Dodici donne africane
arrivano in scena. Scappano per sfuggire alla violenza sessuale dei
loro cugini maschi. Chiedono asilo. Così Eschilo, nel quinto secolo
avanti Cristo, inizia le sue Supplici. Il «nero fiore,
bronzea gente impressa dal sole» trova salvezza in una città in cui
«il decreto del popolo, deciso con un voto unanime di tutta la
città» stabilisce «di non consegnare mai queste donne alla
violenza». La tragedia si chiude con una richiesta: Zeus «dia
supremazia alle donne».
Un Eschilo femminista e
protettore dei rifugiati politici? Anche questa va aggiunta alle
tante immagini del poeta. L’introduzione del recente «Meridiano»
Mondadori, a cura di Monica Centanni (Le tragedie, pp. 1254, €
49,00), esplora alcune di esse: Eschilo guerriero, Eschilo cittadino,
Eschilo (modernamente) inventore di una rappresentazione di Atene.
Altri Eschili lo hanno preceduto: Eschilo pio conservatore,
ammiratore sbigottito della «violenza degli dèi»; democratico e
rivoluzionario; severo e solenne; ammiratore dei tribunali, e del
terrore religioso che tiene insieme la polis. Eschilo però ha anche
scritto i versi in cui Achille ricorda le affascinanti gambe del suo
amante Patroclo; quelli in cui Apollo, seguace dell’avanguardia
scientifica e filosofica del V secolo, dimostra che la madre non ha
rapporto di sangue con il feto. Eschilo non sembra preoccuparsi di
moltiplicare sconcertanti contraddizioni.
Le esuli dell’Africa
vengono accolte, sì, ma dopo aver dimostrato di essere in realtà
discendenti di Zeus, e di una donna greca; una politica di
accoglienza che si basa sulla giustizia e gli ordini divini, ma che
non disdegna il sostegno di un supporto razziale, politicamente
meglio spendibile. Nel seguito della trilogia, di cui noi abbiamo
solo riassunti, le donne sposavano i loro cugini, contro voglia. Li
uccidevano tutti. Solo una salvava il marito, per amore.
È facile immaginare come
queste trilogie continuassero. Così facile che si sono immaginate
troppe soluzioni differenti, scavando tra le pieghe del mito, o
ricombinando le simpatie della tragedia iniziale. Chi soffre diventa
ingiusto, chi è colpevole diventa vittima. A volte. Così per
Prometeo: come si concludeva la trilogia? Il tirannico Zeus scendeva
a patti con il Titano ribelle? O la superbia del ribelle si piegava
alla crudele giustiza divina? La contraddizione rimane, come spiega
Oreste nelle Coefore: «Ares combatterà con Ares, Giustizia contro
Giustizia». Oreste vince, e viene assolto grazie ad Apollo e Atena;
ma gli dei vincitori si alleano con le Furie sconfitte, per mantenere
l’ordine sociale ad Atene.
La perdita di tante
tragedie ha reso questi testi così ricchi di contrasti ancora più
aperti. Ha anche reso Eschilo più solo e più arcaico di quanto lo
sia: comparendo come primo campione del genere tragico, sembra che le
sue durezze e le complessità del suo stile siano qualcosa di non
risolto, di ereditato da un passato che non conosciamo. Eschilo ci
guarda severo dalla custodia di questo «Meridiano»: un vecchio
senza capelli, con una lunga barba in spesse ciocche, e con la fronte
accigliata. Disapprova noi, che pensiamo di capire.
Monica Centanni ha
tradotto Eschilo: le sette tragedie integre, e i frammenti relativi
alle tetralogie di quelle sette tragedie. Lo ha commentato. Chi cerca
una rapida spiegazione di un’allusione mitica, o un riferimento a
cosa gli studiosi precedenti hanno pensato di Eschilo, rimarrà
deluso. Chi è interessato a seguire il filo delle metafore, dei temi
e delle idee, troverà molto. Ad esempio il Prometeo è tradotto in
una quarantina di pagine, e commentato in circa sessanta. Non si
tratta di un commento continuo: piuttosto una serie di letture,
intitolate con una incisività giornalistica: «fantasmi dal mare»;
«teatro come città»; «il ricatto a Zeus»; «il bestiario
simbolico»; «preservare il tremendo». Le sezioni si concentrano su
una parte di una scena, su un problema, un motivo, e comprendono al
loro interno spiegazioni, glosse, note di regia. Non ci sono
discussioni dei molti studi critici sul poeta; chi è specialista può
intuire dalla bibliografia le fonti, le simpatie e le antipatie della
curatrice.
