Politica,storia,letteratura e varia umanità. Pezzi vecchi e nuovi d'ogni provenienza. Ogni lunedì una poesia. Borghesi e reazionari, pretonzoli e codini, reggicode e reggisacchi, ruffiani e pecoroni, tremate!
31.5.10
La poesia del Lunedi. Eugenio Montale
d'Inferno. E tu, atterrita: "Devo berlo? Non basta
esserci stati dentro a fuoco lento?".
Da Satura, Xenia, II, 6
30.5.10
Enti inutili: il Museo della liberazione. Un articolo di Sandro Portelli.
Hanno ragione Berlusconi e Tremonti: il Museo della Liberazione di via Tasso a Roma è un ente inutile, anzi dannoso.
Dannoso, in primo luogo, per motivi sanitari e di immagine. Che figura ci facciamo, nel terzo millennio, a mettere un museo dentro un ex carcere (nazista), poco salubre perché le finestre sono ancora murate come le avevano lasciate Kappler e Priebke, e indecoroso perché non si è ancora provveduto a ripulire i muri dei graffiti lasciati dagli ospiti involontari che ci hanno trascorso mesi e giorni (spesso gli ultimi) della loro vita? Roba da terzo mondo, diranno all’estero.
E inutile. Il Museo della Liberazione non si vede mai in televisione, non dà appalti, non organizza Grandi Eventi, non offre ben retribuiti posti in consigli di amministrazione, non è lottizzato ai partiti politici e non distribuisce appetibili consulenze. Che esempio diamo ai giovani? Pensate che costa solo cinquantamila euro e ci lavorano tutti gratis meno il custode. Quasi immorale, si direbbe.
E ancora, dannoso perché coltiva argomenti sgradevoli di un passato sul quale sarà bene mettere una pietra sopra in nome del futuro, della riconciliazione e dell’ottimismo obbligatorio. L’ultima volta che ci sono stato, accompagnando studenti e docenti di un’università americana che non avevano la minima cognizione di che storia contemporanea avesse la città in cui si trovavano, ho visto che si sono fatti un’immagine di Roma poco turistica e poco consumistica– come anche la classe di liceali con cui ci incrociammo quella mattina. E questo non possiamo permetterlo. Certo, gli studenti americani e italiani di quel giorno (e le migliaia che ci passano nel corso dell’anno) sono anche venuti a sapere che in Italia c’erano persone di ogni idea politica e di ogni classe sociale che hanno pagato col carcere, con le torture e in tanti anche con la vita la loro volontà di essere liberi e di dire di no al potere. Un brutto esempio anche questo, per le giovani generazioni.
Non ne parliamo più, insomma. Nell’immediato dopoguerra, le vedove degli uomini uccisi alle Ardeatine giravano per Roma in gramaglie, in cerca di un modo per sopravvivere insieme con le loro famiglie. In tante hanno raccontato che la città ne aveva pena, ma non se le voleva vedere intorno. Davano fastidio – e danno fastidio ancora adesso perché, come via Tasso, ricordano il dolore e la sofferenza a un paese che ha il dovere di non vederli. A metà anni ’50, per non turbare le relazioni con la Germania nostra alleata nella guerra fredda, tutte le carte dei processi contro i criminali nazisti furono chiuse in un armadio che venne nascosto in uno scantinato; oggi si compie l’opera: con lo scopo dichiarato di “mettere fine alle tensioni nei rapporti internazionali”, il governo azzera per decreto tutte le rivendicazioni che familiari delle vittime delle stragi e perseguitati dal nazismo hanno avanzato nei confronti del governo tedesco. Come se le tensioni con Angela Merkel e il suo governo riguardassero i quattro soldi di persone che hanno sofferto ferite terribili, e non poste in gioco assai più alte e problematiche. Davvero, l’ordine è stato eseguito, la pace è ristabilita, e regna il silenzio.
