Si chiama editing
genomico. È la tecnologia del futuro, ma è già presente. Permette
di manipolare il Dna con una precisione e una potenza sconosciute. I
vantaggi potrebbero essere grandissimi, come curare malattie ad oggi
incurabili. Il rischio è l’uso improprio della tecnica. La scorsa
primavera un gruppo cinese l’ha usata su cellule di embrioni umani.
E a fine settembre un altro gruppo, sempre cinese, ha creato dei
mini-maiali da compagnia.
Nei primi giorni
del mese Washington ha ospitato il primo summit internazionale sul
genome editing. Si attendeva una moratoria, ma non è arrivata.
È la parte più intima
di noi, che racconta chi siamo alla nostra nascita, quello che
potremmo diventare in futuro e di cosa probabilmente – e in alcuni
casi certamente – ci ammaleremo. Il Dna, il nostro genoma, mutabile
per sua natura dal caso, oggi può essere riscritto dall’uomo con
estrema facilità.
Le tecniche di intervento
sul genoma esistono ormai da diversi decenni, da quando negli anni
Settanta la biologia molecolare e l’ingegneria genetica hanno dato
i primi risultati su cellule semplici come quelle batteriche. Ma è
nell’ultimo decennio che la comparsa di tecniche di modifica dei
geni più efficienti e di più facile gestione, nei tempi e nei
costi, ha fatto diventare il genome (o
gene) editing,
anche su cellule animali più complesse come quelle umane, un
orizzonte più vicino. Soprattutto da quando nel 2013 è arrivata la
potente e versatile tecnica chiamata Crispr/Cas9, appena consacrata
dalla rivista “Science” come l’innovazione «breakthrough of
the year». La svolta dell’anno.
Il termine editing
descrive bene quello che questa tecnologia rende possibile:
modificare e correggere le parole all’interno del libretto di
istruzioni di ogni organismo vivente, il genoma, tramite un
meccanismo di taglia e incolla, proprio come in un documento di
scrittura digitale. La potenza della tecnologia risiede nella sua
incredibile versatilità: qualunque tipo di cellula, vegetale,
animale, compresa quella umana, può essere oggetto di correzione e
la modifica potenzialmente può avvenire ovunque, per ottenere
diversi risultati.
L’editing genetico può
innanzitutto correggere geni “difettosi”, capaci di provocare
malattie direttamente correlate a una mutazione puntuale, detta
puntiforme, o aumentare la probabilità di promuovere la crescita
tumorale in alcuni tessuti e organi. Si potrà per esempio
intervenire sulla mutazione dei geni che predispongono al cancro alla
mammella e all’ovaio anche nelle cellule uovo, in modo che né la
singola donna né le sue discendenti possano avere quella mutazione.
Aprendo così la strada a strumenti e terapie attualmente non
disponibili per curare malattie diffuse e rare.
Ma il genome editing
potrebbe anche essere usato per creare piante e animali portatori di
vantaggi per l’uomo. Per esempio piante più resistenti ai
cambiamenti climatici o animali che producono organi ad altissima
compatibilità umana e utilizzabili per gli xenotrapianti, così da
mitigare il problema della scarsa reperibilità di organi.
Le alterazioni genetiche
indotte con tale tecnica potrebbero però avere un impatto a lungo
termine anche sulle generazioni future, se compiute sulle cosiddette
cellule umane germinali e riproduttive, cioè le cellule uovo e
spermatozoi, che trasmettono alla discendenza l’informazione
genetica che contengono. Gli esiti non sono a oggi prevedibili.
Tecnicamente la scienza non è ancora pronta per impiantare in utero
un embrione modificato, ma i cambiamenti si avvicinano velocemente. E
prefigurano per un futuro non lontano una serie di dilemmi etici,
legali e sociali: di qui la richiesta, da parte della comunità
scientifica che lavora in questo ambito, di un momento di riflessione
e discussione, «prima che sia troppo tardi».
* * *
Il primo segnale che i
tempi fossero maturi per una discussione globale sul tema era
arrivato ad aprile di quest’anno, con la pubblicazione di uno
studio sull’uso del gene editing in cellule embrionali umane
a opera di un gruppo di ricerca guidato da Junjiu Huang della Sun
Yatsen University di Guangzhou, Cina. L’obiettivo della ricerca non
era impiantare gli embrioni modificati nel genoma per ottenerne una
gravidanza. Ma la sola concreta possibilità di riuscire tecnicamente
a manipolare cellule umane riproduttive ha rinvigorito la discussione
su una tecnologia che nel suo sviluppo procede bruciando le tappe.
Come detto, il tema è
stato al centro del primo summit internazionale sull’editing
genomico applicato all’uomo, che si è svolto tra l’1 e il 3
dicembre a Washington, su iniziativa delle Accademie di Scienza e
Medicina statunitensi e cinesi e della britannica Royal Society.
Scienziati del settore insieme a bioeticisti provenienti da tutto il
mondo si sono riuniti per discutere se e come proseguire la ricerca,
visti gli importanti dilemmi etici che si porta dietro. Al contrario
di quanto precedenti consessi di scienziati sembravano far presagire,
il convegno non si è chiuso con una moratoria, cioè una pausa
temporanea parziale o totale nella ricerca in questo ambito; ma solo
con un invito alla cautela nell’uso della tecnica su embrioni da
impianto per ottenere un essere umano. Una sperimentazione che gli
scienziati a Washington hanno definito «irresponsabile» se usata
senza aver prima raccolto informazioni, tramite ricerca di base, ed
esperienza sulla sicurezza della metodica nell’uomo.