Chiunque traduca Eschilo
si chiede, come Cassandra nell’Agamennone, «Sbaglio? oppure
come un bravo arciere ho colto nel segno?». E infatti il testo di
Eschilo è impenetrabile come la mente di Zeus: «la sua intenzione
non si lascia mai catturare», e l'interprete prova sgomento di
fronte ai «sentieri della sua volontà, indecifrabili, inespressi».
La Centanni esprime e decifra. Tutto diventa chiaro; molto chiaro. A
volte troppo. «Se a terra un uomo morendo il nero sangue della morte
ha versato, chi mai potrà richiamarlo in vita con un incantesimo?».
Così si domanda il coro dell'Agamennone. Ma il coro parla di
richiamare il sangue: un’immagine inquietante, quella del sangue
che si alza da terra. Sciogliendo la densità dell’immagine
eschilea, qualcosa va perduto. Ma qualcosa va perduto in ogni
traduzione, e bisogna applaudire questa per la coerenza delle scelte.
La Centanni discute le
figure retoriche di Eschilo in un’utile appendice. Ne aggiunge
spesso una nella sua traduzione: l’aposiopesi. Il sublime spesso lo
rende così. Il sublime kantiano, la furia degli elementi alla fine
del Prometea «...ecco la terra trema, l’eco cupa del tuono ... è
già un boato ... spirali, lampi abbaglianti di fuoco... un turbine
solleva volute di polvere». E il sublime dell’orrido e del
soprannaturale, la profezia di Cassandra: «questa casa... c’è un
coro che non cessa mai: un concerto di voci, e non sono propizie. C’è
già stato il simposio: loro... hanno bevuto e sono diventate ancora
più prepotenti... un simposio di sangue umano...». Le figure di
reticenza suggeriscono l’impossibilità di rendere il livello
stilistico del testo antico con la nostra lingua.
La Centanni traduce il
testo critico pubblicato da Martin West per la Teubner. Una splendida
edizione del 1990. Splendida nei suoi successi e nelle sue cadute.
Alla fine delle Supplici gli altri editori leggevano nonsense:
«i frutti stillanti annuncia Afrodite kalora (?) impedendo
thos (?) rimanere in eros». West, con un piccolo
rimescolamento di lettere greche, ci dà: Afrodite «mette
all’incanto frutti stillanti e acerbi, ammorbidendoli con il suo
calore, fino a farli impazzire di eros» (la Centanni dimentica
«impazzire di eros», purtroppo). Non so se questo è ciò che ha
scritto Eschilo, ma è un’immagine degna di lui. Però
nell’Agamennone ahimè leggiamo che il protagonista «non sa
che la cagna odiosa con la sua lingua lo lecca e si avvicina festosa
al suo orecchio, e poi ... ecco lo morde». La Centanni, qui,
sforzandosi di rendere accettabile l’impossibile testo di West,
ammorbidisce le incongruenze e piega un po’ troppo la sintassi. Ma
il testo di West, tradotto, non funziona: «non sa quali morsi sa
dare la lingua (!) della cagna odiosa, dopo aver leccato, e dopo aver
piegato il suo orecchio festoso». Un collage di membra animali da
bestiario medievale.
La Centanni ritiene il
testo di West «il miglior testo di Eschilo disponibile,
semplicemente perché è l’ultimo in ordine di tempo»: giudizio
forse vero, ma non per questo motivo. Altre ragioni per preferire
quest'edizione, più valide e accorte, le elenca la Centanni
nell’introduzione; a volte nelle note accenna a qualche sua
perplessità di fronte ad alcune scelte. Più decisione, e maggiore
indipendenza avrebbero eliminato alcuni passi problematici. West
mette tra parentesi graffe le parole dei manoscritti che considera
non di Eschilo, perché guastano il senso, o la sintassi o la
metrica. Questo è un procedimento normale nelle edizioni critiche;
ma la Centanni traduce anche queste parole, con un effetto
leggermente surreale: «chi sta nella penombra (angoscia) attende di
avere fortuna». Chi apre il volume una prima volta avrebbe bisogno,
per questi dettagli, di un aiuto in più.
Ci vuole coraggio per
tradurre e commentare tutto Eschilo. E questa edizione riesce meglio
quanto più è indipendente, quanto più segue una sua linea: una
informazione chiara sulle opere e sulla vita; utili, rapide
introduzioni; un commento ai contenuti, e non all’erudizione; una
traduzione moderna e scorrevole.
“Alias il manifesto”,
27 settembre 2003