28.5.18

I santi nell'armadio. Il cattolicesimo sociale dell'Ottocento secondo Sergio Quinzio (Filippo Gentiloni)

San Giuseppe Cafasso tra i carcerati

Hanno avuto coraggio le edizioni del Gruppo Abele a confrontarsi con un tema particolarmente scottante, dato il loro impegno, i grandi santi «sociali» del Piemonte ottocentesco.
Torino è ancora piena del ricordo — soprattutto delle grandi opere — di don Bosco, del Cafasso, del Cottolengo. Oggi si va riempiendo, invece, delle opere e dei giorni di gruppi del tipo del gruppo Abele, ormai padre di molti figli. È passato poco più di un secolo, ma sembra un millennio. Il confronto, d’altronde, è inevitabile: meglio affrontarlo senza reticenze.
Allora si diceva «carità», oggi «condivisione»: è o non è la stessa cosa? Ieri analfabeti, storpi, i mostri del Cottolengo, i condannati a morte del Cafasso; oggi drogati, spastici, alcolisti: è la stessa cosa? Diversi rivestimenti di un’identica miseria e di un identico cristianesimo? La società produce nei diversi secoli forme quasi identiche di emarginazione, per la «gioia», si potrebbe dire con sarcasmo, delle «anime belle» che vi trovano palestre per i loro «esercizi» di pietà?
Solo una mano leggera come quella di Sergio Quinzio poteva affrontare il confronto (Domande sulla santità. Don Bosco, Cafasso, Cottolengo, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1986). Una mano che dubita, interroga, lascia in sospeso. Che parla soltanto di storia; il confronto con l’oggi resta implicito, lo farà il lettore. Ma lo farà inevitabilmente e inesorabilmente. E, pur con molte attenuanti, il giudizio sarà duro per il cattolicesimo sociale del passato. Tanto più duro quanto più non soltanto cortese, ma anche accorato. Quinzio ricorda la sua giovinezza fra i salesiani, ma molti di noi ritrovano nei tratti dei santi sociali qualche cosa di una infanzia insieme vicina e lontana. Panni, sporchi o puliti, ma comunque di famiglia: non soltanto il gruppo Abele, ma tutto il cattolicesimo italiano deve rivisitarli. Con coraggio ma anche con affetto, proprio come fa Quinzio.
Quante contraddizioni! Le loro «opere» parlano ancora: basti pensare al lavoro dei salesiani in tutto il mondo o al Cottolengo di Torino (vi si sta spegnendo, fra gli altri poveri, il cardinale Pellegrino, il più grande fra i vescovi «conciliari» italiani). Un po’ meno gloriose le opere del «santo della forca», il Cafasso, eppure fra i tre il Cafasso regge meglio degli altri il confronto con l’oggi. Ma dalle pagine del libro le loro figure escono piuttosto deboli, esili, non grandiose né eroiche.
Ma ad essere debole era soprattutto il Piemonte dell’800: legato ad una monarchia piuttosto provinciale, ad una cultura chiusa, estraneo ai venti che dall’illuminismo in poi avevano cominciato a «criticare». Il Piemonte baluardo della Controriforma, affinché dalle valli valdesi e da Ginevra l’aria dell’Europa «moderna» non scendesse verso il Po. «Don Bosco dà giudizi tanto perentori quanto ingiusti (sulla base delle polemiche accuse controriformistiche, soprattutto ricalcando S. Alfonso de’ Liguori) su Lutero e Calvino, presentati come viziosi, impudichi, dissoluti, corrotti... Nella sua Storia ecclesiastica scrive, ad esempio, che Lutero morì ’’vomitando orribili bestemmie”» (pag. 33). Nell’opinione dei santi sociali, i protestanti stanno insieme con gli atei, i politeisti, i musulmani...
Si legge, con un certo raccapriccio la lettera di don Bosco all’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe perché si muova a ristabilire il potere temporale del papa (pag. 47): altro che Santa Alleanza!
Cafasso consola, sì, con eroica bontà, i condannati a morte, ma «a quel che risulta non ha mai trovato qualcosa da ridire contro una legge così dura, e che usava ben altro metro per misurare le colpe dei nobili, dei ricchi e dello stesso clero sottratto alla giurisdizione ordinaria e sottoposto al benevolo foro ecclesiastico» (pag. 44). «L’universo mentale — commenta mestamente Quinzio — restava quello di Joseph de Maistre, ambasciatore di casa Savoia in Russia» (pag. 45). Eppure, è sempre Quinzio a osservarlo, non era mancata nella storia del cattolicesimo e della stessa Controriforma un’altra tradizione di santi, sociali anch’essi, ma di diverso livello culturale (San Camillo de Lellis, all’inizio del ’600; San Vincenzo de’ Paoli, San Giovanni Battista de La Salle, ecc.). Era stato «San Vincenzo de’ Paoli, sul letto di morte, a insegnare a una sua novizia il dovere di farsi anzitutto perdonare dal povero o dal malato al quale si porge un piatto di minestra, perché il gesto implica fatalmente l’umiliazione di chi lo riceve» (pag. 24).
Quinzio sa bene che i santi sociali sono figli del loro tempo e del loro Piemonte, nel bene e nel male. I loro limiti non sono certamente nel campo della buona volontà, ma, caso mai, in quello culturale. E la loro grandezza? Quinzio, coerentemente con tutto il discorso cristiano che sta portando avanti da anni, la trova là dove generalmente non la si va a cercare, nei loro aspetti più negativi, o, se si preferisce, crocefissi: «La precoce e pietosa vecchiaia di don Bosco... il sentirsi dell’infelice Cafasso “una mezza creatura” e un “prete da forca”... il sorridere del Cottolengo nel considerarsi un “cavolo di Bra”; il loro modesto bagaglio culturale ed intellettuale, nel momento in cui il distruttivo irrompere del moderno nella cristianità avrebbe richiesto risposte storiche di ben altra potenza (siamo negli anni del Manifesto di Marx), li venero come segni di vera santità» (pag. 86).
Nessuna esaltazione, dunque, per i loro ben noti e anche strepitosi successi, per le loro «opere». Ma neppure, conclude Quinzio, per le aperture dialoganti di oggi. I tentativi di «puntellare» ancora una volta la declinante cristianità, compiuti con parecchia ingenuità dai santi sociali dell’800, fallirono e oggi ci paiono eroici ma anche un po’ patetici. Ma i nostri tentativi di oggi e di domani? Quinzio non risponde se non con il segno chenotico, ma tutt’altro che negativo, della croce, che «non è il nulla» (pag. 88).

"il manifesto", ritaglio senza data, ma 1986

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