31.3.13

La manutenzione della Vita Eterna (di Alfonso Lentini)


Perché la Vita Eterna non scappi, appena catturata va subito fissata alla parete con grossi bulloni. Piantata sul muro, ha l’aspetto di una pelliccia di scuro e fluente pelame, simile a una grande vulva o a un formicaio brulicante di insetti.
Una volta imprigionata e immobilizzata, col tempo si abitua ai colori della stanza in cui viene custodita e tende a diventare docile, tanto che la si può liberare dai bulloni. Allora, verso la primavera, la si vedrà riempirsi di infiorescenze multicolori che germoglieranno dal pelame tutte insieme.
Da quel momento la Vita Eterna permane a lungo in fioritura, galleggiando talvolta al centro della stanza, leggiadra come una tenda di tulle rigonfia d’aria. Basta bagnarla ogni tanto con acqua pura e limpida, manifestarle benevolenza, sorriderle un poco. E ogni tanto darle una carezza.

dal sito "Undu Palermo Arti e comunicazione"

Quattro domande. Una autointervista di Carlo Emilo Gadda

Carlo Emilio Gadda in una caricatura di Vauro
Richiesto di scrivere in poche ri­ghe un giudizio critico sulla sua opera complessiva, che cosa di­rebbe?
Il mio lavoro letterario, disturbato per circa 16 anni su 35 da altri impegni, e da circostanze private e cataclismi pubblici esterni alla mia responsabili­tà nonché alla mia possibilità di porvi in alcun modo riparo, ha derivato da­gli urti, dalle disavventure, dalla guer­re vittoriose o catastrofiche, il caratte­re discontinuo e l'apparenza e forse la tonalità del frammento. A parte ciò, il mio scrivere palesa, purtroppo, una insofferenza delle formulazioni espressive che mi sono via via ritrova­to nelle camere timpaniche e la co­stante ricerca d'una espressione a mio giudizio adeguata ed esatta: sciolta, comunque, dagli ancoraggi di ogni pe­tizione di principio. Questo tentativo, riuscito o no, comportava infrazione degli obblighi di contegno [behaviour), intendo di contegno espressi­vo ereditato dal secolo perbene. Com­portava qualche inosservanza dei riti di compostezza un po' uggiosa, qual­che pallida elongazione dal filo a piombo della «normalità» testuale, della tradizione e dell'urto, più o me­no pedestre, della regola grigia. Scarsa venerazione, in me, per una tematica e per un frasario di accatto. Scarso de­siderio di esibire tutto un sistema di «buoni sentimenti», cioè d'infiorescenza e di «normali» pustole che m avrebbero condotto a salvezza: di ottenere alla mia anima il diploma di «anima bella». Ahi!, la beauté de l’ âme mi ha sempre sedotto, purché istallata negli altri. Tutto sommato, non credo di essere un cannibale. Mi dolgo della incriminazione di «baroccheria». Alcune pagine extravaganti, ne convengo: alcun eccesso derisorio, di cui chiedo perdono a Dio, e alla patria: qualche gioco di parole (c'est mon alcool à möi): assente, comunque, il sci e sci e sci e sci del Pascoli così mal traducibile in francese. Mi dolgo d'essere accusato di barocchismo. Ci sono due sonetti dello Shakespeare, n. 135 e 136, alla dark lady, molto giocati sulle parole (come sempre) e dunque barocchi (come tutti gli altri) ove il nome Will accede 12 + 6=18 volte, nei vari significati che esso può ricevere in lingua inglese. I traduttori italiani tradussero il detto sostantivo ogni volta, a fronte dei significati dicevoli: e lasciarono will; cioè non tradussero, a fronte del significato disdicevole. Bene operarono. Poiché la censura non barocca gli avrebbe sequestrato il barocchissimo Guglielmo, thy Will.

Da poco si è chiuso mezzo secolo. Tra mezzo secolo quali narratori si leggeranno fra coloro che hanno lavorato in questo testé trascorso?
L'arte profetica non è la mia. Troppo mi spiacerebbe d'imbrattare il futuro con una erogazione responsale che si avverasse «a l'incontrari». Infiniti romanzieri, e più d'uno interessante, nel mezzo secolo testé decorso: grande varietà di temi e di atteggiamenti narrativi. Molti, anche, gli inutili. Se le scuole dove s'impara a leggere e magari a intendere ciò che si legge, se gli studi e il midollo spinale della gente funzioneranno ancora, credo che i maggiori nomi delle vetrine 1900-1950 saranno in qualche modo «presenti» nel 2000, et ultra.

I critici le sono stati utili qualche volta? L'hanno aiutata a capirsi meglio e a lavorare meglio? Così com'è fatta oggi la critica è utile a un narratore?
«Sarebbero» stati utili, se avessi trova-to in me stesso l'eroica virtù di dargli ascolto. Mi hanno comunque, e pressoché sempre, confortato al lavoro. La loro attenzione, la misericorde gentilezza del loro spirito, il «via!» così cordialmente espressomi allo starting hanno tonificato la mia speranza (un po' dubbiosa), la mia morosa diligenza. Devo, a molti, un grazie sincero: riconosco in alcuni, quella fede, quel particolare senso di fraternità che diviene, alla fin fine, collaborazione morale. La critica utile oggi, come sempre, è quella che comprende, che definisce e colloca uno scrittore: che ne ha pietà, nel significato più proprio del termine. Meno utile e direi totalmente inutile quella che discende da petizione di principio: che appende al suo chiodo il cartellone-paradigma, nella parete della scuola o del carcere, e dice: «Ve', ve'! Devi rifar da capo! Niente albicocche stasera! Ba-ba e non ba-bu». I Promessi Sposi riveduti e corretti: da un pronipote di quell'Ambrogio Fusella, Spadaro. E' un'idea: in cui non credo. Il lavoro, bello o brutto che sia, non è l'approssimazione maggiore o minore a un preesistente paradigma: salvo che per i pappagalli, o gli epigoni, i seguaci di bottega: è invenzione e costruzione, se pur lenta, sgraziata, infelice, che bisogna strapparsi dall'anima. Quando la critica si fonda e opera sulla base delle «vigenti disposizioni di legge», legge letteraria intendo, cioè sulla o sulle poetiche, sulle idee fisse che al momento imperversano, quella critica, no, non è fatta per mio soccorso. L'incriminarmi perché non appartengo e una scuola, è un condannarmi a tanti anni di galera perché non sono biondo.
Nonostante il romanzo tradizionale non possa essere considerato di gran moda, ogni anno escono decine e decine di romanzi. Si dice però che essi non siano veri romanzi: perché non hanno la misura tradizionale, non si servono di un intreccio, e non si basano sulla creazione di personaggi.

Come giudica lei questa situazione? Legge molti romanzi?
Quali le interessano? Leggo, purtroppo, ben pochi romanzi, affaticato dal mio stesso gribouillage: direi che un determinato genere letterario può, come una susina, pervenire a maturazione, indi a stanchezza. Il «romanzo» non vive in un tempo assoluto, in una regione astratta dello spirito: vive nella storia degli uomini (e delle donne), vive nel mutevole costume. Il «genere letterario» si modifica, si evolve, approda a quella particolare forma del suo non essere, che è la parodia. Il Furioso è parodia del «genere». Il grande lavoro di Balzac e quello di Tolstoi sono «genere». In altri l'infarto moralistico o saggistico è tale, per cui si deve dire che la stessa proposizione critica è divenuta personaggio; e altrettanto una frase musicale, o un dipinto. Il magico riapparire della «petite phrase» di Vinteuil nella dolorosa attesa di Carlo Swann, può equivalere il riapparire di Laura nel sonetto «Levommi, il mio pensier, in parte ov'era - Quella...»: equivale certamente lo squillare e l'irrompere inatteso della Marsigliese nel mio stupore appassionato di bimbo, in via Principe Umberto, per il Presidente Loubet.

da "il manifesto", 12 novembre 1993, anticipazione dal volume Per favore lasciatemi nell'ombra, Adelphi, 1993.

Un Papa argentino per fermare il progresso democratico dell'America latina? (Agostino Spataro)

Agostino Spataro, mio antico compagno di Fgci, già deputato comunista ed esperto di politica internazionale, ha fatto circolare attraverso la rete e mi ha inviato un paio di settimane fa questo suo articolo chiaro e stringente, datato 15 marzo 2013, sull'elezione a papa di Bergoglio, in cui - senza partiti presi ma con cognizione di causa - esprime dubbi che sono di tutti e invita all'attenzione nei confronti della politica latino-americana del nuovo pontefice. (S.L.L.)