Sono tante le cose di cui non si parla più in questo paese. Le isole di autonomia nella televisione pubblica, gli enti (anch’essi “inutili”) che svolgono riflessioni e proposte non subalterne in campo economico, e soprattutto la scuola – che, dicono, meno ci stanno i ragazzi e meglio è, perciò via il tempo pieno e ricominciamo un mese più tardi così chi se lo può permettere alimenta il turismo che è tanto più importante, e tutti gli altri sono sottratti all’influenza nefasta di un’istituzione dove qualcuno ancora crede all’indipendenza di pensiero. Giustamente, si è parlato di un attacco alla memoria; ma quello a cui assistiamo è un attacco generalizzato all’intelligenza, alla conoscenza, al pensiero.
Non ci sono poche decine di migliaia di euro per il Museo della Liberazione. Nel frattempo Roma si candida per le Olimpiadi del 2020. Se l’amministrazione cittadina avesse un minimo di spina dorsale non si limiterebbe alle parole, ma dovrebbe dire: i soldi ce li mettiamo noi. Perché senza il museo di via Tasso Roma non sarebbe la stessa. Ma forse è questo che vogliono.
Come nacque Forza Italia
Anche in seguito alle pubbliche considerazioni del Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso e ai ricordi di Carlo Azeglio Ciampi il collegamento tra le stragi di mafia del 1993 e la nascita di Forza Italia è tornato di stretta attualità. Forse non è inutile ricordare una testimonianza più vicina nel tempo, del 1998. E’ fornita dal leader della Lega lombarda Umberto Bossi, che dal suo insediamento padano osservava da vicino la penetrazione economica, ma non solo, della criminalità organizzata nella cosiddetta “capitale morale” d’Italia e nei suoi dintorni lombardi. La denuncia è resa più solenne dal fatta che viene esposta in una sede ufficiale, quella del congresso della Lega. Ho postato qui l’articolo di Matteo Mauri su “La Padania” del 27 ottobre che ne è un obiettivo, anche se un po’ entusiastico resoconto (S.L.L.).
Bossi rincara la dose dal Congresso federale della Lega:
il capo di Forza Italia parla meneghino ma nel cuore è palermitano.
La Fininvest è nata da Cosa Nostra
Lo tengono in piedi perché rappresenta i loro interessi al Nord,
è il loro "figlio di buona donna"
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di Matteo Mauri
Brescia
La guerra è aperta da tempo. Ma ora entra in campo l'artiglieria pesante. E se alle accuse di mafia che da tempo Bossi lancia contro Berlusconi, il Cavaliere risponde col silenzio, adesso il Senatur ha deciso di alzare il tiro. «Tanto per essere chiari, per far capire alla gente», replica ad un congressista che aveva criticato la «politica dell'insulto» del segretario leghista. L'attacco di Umberto Bossi a Silvio Berlusconi, è durissimo. Il segretario della Lega Nord nel corso del suo intervento al Congresso straordinario del Carroccio, ha più volte dato del "mafioso" a Berlusconi. Da tempo il leader leghista, durante gli innumerevoli comizi, aveva indicato nel Cavaliere «l'uomo di Cosa Nostra». Al congresso, la tesi è diventata ufficiale. «L'uomo di Cosa Nostra» viene citato decine e decine di volte. E con lui tutte le aziende che fanno capo al leader di Forza Italia. L'anomalia italiana è lì: se ne devono convincere in primo luogo tutti i delegati, poi l'opinione pubblica. «La Fininvest - ha affermato Bossi - ha qualcosa come trentotto holding, di cui sedici occulte. Furono fatte nascere da una banca di Palermo a Milano, la banca Rasini, la banca di Cosa Nostra a Milano. E a Palermo hanno preso un meneghino per rappresentare i loro interessi. La verità è che, se cade Berlusconi, cade tutto il Polo, e al Nord si prende tutto la Lega. Ma non lo faranno cadere: perché sarà pure un figlio di buona donna, ma è il loro figlio di buona donna, e per questo lo tengono in piedi».