«Questo è solo l’inizio
di un processo. Penso che segni un precedente nella gestione delle
situazioni difficili di cui dobbiamo andare fieri». Queste le parole
con cui ha chiuso il summit David Baltimore, virologo del California
Institute of Technology e premio Nobel per la medicina del 1975.
In molti però si chiedono se davvero il congresso sia stato efficace
nella gestione di un problema così complesso.
«Pochissime persone
hanno preso la parola e la maggior parte di loro hanno discusso della
questione in termini davvero limitati. Nonostante lo sforzo lodevole
degli organizzatori di essere inclusivi, c’è ancora molta strada
da fare, perché in questo contesto non solo sono difficili le
risposte da dare, ma anche le domande da porsi», dice a pagina99 Ben
Hurlbut, storico della scienza e assistant professor presso la Scuola
di scienze della vita dell’Arizona State University. «È troppo
semplicistico guardare al genome editing solo come un problema
di rischi e benefici immediati in termini medici, invece che
inquadrare la questione in termini più ampi di diritti umani o su
come andrebbe a cambiare il rapporto tra generazioni», aggiunge
Hurlbut, presente al summit anche perché da tempo interessato alle
controversie scientifiche che riguardano materie al confine tra
bioetica e politica.
Nel frattempo, in
concomitanza con la riunione sul gene editing e proprio per
cercare di avere un impatto sulle sue conclusioni, il Consiglio
d’Europa, tramite il suo Comitato di Bioetica (DH-Bio), aveva
ricordato il divieto di intervenire su cellule riproduttive ed
embrionali, in accordo con la Convenzione di Oviedo, unico sistema
regolatorio internazionale sui diritti umani in ambito biomedico
legalmente vincolante e già in vigore. Ma nazioni come la Cina, che
stanno investendo moltissimo su questa tecnologia, potrebbero presto
arrivare a un simile traguardo, per di più nel rispetto delle
conclusioni di Washington, che dà indicazioni globali, ma lascia la
giurisdizione della regolamentazione dei vari campi applicativi a
norme ed etiche nazionali. In pratica, se la legge nazionale lo
permette, diventa possibile anche agire su questo tipo di cellule.
Dove è vietato, come nel
caso dell’Italia, il ricercatore deve fermarsi. «La discussione
sull’uso di questa tecnologia sugli embrioni è largamente fittizia
perché in questo ambito ci sono già da tempo norme nazionali che
regolamentano la sperimentazione sugli embrioni», dichiara a
pagina99 Giuseppe Testa, professore di biologia molecolare presso
l’Università di Milano e direttore del Laboratorio di epigenetica
delle cellule staminali dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo).
Testa fa anche parte dell’Hinxton Group, un consorzio
internazionale su cellule staminali, etica e diritto che già a
settembre si è espresso con una dichiarazione sul genome editing:
«Abbiamo indicato una roadmap, una serie di tappe e
indicazioni, sia sul versante scientifico che su quello sociale per
guidare e accompagnare il processo decisionale», spiega. Processo
che dovrebbe essere il più inclusivo possibile.
* * *
La voce dei pazienti e
dei cittadini in generale è un concetto spesso evocato, ma in
concreto poco considerato nelle decisioni scientifiche. L’effetto
dell’esclusione di grandi parti della società da un dibattito il
cui impatto riguarda tutti pone un vero e proprio problema di
democrazia, come ha sottolineato Hurlbut in un articolo scritto con
altri esperti di scienza e società e apparso sul Guardian in aprile,
subito dopo la pubblicazione del lavoro dei ricercatori cinesi su
cellule embrionali. Secondo gli autori «anche in società
tecnologicamente avanzate, si tende a deferire al giudizio dei soli
esperti quali siano i rischi di cui è ragionevole preoccuparsi e
quali no. E questo è un deficit di democrazia». Il testo elaborato
dall’Hixton Group concorda con questa visione, come sottolinea
Testa: «Sul dove, quando e come il gene editing possa diventare uno
strumento utile, la scienza non è la sola a dover dare risposte. È
un compito politico, nel senso più alto del termine, in cui le
società sono chiamate a decidere e deliberare collettivamente sui
potenziali usi della tecnica, perché nel contesto multiculturale in
cui viviamo e in cui istanze valoriali diverse coesistono e a volte
competono, è necessario un dibattito aperto e inclusivo».
È impensabile che un
dibattito del genere possa dirimersi una volta e per sempre con una
risoluzione statica. «Le domande che l’editing genomico pone,
quelle che bisogna avere il coraggio di porsi, come l’accettabilità
etica da parte delle società dell’intervento su embrioni e cellule
germinali, non possono essere risolte una volta per tutte, ma devono
essere reiterate ed evolversi man mano che le sensibilità maturano,
attraverso strumenti di consultazione pubblica strutturata, che a
loro volta devono tenere il passo dei cambiamenti della tecnologia e
della società», conclude Hurlbut.
La conferenza
internazionale sul gene editing, nonostante l’orgoglio di
Baltimore, sembra quindi aver fallito «nella gestione di situazioni
difficili». O almeno non ha saputo inquadrare in tutta l’ampiezza
della loro complessità il problema e la posta in gioco. Ma forse può
avere aiutato a rendere più visibile una controversia non solo
scientifica e che va alle radici di come le società vogliano
governare e riscrivere il loro futuro.
Pagina 99, 19 dicembre
2015