Spero, sinceramente, di sbagliarmi, ma temo che l'elezione a Papa del cardinale argentino Jorge Mario Bergoglio potrebbe essere stata concepita, anche al di là della sua volontà, come nuovo fattore della strategia dei poteri forti internazionali per il "recupero", la "normalizzazione" dell'America del Sud.
Per il superamento di una clamorosa anomalia che vede il mondo in preda alla recessione economica, mentre in quasi tutti i Paesi del Sud - America è in corso una grande mutazione politica che accompagna la crescita economica in favore del progresso dei poveri, dei lavoratori, dei ceti meno abbienti, delle stesse economie nazionali con risultati buoni, talvolta eccellenti.
Ovviamente, non ci nascondiamo che nelle politiche di questi governi vi sono errori, limiti, eccessi. Tuttavia, hanno dimostrato di avere le idee chiare e, con il consenso democratico della gente, hanno varato politica d'inclusione sociale e non di esclusione come accade in Italia, in Europa, negli Usa.
Insomma, in questa fase oscura, solo dall'America del Sud giungono buone notizie, una nuova speranza per i popoli del mondo.  
Dopo il crollo delle dittature militari e fasciste, imposte col "piano Condor" degli Usa, in America meridionale è in atto un grande fervore democratico, culturale, civile: crescono i diritti degli uomini e delle donne (perfino degli omosessuali) e degli "eterni esclusi" ossia delle popolazioni indigene prima sterminate e poi trattate da schiavi; crescono il Pil totale e i redditi individuali, si governa il  debito pubblico e si paga quello con FMI e Banca mondiale.
Due organismi internazionali, che dovrebbero essere al servizio del progresso dei popoli, ma che, per un lungo periodo, hanno sfruttato, affamato i sudamericani, favorendo le dittature per mantenere "l'ordine", il loro ordine, quasi sempre benedetto dalle gerarchie cattoliche.
In Argentina, tale connivenza continuò perfino durante gli anni terribili della dittatura di Videla e soci che provocò il sequestro, la sparizione di circa 30.000 giovani dissidenti politici (fra cui anche qualche prete di base), violentati, torturati e gettati (vivi) dagli aerei in volo.
Il cosiddetto "governo profondo" del mondo occidentale, ossia la "cupola" invisibile (o quasi) dei grandi oligopoli multinazionali e delle grandi banche (in affanno), non può consentire che l'America del Sud, la prima cavia della loro ottusa strategia di  rapina, si possa liberare dall'antico giogo.
Avendo fallito col voto democratico che ha sconfitto i partiti di destra (loro alleati sul territorio), non potendo riproporre la soluzione autoritaria (nuove dittature), temo si saranno orientati a far leva sul diffuso e genuino sentimento religioso cattolico, soprattutto sulla sua gerarchia, per avviare una contrapposizione, anche di tipo ideologico, con i governi democratici e progressisti locali.
In primo luogo con quello argentino di Cristina Fernadez de Kirchner, " colpevole" di avere salvato l'economia e il popolo argentini dal drammatico fallimento provocato dai governi dei dittatori e di Menem e soci, di avere allontanato il FMI dalla realtà argentina.
Il “governo profondo”, forse, spera in una forte contrapposizione tra i governi progressisti e di sinistra e il neo Pontefice per aprire una breccia nella coscienza popolare attraverso cui far passare il disegno neo-egemonico.
E quale chance migliore di quella dell'elezione di un Papa argentino che - si dice- andasse in autobus a trovare i poveri, ma anche i generali golpisti?
Vedremo. Sono convinto che per proseguire nella giusta via del progresso nella democrazia, l’America latina ha bisogno di libertà, di collaborazione e di pace, anche religiosa. 
Spero, sinceramente, che Papa Francesco vorrà smentire, con i fatti, questi ed altri dubbi e timori. Non solo miei.  

Il vero seduttore. Alcibiade racconta Socrate (dal "Simposio" di Platone)

Copia romana di una statua greca di Alcibiade
Marsia aveva bisogno dello strumento per incantare gli uomini a forza di fiato e così, anche oggi, deve fare lo stesso chi vuol suonare le sue melodie... Insomma le sue melodie, sia che le suoni un flautista di vaglia o una suonatrice di mezza tacca, sono le sole a commuoverci, a farci quasi sentire il desiderio di dio, divine come sono, e di iniziarci ai suoi misteri. Tu soltanto in questo gli sei diverso, che senza strumento, con le sole parole, ottieni lo stesso risultato. Infatti noi, quando ascoltiamo qualcuno che parla, fosse pure il più bravo oratore di questo mondo, di quello che dice, non ce ne importa niente, per così dire, proprio niente di niente; quando invece ascoltiamo te, o anche soltanto un altro che riferisce i tuoi discorsi, fosse pure un buono a nulla, quanti ne siano, uomini, donne o giovani, restiamo tutti sbalorditi e affascinati. Quanto a me, signori, se non temessi di passare completamente per ubriaco, vi direi, dietro giuramento, quello che ho provato e provo ancora quando questo qui comincia a parlare. Quando lo sto a sentire, il cuore mi si mette a battere forte, peggio di quello dei Coribanti, alle sue parole mi vengono giù le lacrime e vedo tutti gli altri, ma tutti, quanti ne sono, che provano la stessa impressione. Quando invece sentivo parlare Pericle o altri bravi oratori, mi rendevo conto che anch'essi parlavano bene, eppure non provavo niente di simile, non mi sentivo l'anima in tumulto, né turbata al pensiero di essere una ben povera cosa. Ma per costui, invece, per questo Marsia qui, quante volte mi son sentito come se non mi fosse più possibile vivere come vivevo. E non dirai mica, Socrate, che tutto questo non sia vero? Ed io sono convinto che anche adesso, se decidessi di ascoltarlo, non riuscirei a resistere e proverei le stesse emozioni…
Soltanto davanti a quest'uomo io ho provato una cosa che nessuno mi sospetterebbe: quella di vergognarmi. Davanti a lui solo, io mi vergogno, perché riconosco che non ho la forza di contraddirlo, di oppormi a quello che mi dice di fare, ma poi, appena mi allontano da lui, ecco che mi lascio nuovamente prendere dal favore popolare; così lo evito e lo fuggo e quando lo vedo, solo a pensare a tutte le cose di cui mi ha convinto, arrossisco dalla vergogna. Tante volte mi farebbe addirittura piacere che non fosse più a questo mondo, anche se poi, so benissimo che questo mi addolorerebbe assai di più e così, con un uomo simile, non so proprio come fare…
Guardatelo qui, Socrate, pronto sempre a innamorarsi dei bei giovanotti, a corteggiarli, a perdere addirittura la testa… E per giunta passa la vita, poi, a fare il finto tonto e a pigliarsi un po' gioco di tutti. Se poi fa sul serio, però, e si lascia veder dentro, non so se l'avete mai viste le bellezze che ha. Io però le ho viste, una volta, e mi son sembrate così divine, così preziose, stupende e straordinarie, che mi sentii soggiogato e pronto a fare tutto ciò che Socrate avesse voluto.
Credendo che egli s'interessasse alla mia bellezza, pensai che era proprio un'occasione e una bella fortuna la mia se, cedendogli i miei favori, avessi potuto apprendere da lui tutte le cose che sapeva: io infatti andavo tutto superbo della mia bellezza. Con queste intenzioni, allora, io che prima non ero solito restarmene da solo con lui, senza la compagnia di un servo, un bel giorno congedai il mio schiavo e rimasi solo con lui. Bisogna che ve la dica tutta la verità e voi fate attenzione e se dico bugie, Socrate, smentiscimi pure. E così me ne rimasi solo soletto con lui ed io credevo che egli avrebbe subito attaccato con quei discorsi che di solito un innamorato fa al suo ragazzino, quando si trovano a tu per tu ed ero tutto contento. Invece, niente da fare ma, come al solito, parlò con me e giunta la sera, se ne andò.
Vedendo questo, lo invitai, allora, a far ginnastica insieme a me, cominciai a esercitarmi con lui e speravo di concludere qualcosa. Anche lui, in verità, faceva i suoi bravi esercizi con me e lottavamo insieme, spesso senza che nessuno fosse presente. Ebbene, ve lo devo dire? Non ne cavai un bel niente. E quindi, visto che in questo modo non combinavo nulla, pensai che con un uomo simile bisognasse adoperare le maniere forti, altro che lasciar perdere, dato poi che mi ci ero messo, e vedere un po' come andava a finire la faccenda. E così lo invitai a cena, addirittura come fa uno spasimante quando vuol far cascare la persona amata. Macché, mica accettò subito; tuttavia, dopo qualche tempo, si convinse. La prima volta che venne, però, volle andarsene subito, appena mangiato; quella volta io mi vergognai un po' e lo lasciai andare. La volta appresso, però, gli tesi il laccio e dopo che finimmo di mangiare, gli impiantai una discussione che si protrasse fino a tarda notte e così, quando fece le mosse di congedarsi, io gli dissi che ormai s'era fatto tardi e quindi lo convinsi a fermarsi.
Così egli si mise a riposare in un letto accanto al mio, lì dove aveva cenato : nella sala, nessun altro avrebbe dormito tranne noi due. Fin qui niente di male nel mio racconto e anzi potrei continuare a parlare di fronte a tutti ma, a questo punto, io non vi darei più nulla se, anzitutto, nel vino, come dice il detto, non vi fosse la verità e poi perché mi sembrerebbe proprio una cosa ingiusta, dal momento che sto facendo l'elogio di Socrate, passare sotto silenzio il suo nobilissimo comportamento. Oltre a questo, ancora, io mi sento come uno che è stato morso da una vipera che, a quel che si dice, non vuol raccontarlo a nessuno, tranne a quelli che sono stati anch'essi morsi, ai soli, cioè, che potrebbero comprendere e compatire i suoi gesti e tutte le frasi che si dicono sotto l'influsso del dolore. Ed io che sono stato punto dal morso più doloroso e nella parte che più duole... al cuore o all'anima o come vuoi chiamarla, trafitto e punto dai ragionamenti filosofici che penetrano più profondamente del dente di una vipera specie quando afferrano l'anima di un giovane non mediocre e lo spingono a fare e a dire qualunque cosa...
Dunque, signori, quando la lampada fu spenta e i servi se ne furono andati, pensai che non era più il caso di star lì a gingillarsi ma di esprimergli chiaramente le mie intenzioni. «Dormi, Socrate?» perciò gli chiesi scuotendolo. «Nient'affatto» mi rispose. «Sai cos'ho pensato?» «Cosa?» «Che tu mi sembri l'unico amante degno di me, però mi pare che tu esiti a dichiararti. Però, sai, io ho deciso; credo proprio che sia da sciocchi non esserti compiacente in questo, come in tutto il resto, se tu ne avessi bisogno, dei miei amici, per esempio, delle mie sostanze. Perché, vedi, niente mi sta più a cuore che diventare il più possibile migliore e nessuno, io penso, può far meglio di te al caso mio. Anzi mi vergognerei molto di più, di fronte alle persone intelligenti se non compiacessi un uomo simile, che non dinanzi alla gente ignorante se gli cedessi».
E lui, dopo essere stato lì a sentirmi, col suo solito fare un po' ironico : «Mio caro Alcibiade,» rispose, « può darsi proprio il caso che tu non sia uno sciocco se è vero che io ho tutto quello che tu dici e se c'è in me una specie di potere che ti possa far diventare migliore. Se è così, devi aver visto in me un'irresistibile bellezza, di gran lunga superiore alla tua e, rendendotene conto, ora cerchi di far comunella con me, di metterci le mani addosso e barattar bellezza con bellezza e così concludere, alle mie spalle, un affare non poco vantaggioso; cerchi, insomma, di pigliarti una bellezza vera in cambio della tua che è apparente e pensi proprio di scambiare oro con rame. Ma benedetto figliolo, fa più attenzione, che tu non t'inganni nei miei riguardi, dato che io non sono proprio nulla. Il fatto è che l'occhio della mente comincia a veder chiaro quando s'affievolisce quello del corpo e per te, ce ne vuole del tempo». Ed io dopo averlo ascoltato: «Per quel che mi riguarda, le cose stanno così ed io non ho detto nulla di diverso da quello che penso. Tu, piuttosto, devi decidere quello che è meglio per te e per me». «Così va bene » mi rispose. «In seguito vedremo e faremo quello che ci sembrerà meglio per tutti e due a proposito di questa faccenda e anche per il resto». Quanto a me, dopo quello che aveva detto, e ora che avevo udito la sua risposta, come se gli avessi lanciato un dardo, pensavo d'averlo già bell'e trafitto. E così, senza dargli la possibilità di dire una parola di più, balzai su e gli gettai addosso il mio mantello (infatti eravamo d'inverno) ficcandomi, poi, sotto quello suo, logoro, e stringendolo nelle mie braccia (sì, proprio costui, questo essere veramente divino e meraviglioso) e tutta la notte gli stetti disteso vicino. Nemmeno questo, Socrate, puoi dire che non è vero. Ebbene, nonostante che io avessi osato tanto, si dimostrò superiore e mi disprezzò beffandosi della mia bellezza, schernendola; e si che io credevo di non essere mica poi tanto male, o giudici (sì, giudici dell'insolenza di Socrate); ebbene, sappiate, ve lo giuro su tutti gli dei e le dee, che io dopo aver passato la notte accanto a Socrate, mi alzai come se avessi dormito con mio padre o con mio fratello maggiore.

