Quella che segue è la recensione di una mostra da un vecchio numero de “La rivista dei Libri”, utile a rammentare a me stesso la vicenda artistica di Yves Klein, un devoto di Santa Rita. Il Mondo cane è un famigerato documentario di Gualtiero Jacopetti, in cui – tra tante umane e disumane aberrazioni - è presentata una performance dell’artista. Il primo dei tre successivi infarti che condussero Klein a morte avvenne subito dopo la presentazione del film al festival di Cannes nel 1961. Jacopetti, che è morto mezzo secolo dopo, nel 2011, ha sempre sostenuto che la scena con Klein era concordata con lui e che l’artista era una sorta di ciarlatano. Non si sa quanto sia attendibile la sua testimonianza: il documentarista, un ex partigiano che si era buttato a destra, fu colto con le mani nella marmellata in un suo successivo documentario, Africa addio, una razzistica apologia del colonialismo morente, ove più di una scena, di quelle tese a dimostrare la crudele inaffidabilità dei “negri”, risultò montata ad arte. Quanto al giudizio su Klein, autore certamente problematico che io tendo a considerare geniale e profondo (seppure non privo di una certa dose di ciarlataneria), ognuno pensi quel che vuole, ma senza dimenticare la “merda d’artista” di Manzoni, i tagli e le muffe di Fontana, le scatolette di Wharol, i tanti esperimenti di Schifano, insomma le tante e diverse radicali rotture che caratterizzano l’arte del Novecento, primo e secondo. Credo che una buona chiave di lettura sia quella mescolanza tra arte e vita di cui Patricia Corbett ragiona all’inizio del suo articolo. (S.L.L.)
Per rivedere (con voce in inglese) la sequenza da “Mondo Cane” vedi
Per la versione di Jacopetti vedi
C’è chi sostiene che conoscere la vita di un artista non serve, o peggio, serve soltanto a creare equivoci tra lo spettatore e l'opera, che basta a se stessa, non abbisognando di dotte chiose, né
tanto meno di interpretazioni parapsicologiche. Ma quando la vita fa parte dell'opera, quando - come insisteva Yves Klein - l'arte assoluta è la vita stessa, allora è doveroso raccogliere tutti gli indizi che l'autore sparge lungo il suo camino. E la tattica desueta ma vincente adottata dai curatori della retrospettiva di Yves Klein attualmente in corso a Nizza, che a settembre verrà presentata al Museo Luigi Pecci di Prato. Il loro impegno ha cancellato definitivamente il ritratto riduttivo e sfottente dell'artista proposto nel film Mondo cane, che lo ferì profondamente e senza dubbio ne affrettò la morte prematura nel 1962.
Ma ancor oggi la vita breve che Klein si inventò nel giro di soli trentasette anni conserva il suo irripetibile alone ludico. Diplomato cintura nera - "4° dan di kodokan", come viene precisato sui biglietti da visita -, Klein pubblica trattati sulle arti marziali, che peraltro insegna agli studenti del Centro Americano di Parigi; chissà come avranno reagito i tosti ragazzi del Wyoming e del Nebraska sbattuti per terra da questo esuberante, enigmatico folletto? Egli ama il judo perché gli regala le prime intuizioni relative all'esistenza di uno "spazio spirituale", quella dimensione atmosferica che presto immortalerà in una serie di quadri ispirati alle grandi metropoli: un rettangolo rosa rappresenta Tokyo, mentre Londra è tutt'azzurra, Nizza arancione e Madrid verdolina. I soggetti sono comunque assai più austeri dei monocromi proposti, mezzo secolo prima, da Alphonse Allais - tra i quali la Raccolta dei pomodori da parte di cardinali apoplettici in riva al Mar Rosso.
Diciottenne. Klein aveva apposto la sua firma virtuale sulla volta celeste, additandola allora come «la più bella e la più grande delle [sue] opere». Rivendicherà sempre la superiorità del blu giottesco, anzi del Blu, che racchiude in sé «la scala di tutti i tesori affettivi del colore... il blu domina, comanda, vive». Questo particolare "Blu signore" viene denominato dall'artista IKB (International Klein Blue). Klein ama il pigmento puro tanto da non volerlo adulterare, impastandolo con l'olio: preferisce invece spargere un velo di colore per terra affinché si fissi al suolo grazie alla forza dell'attrazione. Allo scopo di eliminare ogni impronta personale, realistica e quindi effimera, sostituisce il pennello con il rotolo da imbianchino, abbandonato a sua volta a favore dell'ancor più tornito e gradevole corpo femminile. A poco a poco, forse inconsapevolmente, Klein si trova coinvolto - e non sempre con esiti felicissimi - nell'antico combattimento della linea e del colore, al quale nel 1954 aveva dedicato uno scenario, in precario bilico tra Pater e De Pero. Devotissimo a Santa Rita, nel 1961 Klein offre alla patrona delle cause disperate un prezioso ex voto originale, il quale venne casualmente alla luce quasi vent'anni dopo la morte dell'artista. Si tratta di una scatola di plastica con tre cassetti contenenti pigmenti blu, rosa e oro; in uno scomparto separato, sono sistemati diversi lingotti d'oro in un mare di blu IKB. Klein aveva chiesto, con la sua consueta incoerente sincerità, di «abitare le sue opere» e di «scoprire continuamente e regolarmente nell'arte cose sempre nuove, ogni volta più belle». Percorrendo la mostra, abbiamo la conferma che Qualcuno gli ha fatto la grazia, seppure a caro prezzo.
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