Se l'ex-Capo dello Stato Francesco Cossiga negli ultimi due giorni è andato giù durissimo nei confronti del Cavaliere, Bossi non è certo stato da meno. Anzi, ha alzato il tiro, entrando anche nei dettagli, quando ha parlato della Banca Rasini, delle holding occultate, della nascita della prima tv berlusconiana, del partito degli azzurri. «Un palermitano - ha affermato Bossi - è a capo di Forza Italia. Perché Forza Italia è stata creata da Marcello Dell'Utri. Guardate che gli interessi reali spesso non appaiono. In televisione compaiono volti gentili che te la raccontano su, che sembrano per bene. Ma guardate che la mafia non ha limiti. La mafia, gli interessi della mafia, sono la droga, e la droga ha ucciso migliaia e migliaia di giovani, soprattutto al Nord».
Eppoi ancora, come in un crescendo: «Palermo ha in mano le televisioni, in grado di entrare nelle case dei bravi e imbecilli cittadini del Nord»; «Silvio è uomo della P2, cioè del progetto Italia»; «La Banca Rasini è la banca di Cosa Nostra a Milano»; «Berlusconi ha fatto ciò che ha voluto con le televisioni, anche regionali, in barba perfino alla legge Mammì»; «Berlusconi parla meneghino ma nel cuore è un palermitano».«L'uomo di Cosa Nostra»: Bossi, nelle tre ore d'intervento, ha indicato spesso il disegno dietro il palco in cui era raffigurato alle spalle di Berlusconi, un sicario siculo con lupara e coppola.
Dopo aver ricordato i molti «giovani del Nord morti per droga», Bossi ha aggiunto: «Molte ricchezze sono vergognose, perché vengono da decine di migliaia di morti. Non è vero che "pecunia non olet". C'è denaro buono che ha odore di sudore, e c'è denaro che ha odore di mafia. Ma se non ci fosse quel potere, il Polo si squaglierebbe in poche ore. Ecco il punto».Fermate Centaro! Intercettazioni e dibattimenti. L’articolo della domenica.
Sulla Rivoluzione. Lettura critica di Hannah Arendt (1990)
In America è il solo Jefferson ad intuirne il valore, a considerarli il solo strumento di mantenimento dello spirito rivoluzionario anche dopo la fine della rivoluzione. La sua è, però, un’opinione isolata e, già con l’approvazione della Costituzione, si avvia un processo di svuotamento della democrazia e della libertà. Non c’è, per la Arendt, autentica libertà politica, se non nella possibilità, per tutti, di partecipare direttamente al governo dello Stato. Una Costituzione che non riesca ad integrare il sistema dei Consigli nelle istituzioni repubblicane pone perciò inevitabilmente le premesse per l’affermarsi di un diverso sistema, quello rappresentativo, nel quale la “Politica” è sequestrata da professionisti e da burocrati. Infatti, senza l’istituzionalizzazione dei Consigli, il suffragio ampio o, addirittura, universale fa emergere il sistema dei partiti, la cui funzione è quella di raccogliere il “consenso”.
29.5.10
Vidal, Kennedy e i padri fondatori.