capp.XXXII - XXXIV passim
Traduzione Nino Marziano (Grandi libri Garzanti, 1975)

Lettera. Una poesia di Blaise Cendrars

Tu mi hai detto se mi scrivi
Non battere tutto a macchina
Aggiungi una linea di tua mano
Una parola un niente oh non gran cosa
Sì sì sì sì sì sì sì sì

Eppure la mia Remington è bella
Io l’amo molto e l’adopero bene
La mia scrittura è netta e chiara
Si vede che sono io che l’ho battuta

Ci sono dei bianchi che solo io so fare
Vedi che bell’aspetto ha la mia pagina
Eppure per farti piacere io aggiungo ad inchiostro
Due tre parole
E una grossa macchia d’inchiostro
Perché tu non possa leggerle

da Fogli di viaggio (1926) Traduzione Salvatore Lo Leggio

30.3.13

Da noi... Una poesia di Pietro Ingrao

Da noi discendete. Da ciò che fummo.
La rosa non ci sarebbe.
Se ci cancelli, s'apre un abisso.

da Il dubbio dei vincitori, Mondadori, 1986

Sei anni prima. Einstein scrive a Roosevelt a sostegno dell'atomica

Albert Einstein e Robert Openheimer
2 agosto 1939
Signor Presidente,
la lettura di alcuni recenti lavori di E. Fermi e di L. Szilard, comunicatimi sotto forma di manoscritto, mi induce a ritenere che, tra breve, l'uranio possa dare origine a una nuova e importante fonte di energia. Alcuni aspetti del problema, prospettati in tali lavori, dovrebbero consigliare all'Amministrazione la massima vigilanza e, se necessario, un tempestivo intervento. Ritengo quindi mio dovere richiamare la Sua attenzione su alcuni dati di fatto e suggerimenti.
Negli ultimi quattro mesi, grazie agli studi di Joliot in Francia e di Fermi e Szilard in America, ha preso sempre più consistenza l'ipotesi che, utilizzando un'adeguata massa di uranio, vi si possa provocare una reazione nucleare a catena, con enorme sviluppo di energia e formazione di un gran numero di nuovi elementi simili al radio: non vi è dubbio che ciò si potrà realizzare tra breve.
In tal modo si potrebbe giungere alla costruzione di bombe che - è da supporre - saranno di tipo nuovo ed estremamente potenti. Uno solo di tali ordigni, trasportato via mare e fatto esplodere in un porto, potrebbe distruggere l'intero porto e parte del territorio circostante. D'altra parte, l'impiego di queste armi potrebbe risultare ostacolato dal loro eccessivo peso, che ne renderebbe impossibile il trasporto con aerei.
Negli Stati Uniti esistono solo modeste quantità di minerali a bassa percentuale di uranio; minerali più ricchi si trovano in Canada e nella ex Cecoslovacchia, benché i più cospicui giacimenti uraniferi siano nel Congo belga.
Alla luce delle precedenti considerazioni, Ella converrà con me, signor Presidente, sull'opportunità di stabilire un collegamento permanente tra il governo e il gruppo di fisici che, in America, lavorano alla reazione a catena, collegamento che potrebbe essere facilitato dalla nomina di un responsabile di Sua fiducia, autorizzato ad agire anche in veste non ufficiale. A tale persona dovrebbero essere affidati, fra l'altro, i seguenti compiti:
a) mantenersi in contatto con i Dipartimenti interessati per tenerli al corrente di eventuali sviluppi e suggerire al governo misure atte ad assicurare la fornitura di uranio;
b) accelerare il lavoro di ricerca nel settore, attualmente svolto nei limiti di bilancio dei laboratori universitari, sollecitando, all'occorrenza, forme di finanziamento volontario da parte di privati disposti a contribuire alla causa, e assicurandosi altresì la cooperazione di laboratori industriali dotati delle attrezzature necessarie.
Mi si dice che la Germania, subito dopo l'occupazione della Cecoslovacchia, ha posto l'embargo sull'uranio proveniente da questo paese. Il che non stupisce, quando si pensi che il figlio del sottosegretario di Stato tedesco, von Weizsàcker, è membro del Kaiser-Wilhelm-lnstitut di Berlino, dove sono attualmente in corso esperimenti con uranio, analoghi a quelli svolti in America.
Distintamente
Albert Einstein

da "L’Unità" 2 agosto 1989

29.3.13

Fra madre e figlia, a quattro mani (di Roberta Carlini)

