11.5.18

Se il reddito garantito è la fine dello Stato sociale (Samuele Cafasso)


Articolo non nuovo, ma secondo me utile al dibattito politico che si aprirà una volta insediato il governo di coalizione tra Lega Nord e Cinque Stelle. (S.L.L.)

Riusciranno il partito populista finlandese e una società privata della Silicon Valley dove Nixon ha fallito? Oppure, detto in un altro modo, la lotta alla povertà può essere una battaglia di destra? È una battaglia di destra, ancorché una destra atipica, libertaria e conservatrice in un modo del tutto peculiare, quella per il reddito universale (o di cittadinanza)?
Mentre il governo italiano fa i conti di quanto costa garantire un reddito di base a tutte le famiglie italiane che vivono in povertà assoluta – non meno di sette miliardi di euro l’anno, ma i conti li facciamo nel pezzo qui a fianco –, tra Europa e Stati Uniti rifiorisce l’utopia di una riforma molto più radicale che può cambiare per sempre – o cancellare, addirittura – lo Stato sociale per come l’abbiamo conosciuto.
Bisogna stare attenti ai nomi, dietro ai quali si nasconde una grande confusione, specie in Italia dove termini come reddito di cittadinanza o universale sono usati spesso a sproposito. Quello che vuole introdurre il nostro Paese – e che in varie forme è già presente in tutta la vecchia Europa – è un ammortizzatore sociale universale ma condizionato: ovvero viene riconosciuto a tutte le persone e famiglie che vivono sotto la soglia della povertà assoluta, ma solo se queste si impegnano in piani per il reimpiego e, una volta usciti dalle condizioni di povertà, viene sospeso o cancellato.
Dal primo gennaio di quest’anno, invece, la Finlandia sta sperimentando una formula diversa: 2.000 persone tra i 25 e i 58 anni e senza lavoro riceveranno per 24 mesi una somma mensile di 580 euro al mese senza condizioni. I beneficiari cioè non dovranno impegnarsi in piani per il reimpiego, potranno decidere se utilizzare i soldi per studiare, cercare un nuovo lavoro, aprire un’attività imprenditoriale, oppure restare a casa a bere birra e a guardare la tv. Se troveranno un lavoro che gli permetterà di uscire dal loro stato di bisogno, l’assegno non verrà comunque sospeso.
Un esperimento simile sta per essere avviato negli Stati Uniti da Y Combinator, una società privata della Silicon Valley che fa soldi come incubatore di startup. Non è un caso che l’iniziativa sia nata qui, dove la consapevolezza dell’impatto della tecnologia digitale sul mondo del lavoro fa presagire una società dove non sarà più necessario che tutti lavorino, scenario che ha ispirato, tra l’altro, l’ultima opera molto dibattuta di Paul Mason, Postcapitalismo (Il Saggiatore, 2016).
Y Combinator ha deciso di consegnare ogni mese a 100 famiglie duemila dollari. «Ci auguriamo che uno stipendio di base promuova la libertà, e vogliamo sapere come i beneficiari useranno questa loro libertà», ha spiegato il presidente di Y Combinator, Sam Altman. L’utopia libertaria, insieme al forte effetto redistributivo, è una delle bandiere più in vista dei promotori del reddito di cittadinanza e che guadagna proseliti anche a sinistra. Il reddito di cittadinanza piace a chi critica le disuguaglianze sempre più forti nella nostra società e gli attuali piani di welfare per le loro posizioni paternalistiche laddove il sostegno è subordinato a una verifica dell’impegno del singolo a re-introdursi nel mondo del lavoro o comunque a mostrare spirito di iniziativa e sacrificio, con trafile burocratiche spesso umilianti e inefficaci raccontate, da ultimo, da Ken Loach in Io, Daniel Blake.
Allo stesso tempo, non è un caso che il governo finlandese, che per primo in Europa ha avviato questa sperimentazione, sia un governo di coalizione di centrodestra dove, per altro, trova spazio uno dei partiti populisti oggi sotto osservazione nel resto d’Europa per le sue posizioni xenofobe. Nel caso finlandese, infatti, chi accede alla sperimentazione rinuncia agli altri istituti di sostegno presenti nel Paese. Il reddito di cittadinanza è il bazooka che distrugge lo Stato sociale per come l’abbiamo conosciuto: un organismo statale complesso che, dalla sanità all’istruzione, passando per il sostegno ai consumi, alla natalità e alla lotta alla disoccupazione, dispiega un ampio ventaglio di strumenti pensato per venire incontro a ogni necessità del cittadino. Un organismo costoso e burocratico, si dice spesso da destra, e che potrebbe essere cancellato con un colpo di spugna dal reddito di cittadinanza che, nella sua versione più radicale, è riconosciuto a tutti, senza distinzioni.