Il fatto. Il farmacista nella farmacia.("micropolis" febbraio 2006)
Decadenza (di Bruno Bongiovanni)
Era il 146 a.C. Cartagine stava per essere distrutta. Scipione Emiliano, che aveva nello storico greco un maestro fidato, prese allora la destra di Polibio e disse: “E’ un grande momento, ma, non so come, ho la terribile impressione che un giorno qualcun altro darà questo stesso ordine riguardo alla mia patria” (Polibio, Storie, XXXIX 5, 3). Appiano, riassumendo due secoli dopo lo stesso Polibio, raccontò poi che Scipione era scoppiato in lacrime davanti alla distruzione di Cartagine e aveva ricordato che la stessa sorte aveva colpito Ilio e gli imperi di Assiria, Media e Persia. Per Polibio non si poteva sfuggire all’“anaciclosi”, vale a dire all’evoluzione che comportava il degenerare di tutti gli ordinamenti. Si aveva infatti a che fare con un fenomeno cosmico, con una visione ciclica della storia e con la successione necessaria, per tutti gli organismi, di nascita, crescita, decadenza e morte. Le lacrime anticipatrici di Scipione non sembrarono del resto essere state versate invano. Il declino del futuro dell’impero romano divenne infatti, a partire già dal secondo secolo dopo Cristo, un problema ritenuto sempre di immenso rilievo sotto il profilo storiografico, filosofico, etnosociale, economico-strutturale e teologico. E’ anzi forse stato, fino a quando si è presentata la Rivoluzione francese, che gli ha fatto una bella concorrenza, il problema storiografico per eccellenza. Si erano infatti manifestati un semplice declino politico ed economico o lafine di una civiltà, addirittura di un tempo storico? O anche il declino di un certo tipo d’uomo, di un modo di produzione, di un’omogeneità razziale? O il segno della presenza, o dell’assenza, di Dio nella storia? Su tutti questi interrogativi, e sul loro riprodursi nei secoli, resta ancora utilissimo l’agile e straordinario libretto di Santo Mazzarino, La fine del mondo antico (Garzanti, 1959).
Pur affondando le proprie radici nella concezione degli antichi e nella catastrofe di Roma (ragione di angoscia retrospettiva per gli stessi cristiani, che pure furono i protagonisti della civiltà nata sulla cenere dell’impero), il termine “decadenza” comparve solo nel latino medievale. E nel 1413 in francese. Significò il passeggio da uno stato ad un altro inferiore. La concezione lineare della storia dei cristiani non riuscì tuttavia, neppure quando si secolarizzò nell’idea di progresso con gli illuministi e i positivisti, a eliminare del tutto la morfologia clinica della decadenza. Il concetto fu presente a Machiavelli. Ma, soprattutto i Montesquieu (si vedano le Considérations sur les causes de la grandeur des romains et de leur décadence, 1734), in Voltaire (l’Essai sur les moeurs, 1756) e in Gibbon (che preferì nel 1776 il termine decline). Per Montesquieu e Gibbon la cause della decadenza di Roma furono endogene (le eccessive ingovernabili dimensioni).Per Voltaire esogene (il cristianesimo e i barbari). Il concetto riemerse poi con Burckardt, con Nietzsche, con il temuto prevalere della civilizzazione sulla civiltà, con Spengler e il tramonto inevitabile della terra della sera (l’Occidente). Antidoti, di per sé non duraturi, contro la decadenza – estetizzata con il decadentismo – vennero proposti da Bergson, Freud, Simmell, Mann, Schmitt, Evola. La letteratura del Kulturpessimismus parve però venir meno nel 1945.
Ora davanti al risveglio aggressivo dell’islam (e alla globalizzazione che lo diffonde), si riaffaccia lo spettro della decadenza. E si suggerisce, per contrastarlo, il culto pagano di Marte rafforzato da un de spiritualizzato cristianesimo combattente. La fine della storia di Fukuyama si ribalta dodici anni dopo nel timore di una decadenza dell’impero americano (anch’esso troppo ampio?) e, per l’ennesima volta, di un Occidente ormai indefinibile.
Nota
Questo testo, densissimo, fu pubblicato da “L’Indice” di gennaio 2005 come “lemma” della rubrica Babele. Osservatorio sulla proliferazione semantica. Dopo gli anni della crisi finanziaria ed economica meriterebbe un arricchimento.
Una poesia di Toti Scialoja (da "Scarse serpi")
Strilli e bambini. L’inquietudine curata con la paura.