Dal "Bo", il giornale dell'Università di Padova, riprendo l'articolo che segue di Roberta Carlini su un libro che da come lo racconta doovrebbe essere bello e importante. (S.L.L.)
Maddalena Vianello e Mariella Gramaglia
Non si contano, nella letteratura e nella saggistica, le lettere ai figli. Genere di recente arricchito dalle letterine-bignami, come l’economia o la Costituzione o il razzismo “spiegato a mio/a figlio/a”. Fra me e te (Et al., 2013), invece, è un libro fra madre e figlia, scritto a quattro mani da Mariella Gramaglia – la madre, una delle protagoniste del femminismo italiano - e Maddalena Vianello - la figlia, ricercatrice, organizzatrice culturale, attivista. Si scambiano riflessioni in forma di lettere, consegnandoci un dialogo tra due generazioni che attraversa tutti i temi cruciali della nostra vita politica, economica, sociale: il ruolo e il valore delle donne; la questione generazionale; e il lavoro, la condizione precaria, zingara e intermittente delle giovani donne lavoratrici di oggi, raccontando la quale Maddalena dà voce alla sua generazione e introduce il più forte elemento di diversità e contrapposizione con quella delle madri.
La condizione materiale irrompe nell’epistolario quasi a sorpresa, dopo che le prime lettere hanno introdotto i vari temi e chiarito il contesto in cui Mariella e Maddalena hanno deciso, non senza tremori, di lanciarsi nell’impresa del libro. Il contesto è quello dell’epilogo dell’ultimo governo Berlusconi, gli scandali sessuali, il Rubygate, e l’emersione della protesta femminile fino alla grande manifestazione del 13 febbraio del 2011. Giorni che accendono le riflessioni e le discussioni su “che fine hanno fatto le conquiste del femminismo”, sulla libertà di scelta e la dignità delle donne. Maddalena attacca, Mariella ricorda e puntualizza: la distanza percorsa, la scalata al cielo, la rivoluzione culturale, le conquiste portate a casa, e in casa.
Eppure “io mi sento più reduce di te”, scrive la figlia alla madre, in una lettera dal titolo significativo: “Il master e le bollette”. Ma non basta. Se la figlia si sente “più reduce” della madre è perché ha cambiato cinque città in dieci anni, ha girato l’Europa collezionando titoli prestigiosi e lavori meno prestigiosi, ha amici in tutti gli emisferi per emigrazione forzata, e ogni volta che lascia una casa non porta via le lenzuola perché pesano troppo e “conviene lasciarle piuttosto che pagare il sovrapprezzo alla compagnia aerea”: ma quello che poteva sembrare, alle ragazze degli anni ’60, un miraggio di libertà è una condanna alla precarietà. “Sono stanca di non poter scegliere la mia vita a trentadue anni. Stanca di non poter vivere dove voglio perché il lavoro non si trova, di girare come una trottola per subire condizioni di lavoro umilianti”, scrive Maddalena. “La mia tesi di master, premiata fra i lavori di maggior valore dell’anno accademico alla London School of Economics, non mi paga le bollette”.
Maddalena non parla solo per sé, ma per tutte le sue amiche, e per quei numeri delle statistiche che ben conosciamo: quelli col segno negativo (bassa occupazione, gap salariale, part time involontario, sottoinquadramento, soffitto di cristallo nei posti di lavoro); quelli terribilmente e inutilmente positivi (nel campo dell’istruzione, dalla scuola all’università); e quelli di una bassa fecondità che è il prodotto non della libera scelta per la quale la generazione dei ’60 e ’70 ha lottato, ma della condizione di precarietà in cui la gran parte delle ragazze vive, che rende la maternità un diritto impossibile, un’aspirazione da rinviare indefinitamente, o una scelta da pagare a caro prezzo.
“Non vi renderò mai abbastanza grazie per le conquiste per cui avete lottato, quelle che nella mia vita sono acquisizioni da difendere. Mai abbastanza. Solo che qui la situazione è sconfortante e noi sopravviviamo. Non è un bel vedere. Perdona questi toni – è Maddalena che parla-, ma sono molto arrabbiata. Anche con te. Mi avevi raccontato che il mondo era diverso, che essere donna era una cosa diversa. E io ti avevo creduto. Mamma, il cestino dei regali è talmente impolverato da sembrare vuoto”.
Una lettera durissima, che quasi fa rimpiangere a Mariella di aver scelto la forma del dialogo (“Ho pensato che non ero in grado di risponderti. Che mi ero messa in un gioco troppo duro”), e non il frequentato genere della lettera al discendente. Ma il dialogo si dipana, e pazientemente prova a sciogliere tutti i nodi; richiama il passato, lo confronta, lo intreccia; si nutre dell’attualità, delle discussioni nei movimenti e fuori; irrompono ricordi, e anche colpi di scena. Il tutto in un epistolario che si fa narrazione; e nel raccontare, le due autrici non risolvono – non avrebbero potuto - il tema gigantesco posto da Maddalena, ma lo pongono al posto giusto, una volta per tutte. Al centro della scena.
Ma non è un sentimento negativo, quello che si prova una volta completata la lettura e chiuso il libro. Complice la congiuntura politica e sociale del periodo in cui il diario-epistolario è stato scritto (le manifestazioni delle donne), e soprattutto l’intenzione delle autrici, i toni non sono mai quelli del lamento delle vittime. Maddalena porta la sacrosanta dote di rabbia e volontà di reagire, Mariella il valore aggiunto di un’eredità ricchissima da consegnare: “Il maternage è finito. Il femminismo italiano ha la missione di passare il testimone e di battersi perché lo spazio pubblico si apra intorno a quelle che ambiscono a frequentarlo”. È necessario che siano le più giovani a raccogliere la sollecitudine verso la vita e verso la cosa pubblica. Libere. Nel bene e nel male”, scrivono nell’epilogo. A quattro mani.

5 stelle e una botte di ferro (S.L.L. - stato di fb)

Amici e compagni si consolano. Dicono: con il loro no a qualunque soluzione della crisi i grillini perdono consensi e i sondaggi li danno in forte discesa. Credo che questa (momentanea) caduta sia messa nel conto. Il loro prestigio risalirà immediatamente quando nascerà un governo dalla convergenza parlamentare Pd-Pdl.... Allora cominceranno le loro scorrerie parlamentari e i sondaggi - ne sono convinti - segnaleranno la loro ascesa travolgente.

Temo che non si sbaglino.

Altro sarebbe il loro atteggiamento se il Pd dichiarasse immediatamente, solennemente e inflessibilmente: "con la destra di Berlusconi né alleanza né convergenza, neanche in caso di estrema emergenza, perché sono loro i responsabili del disastro". In quel caso la paura di un ritorno immediato al voto consiglierebbe ai grillisti una maggiore duttilità.

Invece Grillo e i 5 Stelle si sentono in una botte di ferro. Napolitano, la burocrazia europea, la grande stampa italiana, la grande finanza, gli stessi singoli parlamentari che temono la non rielezione, tutti costoro pressano, consigliano e minacciano perché il Pd si pieghi all'inciucio, comunque esso si chiami: governo istituzionale, tecnico, europeista, di scopo grasso o di scopo napolitano. Credo che riusciranno nell'intento.

Grillo e i suoi forse sono davvero in una botte di ferro. Con un governo di quel tipo sarebbero tempi durissimi per i ceti popolari e il degrado dell'Italia aumenterebbe. Ma sulle ceneri dei partiti (ma anche dei diritti sociali e forse delle libertà repubblicane) brillerebbero le 5 stelle.

Napolitano. Il destino di un presidente (di Renato Covino)

Georges Simenon non è solo l’inventore del commissario Maigret, ma è anche un raffinato scrittore di romanzi non polizieschi. Tra questi ultimi ce n’è uno che si intitola Il Presidente. L’atmosfera del romanzo cumula la sacralità del ruolo che il protagonista custodisce una volta ritiratosi dalla politica e la malinconia per la consapevolezza della fine imminente. Si dice che l’ispiratore della storia di Simenon fosse Georges Clemenceau che da deputato di estrema sinistra radical-socialista trasmigrò verso posizioni più moderate e, divenuto ministro dell’interno, represse con energia gli scioperi operai del 1906. Dal 1917 fu presidente di un gabinetto di guerra segnalatosi per la durissima repressione di ogni velleità pacifista e d’ogni ipotesi di “tradimento” e gestì la pace di Versailles.
Clemenceau si ritirò dalla vita politica a 79 anni nel 1920, dopo essere stato sconfitto nelle elezioni per la presidenza della Repubblica francese. Alla stessa età, mese più mese meno, invece, Giorgio Napolitano viene eletto Presidente della Repubblica italiana. Il soprannome del politico francese era “la tigre”, quello di Napolitano è “il molle”. Tuttavia, a parte le differenze, a fine corsa entrambi sono storicamente degli sconfitti. Clemenceau impose alla Germania condizioni di pace durissime che apriranno la porta al secondo conflitto mondiale. Napolitano - più modestamente - si è fatto garante di un sistema politico corrotto e al declino, ergendosi a suo puntello in nome di un’Europa piegata alle ideologie liberiste e alla pratiche diplomatiche e tecnocratiche che ne hanno segnato la nascita e il percorso.

Un comunista “atipico”?
Napolitano ha compiuto i primi passi della sua carriera politica sotto l’egida di Salvatore Cacciapuoti, il segretario stalinista della Federazione partenopea del Pci, e, soprattutto, di Giorgio Amendola. Non gli si conoscono strappi. E’ accurato, diligente e, soprattutto, cauto. Nel 1956 afferma che i carri armati sovietici avevano represso la sollevazione operaia ungherese per difendere la libertà. Dopo la morte di Togliatti e l’elezione di Longo a segretario dopo l’XI congresso - quello dello scontro con Ingrao, accusato di usare il dissenso per mettere in discussione l’unità del gruppo dirigente – diviene coordinatore della segreteria e membro dell’Ufficio politico. Sembra destinato a succedere a Longo, ma al XII congresso gli verrà preferito come vicesegretario con pieni poteri Enrico Berlinguer. Ciò non toglie checontinui la sua carriera nel Pci anche senza compiti direttamente operativi.

