi pare che la cosa più importante che sta avvenendo in questi mesi nella società italiana è la scoperta, o la riaffermazione, della «assemblea». Nella storia italiana degli ultimi secoli il principio dell’assemblea dal basso non ha avuto una vitalità continuata ed una creatività organica. Le forze dominanti in Italia l'hanno sempre temuta, ne hanno permesso esemplari ridotti, hanno preferito mandare a morire, mobilitandoli per la guerra, centinaia di migliaia di cittadini, ma non convocarli frequentemente su tutto il territorio nazionale per «ascoltare e parlare». Il Paese ha un debito verso i giovani universitari che hanno posto questo tema con energia e autopadronanza.
Sorgono due problemi:
  1. che il principio dell’assemblea sia esteso dalle Università agli altri campi della scuola e della società nazionale, ai consigli di quartiere da istituire e moltiplicare nei 7810 Comuni; in tutte le mutue di assistenza e previdenza per il controllo del funzionamento e dei bilanci da parte degli assistiti paganti, in ogni comunità di carattere pubblico come ospedali, convitti, parrocchie ecc.
  2. che l’assemblea sappia organizzarsi bene, rispettando le minoranze, sfondando le discussioni lunghe e non pertinenti, concludendo sempre con concretezza, costituendo al suo interno commissioni di inchiesta e gruppi di studio: si sa che l'assemblea, se è caotica, violenta e inconcludente, genera prima o poi l'autocrazia.
Ci vuole, dunque, in questo momento di tensione e di creazione, un orientamento che sappia trarre tutti i vantaggi da questo movimento privo, in genere, di violenza, e sappia da sé eliminare i difetti e i tranelli che possono sorgere nello svolgersi del grande esperimento.
L’orientamento che noi proponiamo è di portare la democrazia veramente a tutti e di usare in questo lavoro le tecniche nonviolente. Sono due cose non facili per l'inerzia storica e psicologica, per i pregiudizi che vengono dal passato; ma chi meglio dei giovani può «contestare» il passato? Ora nel passato ci sono due cose che noi, riformatori e non riformisti, assolutamente contestiamo: l'una, che la democrazia possa realizzarsi per un gruppo per una categoria di cittadini (dopo il Risorgimento il potere fu nelle mani della classe borghese e proprietaria), misconoscendo o conculcando il complesso dei diritti e delle esigenze degli altri; la seconda, che soltanto con la violenza si trasformino le strutture sociali, quando invece si vede che quanta più violenza si è usata, tanto maggior tempo ci è voluto per fare un passo verso una società veramente di tutti. Perfino il Gramsci, che pur era partito da una posizione leninistica di violenza, arrivò a valorizzare al massimo l’organizzazione del «consenso».
Se si vuole evitare oggi la reazione e il fallimento di un inizio cosi felice e fresco, è necessario — secondo il nostro parere — utilizzare i due principi detti prima. Accanto al lavoro da compiere nel campo dell’Università, puntando sul diritto allo studio, sull’assemblea, sul controllo, sul dialogo attivo, per studiare più e meglio, bisogna che gli studenti consolidino una posizione aperta ad interventi analoghi e costruttivi in tutti i settori, per far valere «la realtà di tutti» contro le cristallizzate, arbitrarie e settarie posizioni di potere. E nello stesso tempo bisogna che diano a tutto il loro lavoro non un indirizzo violento, che provocherebbe senz’altro una catena di reazioni violente e prepotenti, con l'appoggio di molti, non ancora guadagnati ma un orientamento di valorizzazione della «realtà di tutti». Credano i giovani a chi ha visto nascere il fascismo! Il loro lavoro può portare avanti qualche cosa che non si deve arrestare mai, una rivoluzione aperta che guadagni simpatie e solidarietà.
Questi nuclei costanti di promotori, questi centri di azione stanno certamente all’opposizione più profonda e più risoluta alla società attuale, che stenta tanto a diventare «società di tutti», e continuamente riafferma il suo dominio di parte e continuamente tiene i cittadini, e particolarmente i giovani, nel pericolo di essere chiamati, inquadrati e mandati ad uccidere e a morire in una guerra. Per questo il punto di partenza, la leva per la costruzione ulteriore, è il rifiuto della guerra, della sua preparazione, delle spese relative, della sua etica che viene a noi dal passato, da un passato che gronda lacrime e sangue.
Un compito molto positivo si prospetta agli studenti universitari se sapranno collocare il loro movimento in questi riferimenti profondamente riformatori, e in un tessuto che interessi tutti. Se «potere negro» (di cui si parla molto in questi giorni) vuol dire piena partecipazione al potere generale, è giustissimo; ma se dovesse essere il potere razzista dei negri al posto del potere razzista dei bianchi, noi non possiamo collaborare. Né possiamo collaborare con il razzismo e nasserismo arabo.
E siccome le lotte violente vanno avanti soltanto se ci sono dei duri capi, e così esse lasciano spesso tiranni, le lotte nonviolente invece permettono di mantenere la vitalità delle assemblee dal basso e dei liberi centri promotori del rinnovamento.

I giovani in «Azione nonviolenta», V, 3, marzo 1968 ora in Un'alta passione, un'alta visione. Scritti politici 1935-1968 a cura di Lanfranco Binni e Marcello Rossi. Il Ponte Editore, 2016

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