Ieri a Perugia e in Umbria, se c’era una notizia da valorizzare, riguardava gli effetti della “manovra” sulla nostra vita quotidiana. Immaginavo pertanto che fosse questo il tema da lanciare attraverso opportuni esempi anche negli strilli delle locandine affisse alle edicole. E invece no. Ieri dei quattro giornali che danno spazio alle cronache regionali in uno solo, il “Giornale dell’Umbria”, si annunciava il ventilato pedaggio sulla Perugia-Bettolle (lo svincolo che collega la città all’Autosole), negli altri tre le notizie strillate erano di tutt’altro tenore. Sulla locandina de “Il messaggero” lo strillo è SOS droga – Scontro tra spacciatori davanti all’asilo; su “La Nazione” Padre violenta per sette anni la figlia minorenne – Orco alla sbarra; sul “Corriere dell’Umbria” I bambini restano a casa per sfuggire alla maestra “terribile”.
Insomma, per effetto del combinato disposto tra codeste grandi scritte, i nostri bambini non hanno scampo: né a scuola né per strada né a casa. Un amico antropologo, che ho incontrato nei pressi dell’edicola di piazza Cavallotti, così spiegava: “I bambini tirano”. E’ una parte della spiegazione: tira anche la paura che la violenza sui deboli diffonde. Ma gioca un ruolo, anche più forte, la voglia di fuga, di favola, che la crisi alimenta: gli orchi, le streghe, Gretel e Pollicino tutto va bene, tutto fa brodo pur di allontanare dalla mente la disoccupazione, l’area della miseria che si amplia, pur di allontanare l’immagine di una società che prometteva felicità e ricchezza e che diffonde inquietudine. E la realtà di un potere che tanta di curare (o almeno di attutire) l’inquietudine con la paura.
Le Parole di Walter Cremonte. Cooperazione. Fraternità. ("micropolis" - febbraio 2006)
28.5.10
Lo statista. (da "micropolis" on line 28 maggio 2010)
Dal "Quaderno" di Leonardo Sciascia. L'uomo di lettere ("L'Ora", 19 giugno 1965)
“La più grande disgrazia di un uomo di lettere non è quella di essere oggetto dell’invidia dei suoi colleghi, vittima degli intrighi, disprezzato dai potenti; ma di essere giudicato dagli imbecilli. Gli imbecilli qualche volta superano ogni misura: soprattutto quando il fanatismo si unisce alla stupidità, e il gusto della vendetta al fanatismo. E un’altra grande sventura dell’uomo di lettere è, di solito, quella di non avere alcun appoggio”.
Questo giudizio di Voltaire, che per me è sperimentata verità, confesso che con l’andare degli anni ha quasi il potere – come dice uno scrittore napoletano a proposito degli influssi jettatori dei suoi colleghi – “di fermarmi la penna in mano”. Perché è inutile che diciate, con la chiarezza che gli intelligenti vi riconoscono, cose sensate ed oneste, che s’appartengono ai “destini generali” (e quindi anche a quelli degli imbecilli): gli imbecilli, e gli imbecilli fanatici, stanno lì, pronti a intendere o a farvi dire il contrario. Vi hanno già catalogato e sistemato, non potete sfuggire al pregiudizio; se poi vi attentate ad usare l’ironia siete del tutto perduti: le figure dell’ironia sono, per gli sciocchi di casa nostra, del tutto incomprensibili (e questa è forse la ragione stessa per cui I promessi sposi, libro da tutti gli italiani difeso come una bandiera, è in effetti uno dei libri più detestati della nostra storia letteraria).
Ma la parte più interessante del giudizio di Voltaire è quella che mette l’accento sulla mancanza di appoggi: l’uomo di lettere, dice, “è un po’ come i pesci volanti: se si innalza un poco, gli uccelli lo divorano; se si immerge sott’acqua, se lo mangiano i pesci”. Bellissima condizione, anche se tremenda. Ma quanti sono oggi, in Italia, gli uomini di lettere disposti ad accettarla e viverla?
27.5.10
La Todini, Carlo Felice e la miniera d'oro.