Dalla destra comunista al migliorismo
Il punto di svolta è la morte di Giorgio Amendola. Napolitano eredita il ruolo di capo della destra del Pci, quella che punta alla socialdemocratizzazione del partito, all’ingresso nell’Internazionale socialista, a buoni rapporti con il Psi craxiano, alla responsabilità nei confronti dell’interesse nazionale, che significa moderazione salariale, rinuncia ai diritti acquisiti dai lavoratori (considerati insopportabile massimalismo “operaistico”), rifiuto della “diversità” berlingueriana e della questione morale. E’ in questo periodo che comincia ad affermarsi, in riferimento alla destra comunista, il termine migliorista, che designa chi accetta il capitalismo come è, senza metterlo in discussione, proponendosi al più di migliorarlo.
La scelta di avvicinamento al Psi si esaurisce per due motivi. Il primo è il crollo del muro di Berlino e la decisione di Occhetto di cambiare nome al partito: il segretario pensa che se il comunismo è fallito anche le politiche socialdemocratiche sono in crisi. Il secondo è determinato nel 1992-1993 da Tangentopoli, con l’incriminazione, la latitanza e la condanna di Craxi e la sparizione del Psi. Il termine socialista e socialdemocratico non hanno, almeno in Italia, più corso.
A poco serve la costituzione della corrente riformista del Pds, di cui Napolitano è formalmente il capo. Non ci crede neppure lui e, del resto, la sua natura non gli rende congeniali posizioni decise, come sempre preferisce lavorare per linee interne, evitando rotture. Proprio in quegli anni un suo sodale, Napoleone Colajanni, esprimerà su di lui un giudizio tranchant: “Il coraggio non sa nemmeno dove sta di casa”. Più tardi risulterà chiaro che neppure il socialismo democratico soddisfa più l’ansia revisionista di Napolitano, che rapidamente virerà verso un liberalismo di stampo progressista, disponibile a discutere con i moderati ed i conservatori, assumendo come suo maestro Isaiah Berlin. Lo spiega efficacemente a Paolo Franchi, biografo del presidente, Rino Formica, che attribuisce a Napolitano un’attitudine presente nella nomenclatura del Pci secondo cui “l’inflessibilità del comunista consiste nella capacità di oscillare allo stesso ritmo della linea del partito”. Non basta. Formica si domanda: “E quando non ci sono più né la linea né il partito, come fa ad oscillare un figlio dell’aristocrazia intellettuale napoletana, di formazione crociana, togliattiano di destra più ancora che amendoliano? Gli restano due ancoraggi soltanto, ma molto forti. Il primo se lo è conquistato in prima persona, sulla scia di Giorgio Amendola: ed è l’Europa. Quanto al secondo, […] almeno in parte glielo ha lasciato in eredità […] Palmiro Togliatti: ed è il costituzionalismo liberale”.

Il Presidente
E’ alla luce di questi presupposti che va letto il settennato appena trascorso. A Napolitano la socialdemocrazia non basta, bisogna arretrare ancora e tornare al liberalismo. Ciò spiega, in linea di continuità con il suo passato, l’ansia di unità ideale tra le diverse forze politiche, l’ossessione delle forme che spesso lo opporrà a Silvio Berlusconi, cui si aggiunge la rivalutazione di Craxi nel 2009: a suo dire il segretario socialista non può essere giudicato alla luce delle sue vicende giudiziarie, ma va considerato un grande, lungimirante, leader politico. La sua pratica di cerchiobottista è confermata già nel discorso di insediamento, in cui afferma che va riconosciuto a fondamento della repubblica il “significativo e decisivo apporto della Resistenza, pur senza ignorare zone d’ombra, eccessi e aberrazioni”. L’uomo del Risorgimento cui fa riferimento è il moderato Cavour. D’altro canto pesa la volontà e la convinzione che l’Europa vada conservata così com’è, subendo anche politiche economiche recessive, rispondendo positivamente alle ingiunzioni della Commissione e della Germania. L’incarico a Monti e al suo governo di “tecnici” è dettato da queste convinzioni e dall’idea che la sovranità popolare vada indirizzata a sostegno delle élite lungimiranti e competenti, i veri agenti del cambiamento o, meglio, dell’equilibrio del sistema che è sostanzialmente immodificabile.
Da ciò la coazione a ripetere la stagione vissuta nella sua gioventù, ossia quella dell’unità nazionale, indipendentemente dal contesto in cui si opera. All’interesse nazionale, che coincide con il rafforzamento dell’Unione europea, vanno sacrificati redditi, speranze, garanzie sociali e per far ciò occorre la solidarietà delle maggiori forze politiche. Peccato che tra esse ci sia il partito di Berlusconi; che Monti – malgrado l’appoggio del Presidente, delle cancellerie dei principali paesi del continente, delle tecnocrazia europei - lasci un paese prostrato e immiserito e non sia riuscito nella missione impossibile di rafforzare il polo dei moderati, rinunciando a quel ruolo di riserva della Repubblica che Napolitano gli aveva ritagliato addosso; che il Pd – grazie alla sua opera oltre che per propri demeriti - sia rimasto a marcire nell’appoggio al governo tecnico per quattordici mesi, perdendo le elezioni; che la vittoria della nebulosa 5 stelle abbia decretato ufficialmente la fine degli equilibri della II repubblica. Ciò nonostante il Presidente continua a predicare l’unità tra le principali forze politiche per il bene del paese e nelle prossime settimane, ne siamo quasi certi, farà di tutto per proseguire in altre forme, ma con gli stessi obiettivi l’esperienza del Governo Monti.
Per fortuna ha poco tempo. Il 15 aprile si voterà per il nuovo presidente e Napolitano lascerà l’incarico. Di fronte a chi invoca un suo secondo mandato ha ragionevolmente invocato le ragioni della carta d’identità. E’ vecchio, è giusto che si riposi e, soprattutto, che smetta di fare danni.

micropolis, marzo 2013

Scandali bancari. Cechov, cronista del crack Rykov (di Fausto Malcovati)

Il caso Rykov (Nottetempo, 2009) è un libro che raccoglie gli articoli di Cechov giovane cronista su un crack bancario che a Fausto Malcovati, che ne fu curatore e traduttore, ricordò il fallimento Parmalat. Ma con i tanti disordini bancari degli ultimi anni può far pensare a tante altre situazioni. Riprendo qui un articolo da "Tuttolibri" del traduttore, che spiega origini e significati della vicenda e dà conto della scelta di pubblicare in Italia.(S.L.L.)
Non ci fosse stato il crack Parmalat, mai mi sarei accorto di questo sconosciutissimo testo cechoviano, Il caso Rykov. La scoperta del testo fu del tutto casuale. Traducevo L'anniversario, atto unico cechoviano tra i più spassosi e indiavolati: protagonista e un direttore di banca che sta organizzando, tra mille intralci, la celebrazione del decennale dell'istituto. Si scrive da solo il discorso che verrà pronunciato dal presidente, con sperticati elogi della sua stessa gestione, si compra da solo pergamena e vassoio d'argento che i dipendenti gli offriranno nel corso della cerimonia, fa preparare dal segretario il bilancio adeguatamente truccato per far risaltare gli utili. A un certo punto la moglie, che gli fa una visita del tutto indesiderata, si lascia sfuggire una battuta su certi titoli comprati e rivenduti in modo non del tutto limpido: subito il segretario la interrompe, sibilandole che sono cose da non lasciarsi sfuggire mai, nemmeno in presenza del proprio marito. A quella battuta c'era un rimando del curatore: probabilmente, diceva, Cechov si riferisce qui agli articoli scritti in occasione del processo Rykov, vedi pagina tale del volume tale.
Il processo Rykov? Sì, il processo Rykov. Intanto una data: 1884, anno lugubre, funesto. Tre anni prima da una bomba terrorista era stato dilaniato Alessandro II, lo zar delle riforme, dell'abolizione della servitù della gleba: sembrava che la Russia avesse definitivamente imboccato la via della modernizzazione e, invece, quella bomba la fece ripiombare in un nuovo Medioevo. Alessandro III, il successore, inaugura un periodo di ottuso dispotismo, di repressione totale, di sanguinosi pogrom antisemiti, di umilianti restrizioni in scuole e università, di misure eccezionali per abbattere ogni forma di resistenza e autonomia. Ovunque violenza, rigore, censura, controlli, sospetti, abusi.
Proprio nel 1884, grazie a una delazione, viene arrestato e processato da un tribunale militare il gruppo dei terroristi autori dell'attentato, che fa capo a una donna, Vera Finger: sette condanne a morte (poi commutate in ergastolo). Anche la politica economica e finanziaria segue gli stessi principi: opprimere e sfruttare spietatamente i deboli, favorire e proteggere sfacciatamente i nobili.
Abusi, vessazioni, ma anche truffe, corruzioni, brogli, raggiri. A cominciare dal ministro delle Finanze Visnegradskij che attinge alle casse dello Stato e avvalla spericolate operazioni di Borsa, insensati investimenti.
Il 1884 è un anno cruciale per l'opinione pubblica russa: appena riavutasi dal processo ai terroristi, concluso in settembre, viene sconvolta da uno scandalo bancario senza precedenti. Il 22 novembre si apre un clamoroso processo per bancarotta fraudolenta. Al centro, una piccola banca provinciale di cui nessuno aveva mai sentito parlare, la banca di Skopin, nel Governatorato di Rjazan'. Un buco di svariati milioni di rubli. Le accuse: compravendite fasulle di titoli, giri assurdi di cambiali scoperte, emissioni di false obbligazioni, appropriazione indebita di capitale, corruzione di funzionari, sovvenzioni o ricatti a uomini politici; insomma, un groviglio inestricabile di connivenze, speculazioni, false informazioni, loschi traffici che coinvolse centinaia di piccoli risparmiatori, molti dei quali furono ridotti sul lastrico.
Il processo ha sulla stampa un'eco straordinaria: vi assistono giornalisti da tutta la Russia, fra cui un giovane alle prime armi, del tutto sprovvisto di cultura giuridica ma acuto osservatore della curiosa fauna che sfila in aula nei venti giorni di udienze, tra testimoni, imputati e giudici. E' Anton Pavlovic Cechov. Lette le pagine cechoviane, sono tornato con curiosità alle cronache del crack Parmalat. Per quel poco che continuo a capire di losche manovre bancarie, le cronache del processo Rykov mi sembrano un'impressionante anticipazione dei fatti italiani di circa centoventi anni dopo. Certo, la terminologia è cambiata (ma la sostanza è vergognosamente identica): oggi si parla di «finanza creativa», «titoli tossici» , «falsa liquidità», «comportamenti omissivi», «dati contabili del tutto inveritieri», «stato di insolvenza» e via dicendo. Quella che non è cambiata di un filo è la spudorata arroganza dei protagonisti che, in un caso come nell'altro, si protestano innocenti pur messi di fronte a prove e testimonianze o dichiarano con turpe ipocrisia (leggo le dichiarazioni di Calisto Tanzi, ma Rykov e la sua banda non erano da meno) di non aver mai pensato di danneggiare i piccoli risparmiatori con le loro truffe, le loro reticenze, i loro silenzi, le loro menzogne, le loro astuzie.
Lascio trovare al lettore ulteriori ignobili coincidenze. Resta la sua inimitabile arguzia nel cogliere gesti, toni, espressioni, tic dei personaggi che gli sfilano davanti, resta la sua instancabile curiosità nel riprodurre racconti, testimonianze, deposizioni, la sua leggerezza, la sua ironia nel cogliere l'ingenua semplicità degli innocenti, la sprezzante indifferenza dei colpevoli. Un esempio per tutti: il monaco che arriva dal suo eremo a raccontare come sia finito nella trappola di Rykov. E conclude: “E i miei soldi, signori giudici, adesso me li ridate?” 