Se si guarda la questione da questa angolazione, non sorprende poi così tanto che, negli Stati Uniti, sia stato Richard Nixon il primo presidente ad aver proposto l’attivazione del reddito di base per la lotta alla povertà, pur se limitato alle fasce più indigenti della popolazione. Nel 1969, cinque anni prima delle dimissioni per il Watergate, il presidente repubblicano avviò una sperimentazione su 8.500 cittadini poveri a cui venne corrisposto un assegno di 1.600 dollari l’anno, circa 10 mila dollari di oggi, senza condizioni. Le indagini mostrarono che alcune delle paure più grandi che accompagnano ancora oggi le proposte per l’istituzione del reddito di cittadinanza erano immotivate: le ore lavorate dei beneficiari diminuirono in maniera moderata (il 9%, dato poi rivisto al ribasso in un secondo momento) e in molti casi si trattava di giovani che utilizzavano il maggior tempo libero per formarsi, o genitori per la cura dei figli. La riforma di Nixon, insomma, sembrava sulla buona strada per essere approvata e forse avrebbe avuto il merito di sconfiggere per sempre la povertà, almeno negli Usa. Tra i padri nobili sarebbe stato da annoverare, significativamente, anche Milton Friedman, esponente di quella scuola di Chicago per anni punto di riferimento degli antikeynesiani e che negli anni Sessanta propose l’idea di una tassa sul reddito negativa. Proposta diversa dal reddito di cittadinanza, ma nello stesso solco di riconoscere un reddito minimo come diritto universale sostitutivo rispetto al welfare considerato troppo paternalistico.
Eppure, la proposta non fu mai approvata dal Senato. Furono gli stesso conservatori ad affossarla, con motivazioni che inevitabilmente torneranno in discussione anche oggi. La prima questione è quella dei costi: il reddito universale bocciato nel 2016 in un referendum in Svizzera avrebbe fatto schizzare la spesa pubblica della Confederazione elvetica a tre volte tanto le entrate pubbliche annue. Negli Usa costerebbe circa due trilioni di dollari l’anno. Il reddito universale – a meno di introdurre fortissime tasse a scopo redistributivo – al momento può essere sperimentato solo se tagliato sulla fascia più povera della popolazione, e questo è un problema perché potrebbe costituire un incentivo a non lavorare per non uscire dalla fascia “protetta”, la cosiddetta “trappola della povertà”.
Ma al di là di questo, il problema maggiore è che i settori conservatori più vicini a una visione “protestante” del lavoro considerano immorale distribuire soldi senza motivo a chi non fatica per guadagnarseli e anzi temono che questo sia un incentivo in più a non svolgere un ruolo attivo nella società. Finora le sperimentazioni dicono che non è così, ma nessun dato o evidenza può scalfire la convinzione fortissima – a destra, ma non solo – che i poveri siano sempre anche un po’ pigri.
Un altro problema da superare è la questione del lavoro come strumento di affermazione individuale che rimane centrale, non solo a destra. Pensare a una società dove si può vivere anche senza far nulla è molto difficile, anche se in un futuro non lontanissimo le macchine ci spingeranno in questa direzione. Sam Altman, presidente di Y Combinator, nel lanciare la sua sperimentazione americana ha ammesso egli stesso che il rischio di fallimento è proprio nell’insopprimibile valore sociale del lavoro salariato, ed è d’altronde significativo che l’élite della Silicon Valley, cresciuta nel mito del successo personale perseguito anche a costo di ridurre al lumicino la propria vita privata a favore dell’impegno professionale, paghi qualcuno per permettergli di rimanere a braccia conserte.
Se poi ci spostiamo in Europa, la questione potrebbe essere ancora più spinosa. Se è vero che la Francia, con la legge delle 35 ore lavorative alla settimana prima e il diritto alla “disconnessione” poi, è da sempre attenta a un riequilibrio tra tempo libero e lavoro, diverso è pensare, specie a sinistra, una società di non lavoratori. Bisognerebbe ripensare il modo in cui intendiamo la dignità del singolo e la sua partecipazione attiva alla società. Anche in Italia, anzi soprattutto in Italia dove la nostra Repubblica si dice fondata sul lavoro.

Pagina 99, 14 gennaio 2017

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