Un commento ad una mia vecchia scherzosa nota su Luisa Todini, “Prezzemolina”, mi segnala un articolo da “L’Unione Sarda” dell’11 maggio scorso. A quel che comprendo l’impresa Todini si è limitata a subappaltare (“così fan tutte”), ma probabilmente non mette l’attenzione dovuta nella scelta dei partner. Pongo la cosa all’attenzione dell’opinione pubblica umbra e della presidente Marini (S.L.L.).
Usati i detriti avvelenati della miniera d'oro di Furtei
Per realizzare il “tappeto” su cui è stato poggiato l'asfalto della 131 (la “Carlo Felice”), tra Sanluri e Villanovaforru, sono state utilizzate le terre di risulta, altamente inquinate, della miniera d'oro di Furtei.
Ci hanno messo poco per autodenunciarsi. Un tempo brevissimo durante il quale gli acidi presenti sui terreni-scoria trasferiti dalle miniere di Furtei sulla statale 131, tra il chilometro 41 e il cinquantottesimo, hanno cominciato a trasudare. Divorare il ferro nascosto sotto il cemento armato dei cavalcavia, venire alla luce portandosi dietro la ruggine delle “gabbie”, anima delle traverse che tagliano in due la superstrada tra Sanluri e Sardara e Villanovaforru.
L'appalto
A portare lì quella terra sporca e inquinata sarebbe stata una delle imprese a cui la società Todini, vincitrice della gara d'appalto indetta dall'Anas, aveva affidato il subappalto. Tonnellate di materiale ricco di cadmio, rame, selenio e arsenico prelevato dalle ”discariche” della miniera d'oro di Furtei della Sardinia Gold Mining e trasferito con i camion nel cantiere della Carlo Felice per creare il tappeto su cui successivamente è stato poggiato l'asfalto. Proprio quel manto nero di bitume che già da subito aveva dimostrato tutta la sua precarietà per via del sottosuolo ricchissimo di sostanze corrosive come l'acido solforico non propriamente idoneo a ospitare la nuova superstrada. Tant'è vero che all'Anas hanno fatto i salti mortali, in questi anni, dopo la consegna dell'intero tracciato Sanluri-Villanovaforru (avvenuta tre anni fa) per tentare di mantenere in discreto stato i dieci chilometri della statale 131, come emerso durante la delicatissima indagine avviata dai carabinieri della Compagnia di Sanluri al comando del capitano Gianluca Puletti, affiancata dagli specialisti del Noe dell'Arma di Cagliari guidati dal maresciallo Angelo Murgia. Un lavoro finito sul tavolo del sostituto procuratore della Repubblica, Marco Cocco, titolare dell'inchiesta, che, almeno per ora, non ha iscritto nessun nome nel registro degli indagati.
I materiali
Una cosa è certa. Nell'arco di tempo tra i cinque e i tre anni fa, qualcosa non è andata per il verso giusto, sul tratto della Carlo Felice che attraversa la provincia del Medio Campidano. Tant'è vero che già a suo tempo la stessa amministrazione provinciale guidata da Fulvio Tocco e la Asl di Sanluri avevano chiesto chiarezza sui lavori. Non solo. La Provincia del Medio Campidano, con un'ordinanza, ne aveva richiesto la rimozione «ma l'Anas, facendo opposizione, ha vinto il ricorso al Tar e dunque tale materiale non è stato rimosso», ricorda Angelo Carta, assessore regionale ai Lavori pubblici.
Lo scempio
Oggi le conseguenze di quanto avvenuto sono sotto gli occhi di tutti. Pareti delle sponde dei cavalcavia che trasudano la ruggine, scoli d'acque rosse che escono dalle condotte e finiscono nel terreno uccidendo l'erba e la vegetazione. Poi quei “pezzi” aridi e grigi lungo la 131 dove nulla cresce e tutto brucia, dove la terra vegetale che era stata sistemata per ricoprire quella di risulta delle miniere è stata spazzata via e a sua volta inaridita dagli acidi.
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