“Tuttolibri – La Stampa”, 14-02-2009

Le verità di Fabrizio De André (Giovanni Vacca)

Di Giovanni Vacca, antropologo e etnomusicologo meridionale di valore, c’è già qualche pezzo in questo blog. Volevo qui trascrivere da un vecchio ritaglio di “alias” un suo bell’articolo occasionato da due libri su De Andrè, ottimo antidoto alla “canonizzazione” e omaggio a una grandezza che vive nella contraddizione e di contraddizione, ben diversa dal buonismo e anticonformismo all’acqua di rose tipico di commemorazioni alla Fazio. Ma di recente Vacca (cui invio sinceri auguri per i suoi intensi 50 anni) ha “postato” in pdf sul suo sito molti degli articoli scritti nell’ultimo decennio per il magazine del “manifesto” e, così facendo, mi ha semplificato la vita. Anche per questo arricchimento consiglio agli appassionati di “canzoni d’autore” e di musica popolare una visita al suo sito: sono certo che ne faranno più di una. (S.L.L.)
 

Quando Fabrizio De André morì, l'11 gennaio 1999, molti giornali e telegiornali aprirono con la notizia della sua scomparsa: l'artista genovese che per tutta la vita aveva cantato gli umili, i perdenti, le prostitute e i carcerati fu salutato da uomini politici e da opinionisti (in un processo di beatificazione che è poi proseguito nel tempo) come una sorta di padre della patria, un indimenticabile e delicato poeta che aveva messo in musica le ansie e le speranze di generazioni di italiani.
Non è chiaro se sia un corto circuito mediatico, o più verosimilmente una consapevole e sfacciata ipocrisia, a far sì che gli stessi media e gli stessi commentatori siano sempre pronti a sostenere aggressivamente tutto ciò che è esattamente il contrario di quello che De André ha detto nelle sue canzoni. Per esempio ironizzando su qualsiasi proposta di trasformazione sociale che non abbia una spendibilità concreta e immediata, o lanciando anatemi sulle attività terroristiche di «frange di anarco-insurrezionalisti» tutte le volte che sale il termometro della tensione sociale o ancora esponendo alla gogna televisiva ogni lavoratore dipendente sorpreso a bere un caffè in orario di servizio.
Colui che finanziava sistematicamente la stampa anarchica, che scrisse Il fannullone, e che cantò i moti del '68 è insomma, viene da costoro (e non stiamo parlando solo della parte spiccatamente conservatrice del paese ma anche di quel centrosinistra pragmatico e sempre attento a pericolose derive radicali), riportato periodicamente all'ordine e prosciugato con disinvoltura da fastidiose escrescenze sovversive.
A rimettere un po' le cose al loro giusto posto stanno pensando alcuni tra i molti libri usciti sul cantautore genovese dopo la sua morte: se è vero che si è forse ecceduto in quantità, è doveroso dire
che quasi tutti questi volumi, pur nel consueto tono elogiativo, presentano motivi di interesse, indagando ognuno un aspetto della complessa personalità di colui che è stato senza dubbio alcuno il più brillante cantautore italiano: chi la biografia, chi la religiosità, chi i singoli album, chi le sue ascendenze letterarie, chi la musica.
Tra i tanti, due sono particolarmente singolari: Fabrizio De André raccontato da Massimo Bubola, intervistato dal giornalista Massimo Cotto (Aliberti Editore), e Volammo davvero, a cura della Fondazione Fabrizio De André Onlus (Bur). Il primo ha il merito di dare la parola a un autore di valore che con De André ha composto due album interi e la saga di Don Raffaé: il libro è interessante perché nelle parole di Bubola vengono rivelate molte fonti e molti significati reconditi di alcune delle più belle e celebrate canzoni della seconda fase della vita artistica di De André (quella, come vedremo, segnata dall'impegno politico più diretto e esplicito). Il secondo, scritto a più voci (e curato dalla Fondazione De André che, come recita la copertina, «finalizza tutte le sue energie al no profit») ha il merito di raccogliere una serie di interventi che mirano a restituire la dimensione politica, e più propriamente anarchica, all'artista genovese pur non disconoscendo le mille suggestioni comprese nella sua opera, tra cui quella indiscutibilmente cristiana a cui molti riconducono quasi in toto l'essenza ultima della sua ispirazione.
È vero, infatti, che in De André è presente una matrice cristiana, e lo stesso cantautore non ha mai nascosto la sua ammirazione per il messaggio sociale di Gesù,ma è vero anche che la sua insistenza ossessiva sui diseredati, i ladri e gli emarginati, la solidarietà e la comprensione che egli mostra anche per le azioni più efferate dei suoi personaggi (e non si dimentichi la difesa dei suoi stessi carcerieri che egli fece una volta liberato dopo il sequestro che subì in Sardegna nel 1979 insieme alla futura moglie Dori Ghezzi) rivelano un'assimilazione profonda degli aspetti anche più estremi del pensiero politico anarchico, e questo non va taciuto e non va dimenticato: per Michail Bakunin, infatti, sono proprio i delinquenti, i derelitti, i carcerati, che avrebbero dovuto costituire, insieme alle masse contadine, una parte consistente della forza d'urto della rivoluzione, così come era avvenuto nell'insurrezione spagnola del 1873 a Cartagena sostenuta proprio dai seguaci di Bakunin quando, al fine di ottenere con una nuova costituzione la divisione della Spagna in cantoni indipendenti, il governo locale mise in libertà circa duemila forzati per ingrossare le fila dell'esercito di liberazione (fatto che fu poi duramente criticato da Friedrich Engels). E che Fabrizio De André abbia letto e amato la letteratura libertaria è cosa nota (nel cd Ed avevamo gli occhi troppo belli, pubblicato nel 2001 dalla rivista anarchica A, ad esempio, sono riprodotte alcune pagine di una storia dell'anarchia commentate e chiosate a matita dall'artista).
De André ha dunque avuto due anime: una atemporale e «cristiana», che risale soprattutto alla prima parte della sua produzione (dai primi anni Sessanta alla metà dei Settanta), l'altra più contingente e «politica», dall'album Storia di un impiegato (1973) in poi. Nelle canzoni del primo periodo, dove l'influenza del grande chansonnier francese Georges Brassens è più forte, prevalgono scenari medievali, figure simboliche sganciate da riferimenti precisi all'attualità o al massimo ispirati da qualche fatto di cronaca (Bocca di rosa, Miché, Marinella) e personaggi storici trasfigurati e proiettati nel mito (Carlo Martello, Giovanna D'Arco) che mirano a mostrare i vizi e le viltà del potere e le ragioni dei poveri, dei diseredati, degli oppressi. È in questo periodo che risalta maggiormente la «religiosità» di De André, il suo scetticismo per l'azione politica, la sua pietas incline al perdono e al gesto solidale immediato; ed è senz'altro questa la parte dell'opera di De André che piace di più all'establishment, quella che è più facile opacizzare e «recuperare». Nelle canzoni del secondo periodo, invece, pur non abbandonando del tutto il punto di vista precedente, il cantautore genovese sembra calarsi sempre di più nel paese reale, dalla riflessione sui fatti del '68 in Canzone del maggio agli scontri di piazza del '77 in Coda di lupo, dalla ripresa del brano di Francesco De Gregori Le storie di ieri, sul pericolo del neofascismo, fino a La domenica delle salme, incisa nel 1990 quando, con impressionante lucidità, seppe prevedere una nuova stagione di protesta dopo anni di conformismo e di riflusso, cosa che puntualmente avvenne di lì a poco con il movimento universitario della «Pantera» e l'esplosione del fenomeno dei centri sociali e della nuova canzone militante a ritmo di rap.
È evidente, insomma, che nei primi anni Settanta l'artista cambiò linea, sposando la causa del nuovo proletariato intellettuale urbano fatto di studenti, disadattati e precari prodotti dai processi di vorticosa mutazione che la società italiana stava all'epoca vivendo. E se a un primo momento questo potrebbe sembrare dovuto alla sempre più stretta collaborazione con altri autori (Giuseppe Bentivoglio, Massimo Bubola) è più probabile che De André abbia invece risentito delle critiche che molti gli rivolgevano per il suo isolamento da intellettuale chiuso in una torre d'avorio e abbia deciso, avrebbe detto qualcuno, di «scendere in campo». Poi, oltre al De André artista e militante anarchico, esiste il De André imprenditore, creatore di un lussuoso agriturismo per ricchi nei monti della Sardegna e protagonista di costosi concerti in teatro a prezzi inaccessibili non solo per gli umili e gli sconfitti che popolano le sue canzoni ma anche per un qualsiasi cassintegrato; ed esiste, infine, il De André dalle uscite poco felici: «ho pur sempre un'azienda agricola che va seguita perché non posso un domani dire ai miei figli 'vi saluto e vi lascio cinquanta canzoni per uno', perché nel mio repertorio non compaiono canzoni come Bianco Natale, vale a dire canzoni che dal punto di vista dei diritti d'autore riescono a rendere ricche due o tre generazioni». Ma tutto questo fa parte delle grandi contraddizioni dell'artista, alle quali, se un autore va giudicato per la sua opera, forse neanche bisogna pensare.

“alias – il manifesto”, 31 marzo 2007

28.3.13

Gauguin e Pellizza da Volpedo. Due fallimenti (di Claudio Strinati

Da un più ampio articolo dal "manifesto" riprendo la prima parte, rievocazione di un momento di crisi del sistema culturale e artistico e individuazione del "tema" che lo percorre attraverso due vicende esemplari. (S.L.L.) 
Il 3 agosto 1893 Gauguin approdava a Marsiglia. Veniva da Tahiti dove si era recato due anni prima alla ricerca di un luogo felice, un approdo dove ritrovare l'età dell'oro in contrapposizione all'Europa, dominata dal denaro e dall'avidità.
Ma dell'ansia utopistica del maestro restava l'aspetto penosamente paradossale: allo sbarco aveva con sé solo quattro franchi. Li usò per telegrafare a un amico e chiedergli aiuto.
Pochi anni dopo un altro emblematico fallimento confermava uno stato di sofferto disagio, cui qualunque artista desideroso di uscire dal proprio ambito sembrava destinato. Ma questa volta con un esito ben più tragico e, in un certo senso, definitivo.
Il 14 giugno 1907 Giuseppe Pellizza si suicida nel suo studio, a Volpedo. La storia di questo artista ha una singolare vicinanza con quella di Gauguin. Entrambi ritengono di identificare, ad un certo punto della loro carriera, uno spazio e una funzione in cui realizzare l'attività artistica, non più derivanti dall'educazione ricevuta ma anzi vertiginosamente lontani. La ricerca di una uscita di sicurezza in cui l'arte potesse assumere di nuovo quella importanza determinante persa nel proprio ambiente di appartenenza. Le scelte dei due artisti furono analoghe nelle motivazioni di fondo ma opposte nei contenuti. Gauguin ritenne che la pittura dovesse cambiare linguaggio, anche letteralmente, tanto che i suoi quadri ‘parlano’ in senso proprio ma in lingua tahitiana.
Volle immergersi in un ambiente che non sapeva nulla della storia europea; la sua fu una ipotesi di rigenerazione etica che respingeva la storia.
Il fallimento tuttavia era implicito nelle premesse. Gauguin non potè cambiare una lingua sedimentata in lui.
Pellizza voleva invece l'opposto: fare un'arte che riflettesse la realtà della storia sociale italiana, dal punto di vista delle classi subalterne. I suoi tahitiani sono i lavoratori, gli umili, e con questi volle identificarsi, anche sul piano esistenziale. Era nato nel borgo di Volpedo, figlio di agricoltori proprietari.
Poco più che ventenne, dopo una formazione accademica di alto livello, era rimasto impressionato dai grandi rivolgimenti sociali dell'ultimo decennio dell'Ottocento e aveva deciso di diventare artista popolare nel senso più profondo fino a inglobare il nome del suo paese nel proprio: sarebbe stato ricordato come Pellizza da Volpedo.
Scelse di vivere in quel luogo, sposò una contadina del posto.
Avvertì, come pochi altri nel suo tempo, l'urgenza della rappresentazione di quelle folle di lavoratori cui tanti pittori e scultori prima di lui si erano accostati, nell'ottica di un coinvolgimento della funzione artistica nelle tematiche reali della vita sociale. Lunghissima fu l'elaborazione del Quarto Stato, l'opera che emblematicamente apriva il nuovo secolo (fu compiuta nel 1901) e da cui il maestro si aspettava un altissimo trionfo.
Invece fu un disastro. Il pittore la presentò nell'Esposizione di Torino del 1902 e il solo Giovanni Cena tributò un sincero apprezzamento.
L'anno dopo Pellizza scrivendo a P.L. Occhini (come ha rammentato Maria Mimita Lamberti) constata il fallimento dell'arte sociale: «ho assai tema dei soggetti in cui entra la sociologia e peggio la politica; perché oltre che l'arte parmi possa escirne menomata essi invecchiano col volgere di poco tempo».
Gli ultimi quattro anni non potrebbero essere più tipici. Pellizza decide di tornare al paesaggio, tema assai meno pericoloso. Nel 1904 dipinge il Sole (oggi a Roma, Galleria nazionale d'arte moderna e contemporanea), poi va a Roma, nel 1907 muore.
Due anni dopo comincia il Futurismo.
Nel confronto tra il Quarto stato e i dipinti dei cosiddetti Stati d'animo che Boccioni esegue nel 1911, nel momento di massima tensione del movimento futurista, è contenuta larga parte di una problematica artistica che la sconfitta di Gauguin e di Pellizza può permettere di comprendere.
E’ un contrasto che attraversa molti aspetti dell'arte ottocentesca e culmina in un singolare concetto che sempre più esplicitamente occupa il dibattito estetico sul finire del secolo: quello della inattualità, dell’essere o del sentirsi non ancora o non più consoni alla propria epoca.

"il manifesto", 11 maggio 1986
 

Brecht su Rimbaud. A proposito del "Bateau ivre"

Così si espresse Bertolt Brecht a proposito del Bateau ivre di Rimbaud nella sua Conversazione con  Walter Benjamin: "Anche Marx e Lenin, se avessero letto questa poesia, vi avrebbero letto il grande movimento storico di cui essa è espressione. Avrebbero capito benissimo che essa non descrive l'eccentrica escursione di un individuo, ma la fuga, il vagsbondaggio di un uomo che non sopporta più i limiti e le angustie di una classe sociale che (con la guerra di Crimea, con l'avventura messicana) comincia ad estendere i suoi interessi mercantili anche alle regioni esotiche".

Marcello Dell'Utri, Piero Grasso e gli schizzi di fango.



Il 29 novembre 2004, alla fine del processo in cui era imputato per associazione mafiosa, poco prima che si riunisse la Camera di Consiglio, Marcello Dell'Utri volle rendere una dichiarazione spontanea. Tra l'altro disse: "Il procuratore Grasso, quando era giovane, giocava a calcio nella mia squadra, la Bacigalupo, ed era famoso perchè a fine partita usciva sempre pulito dal campo: anche quando c'era il fango, lui riusciva sempre a non schizzarsi...".

Esotismo. Nostalgia per l’Altro che abbiamo distrutto (Girolamo Imbruglia)

Il sintetico testo che segue, tratto da una “talpa” del manifesto dedicata all’esotismo, ne descrive una sorta di genealogia, collegandola alla nascita di una nuova economia-mondo il cui spazio si estende dall’Estremo Oriente alle Americhe. L’autore è oggi docente all’Università Orientale di Napoli, ove insegna Storia dei paesi di lingua inglese. (S.L.L.)
Paul Gauguin - Disegno dai diari di viaggio a Noa Noa
Singolare destino ebbe Cristoforo Colombo. Scopritore ma non eroe eponimo dell'America, la sua relazione fu nel '500 oscurata da quella di Amerigo Vespucci.
Ancora uomo del XV secolo, Colombo era animato dal fervore umanistico di dialogare con altre culture, di realizzare una universale armonia di voci, dopo che per secoli l'Europa aveva dovuto difender sé più che attaccar altri. Alla fine del '400 quest'equilibrio si ruppe.
L'Europa scoprì una nuova economia-mondo, il cui perno stava non più a Venezia ma in Olanda e Inghilterra. Dal mondo chiuso del Mediterraneo si passò agli orizzonti oceanici.
Comparve la nuova economia «capitalistica», che imponeva nuovi atteggiamenti, provocata pure da nuovi desideri.
Avidità e ambizione, sete di ricchezze e di gloria, desideri di onore e potere, uomini a mezzo tra volpe e leone: si affermavano passioni nuove e forme diverse di saperi e conoscenze; si esprimevano nuovi immagini di società per dare adeguate leggi a queste nuove energie.
L'Utopia di Moro, il Principe, Lutero davano voce a questi sogni e facevano vedere quale fosse l'antropologia dell'epoca.
Il mondo nuovo s'avvicinava dall'interno; era un futuro che pareva venire dalle remote lontananze del passato originario, dal fondo della natura. Questo fu lo scenario della scoperta delle Indie.
La rete di relazioni sociali di tipo borghese che allora si affermava ricevette, come disse Marx, straordinario impulso dalle scoperte; ma quelle scoperte pure cercò e a quelle mise il segno dei nuovi rapporti umani: non il dialogo ma il dominio, la lotta per esser o servi o padroni.
Per questa ragione Colombo non fu creduto. La sua America era un mondo troppo vicino all'Europa, al punto da costituirne la perfezione.
Parve a lui la terra del paradiso; gli indios, belli, miti, religiosi, erano facili da cristianizzare. Aveva lì trovato la conferma del millenarismo dell'Apocalisse.
Insieme al venir meno della tensione escatologica, pericolosa per la chiesa di Roma, anche questa omogeneità non fu accettata.
Il disagio della propria civiltà, lo sbigottimento e la difficoltà di comprendere le nuove realtà dell'Europa, la necessità di ancorare i propri bisogni e desideri quanto più al sicuro tanto più lontano dalla propria vita, guidarono la cinquecentesca scoperta dei selvaggi e dell'Oriente.
Dopo l'affermazione della religione monoteista, il secondo grande evento nella formazione dell'individuo moderno fu, per Freud, proprio l'incontro con gli indios.
Ma per essere l'ideale di felicità, dovevano rappresentare l'Altro.
America e Oriente furono scoperti insieme. Nel 1498 Vasco de Gama era a Calicut, l'Oriente favoloso del Milione era raggiungibile per la via più sicura, il mare.
Lì v'era la più antica sapienza; lì ori e perfette culture di remote civiltà. Al contatto, il mondo americano sembrò l'infanzia della storia universale, privo del sole della ragione. Popoli selvaggi. Là erano anche barbari.
Gli americani per Vespucci «vivono secondo natura»: valore bestiale, ch'era assenza di gerarchia e pratica di incesto.
Quel che Colombo aveva giudicato innocenza è ora colpa. La natura si svela ambivalente: pura, poteva esser impura; modello, poteva essere uno spaventoso fantasma da controllare. Più rassicurante il mito d'Oriente.
Durer, nel 1515, introdusse nell'Arco trionfale per Massimiliano I una nota extraeuropea: i suoi stupendi indiani furono, appunto, la gente di Calicut, che ben si addiceva al potere imperiale.
Nel lungo confronto con le due Indie, l'Europa cercò quindi di raggiungere la verità della propria natura e di quella degli altri popoli.
L'esotismo nacque quando venne meno questa tensione, per celebrare la piatta realtà. In questo senso, prima forma di esotismo fu quello cristiano. Esotismo negativo, i missionari si diedero il compito di giustificare la Conquista. La forza era bastata, occorreva pure inventare il diritto.
Per il gesuita Acosta, v'era una progressione discendente. In alto gli orientali, che avevano uso di ragione; in mezzo i Peruviani e Messicani, rozzi ma non incolti; in basso gli indios, senza re leggi dio. Più bestie che uomini, costoro vivevano in gruppi animaleschi tenuti insieme dalla «libido». Giusta era la civilizzazione anche forzata di tali uomini senza umanità e sovranità.
Anche se talora i Gesuiti mitigarono la furia coloniale europea, se ebbero conoscenze precise di usi di popoli poi annientati, il loro mito del cattivo selvaggio fu esotismo, strumento di una filosofia della storia totalizznte, solidale dello sterminio e della colonizzazione di quei popoli.
Contemporaneo di Acosta, Montaigne avviò invece il pro¬cesso critico di comprensione dell'Altro, rispettoso della differenza. Suo punto di partenza fu l'opposto mito del buon selvaggio, che si risolse in critica dell'eurocentrismo. Gli indios erano selvaggi ma non barbari. La nozione di barbarie non era un valore assoluto, ma un giudizio reciproco, circolare, frutto di educazione e pregiudizi. Tali la religione e la politica.
Per sfuggire alla spontaneità delle passioni emerse allora l’idea della ragione naturale. Dopo aver così svincolato la recto ratio dalla religione, questo primitivismo mise in crisi anche il dogma del nesso tra società e Stato. La società selvaggia come nuova età dell'o¬ro fu un'utopia che servì a pensare non lo Stato perfetto, ma la società senza Stato.
La naturale tendenza umana a vivere in società fu ancorata da Locke in una società selvaggia, pacifica ma priva di magistrati e di leggi perché priva di proprietà privata e ricca di beni naturali, i cui capi non avevano che potere militare. Quanto più si fece felice ipotesi interpretativa, tanto più questo modello perse di valore utopico. Per poter sussistere - disse Montesquieu –t ale società selvaggia aveva bisogno d'esser piccola di volume, in grado di vivere di poca agricoltura ma di molta caccia e raccolta. Non era utopia adeguata al mondo moderno: per il quale l'utopia divenne la repubblica democratica.
Proprio l'individuazione del nuovo spazio, politico, per l'utopia permise a Diderot di utilizzare ancora il modello primitivistico rinascimentale. In uno dei due più bei testi del 700 sui selvaggi, il Supplemento al viaggio di Bougainville (l'altro è il Discorso sulla disuguaglianza di Rousseau), il selvaggio di Tahiti è l'uomo non più vittima delle proprie credenze, cui la paura della morte e della vita non soffoca la gioia di esistere; in armonia con sé, trova con il gruppo linee di raccordo che non sacrificano la sua felicità.
In quel mondo ancora fuori della storia, Diderot indagò la fondazione della dialettica tra natura e cultura; si avvicinò nella prospettiva delle scienze umane, alla realtà individuale
Per la prima volta l'individuo non è più ineffabile. Se ne vedono i fantasmi e le forze interne, se ne afferma soprattutto l'esigenza di felicità e libertà. Da qui, Diderot criticò l'idea di specie e la tesi dell'omogeneità psichica del genere umano. Così come Rousseau, che pure difese l'irriducibile diversità d'ogni nazione e d'ogni uomo.
Anche la società selvaggia è però toccata dalla storia, dunque dalla dialettica verità-alienazione. L'uomo originario andava trovato oltre di quella, dal momento che il selvaggio è «crudele». Un lungo arco di riflessione sull'Altro e su di sé si concludeva qui.
Ma questa teoria critica, momento culminante di tale travaglio, fu subito accantonata. Altre le esigenze. Il rispetto delle diversità si fece suo sfruttamento: razzismo. La critica all'etnocentrismo fu rimossa: Condorcet chiese l'eliminazione delle ultime tribù per favorire il progresso generale. Nell'affermazione piena di sé, gli Europei non sentivano più il bisogno dell'Altro: ne restò la nostalgia.
La nuova, secolarizzata filosofia della storia esigeva l'universalismo e la logica della necessità dello sviluppo. Ritornò, allora, laicizzato, l'esotismo.
Il filone esotico nell'arte, esiguo nel 700 che cercò di non europeizzare i selvaggi o l'Oriente, si andò rinforzando. Se il Flauto magico è una straordinaria riscoperta dell'ambiguità del mito orientale, I pellegrini della Mecca di Gluck o il Fernando Cortez di Spontini sono gli infelici prodromi di quel diluvio di esotismo che si avrà in Francia dal 1830. L’epoca, appunto, di Gobineau.

“la talpa – il manifesto”, 27 luglio 1989

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