Gianni Barro è stato prima uno dei più tenaci combattenti per la riforma sanitaria, poi uno dei massimi dirigenti della sanità umbra. Dicono gli esperti che come tecnico fosse bravissimo.
Io l’ho conosciuto come compagno del Pci. Pare che sotto Stalin fosse stalinista entusiasta (era mal comune) e che ancora nell’indimenticabile 56 fosse assai critico con chi criticava l’ingessamento burocratico-autoritario del partito e con calore giustificasse i carri armati in Ungheria (della cosa ho trovato casualmente qualche traccia sulle pagine regionali del “l’Unità” in quei giorni). Quando io ho cominciato ad avere rapporti con lui, nel Pci che andava a sciogliersi, l’ho trovato molto “di destra”. Non si contentava della “svolta” di Occhetto, pretendeva un più chiaro approdo socialdemocratico e non nascondeva qualche simpatia per Craxi; non era ancora venuta alla luce Tangentopoli e di Craxi non si conosceva ancora interamente la natura di mariuolo. Insomma, era sulla linea dei miglioristi, forse oltre i miglioristi. Questa scelta, sottolineata da un caloroso intervento congressuale, non gli impedì, nell’anno abbondante che intercorse tra la svolta e il congresso di Rimini che sancì lo scioglimento del partito comunista e la nascita del Pds, di interpretare un ruolo positivo nel dibattito interno. Nel febbraio del 1990 l’imminente scelta - storica si diceva - irrigidiva le posizioni: tra i sostenitori del “sì” e del “no” ci si parlava appena, si strutturavano le correnti (le si chiamava “mozioni”): la mozione 1 (Occhetto e Napolitano), la mozione 2 (Ingrao e Natta), la mozione 3 (Cossutta), ciascuna con i suoi coordinatori.
Gianni provò a fare un’operazione controcorrente, una sorta di associazione interna al partito che andava al di là delle correnti e che voleva approfondire e dibattere le questioni politiche e programmatiche a prescindere dalle collocazioni attuali (o anche future) dei compagni. Si chiamava “Porto franco” e vi aderii anch’io: mi è sempre piaciuto confrontarmi con chi la pensa diversamente da me. Non fummo in tanti a partecipare alle riunioni dell’associazione: ricordo che ci venivano Mimmo Gambuli, Manuali, Lorena Rosi Bonci. Pure si fecero discussioni di peso. Quella che meglio ricordo riguardava gli effetti economici, sociali e politici della rivoluzione telematica in atto e del telelavoro e sul modo di orientarli e governarli da sinistra.
Dopo la fine del Pci l’avevo perso di vista, poi l’ho trovato assiduo e, più d’una volta, “interventore” nei dibattiti che organizzavamo come “micropolis” e “Segno critico”. Nel Pds –Ds egli incarnava l’orientamento più “ulivista”, nel Pd quello “riformista liberal”, almeno nelle intenzioni, spesso pensando a “riforme” che tolgono o “spalmano” diritti sociali per rendere più efficiente il sistema. Su questa linea Barro ha tentato con alterni successi di promuovere associazioni (ultima le “Lettere riformiste”) e dibattito. Per ovvie ragioni né io né i compagni di “micropolis” andiamo d’accordo con l’impianto generale del discorso di Barro (il che non ci impedisce di apprezzare qualche posizione particolare). Ma Barro, a differenza dei capi e capetti del suo partito esperti solo in manovre di corridoio e uscite mediatiche, crede nel dibattito e lo sollecita. Anche per questo “micropolis” ha riservato al suo impegno qualche attenzione.
Barro, tra l’altro, non è in senso stretto un “nuovista”; è, anzi, una sua fissazione la ricerca nel Novecento le radici del “nuovo” riformismo di cui va in caccia. E’ capitato a me di dar conto, criticamente, di questo suo affannarsi su “micropolis”, in diverse occasioni. In questo “post” ripropongo due “battaglie delle idee”, la prima del 2005, la seconda del 2009, che mi paiono mantenere una qualche attualità (S.L.L.)
---
Radici (" micropolis" - settembre 2005)
La Commissione Comunicazione e Formazione dell’Unione comunale dei democratici di sinistra di Perugia ha proposto, in occasione della festa cittadina dell’Unità, una mostra intitolata Radici e rami del riformismo umbro tra le due guerre mondiali. Galleria di ritratti.
Gianni Barro, l’ideatore, ne ha curato il testo con la consulenza di Serena Innamorati e Raffaele Rossi, Francesco Imbimbo ha reperito e selezionato la documentazione fotografica. Si tratta di dodici pannelli, ciascuno dedicato ad un presunto “riformista” del secolo scorso, di cui presenta una foto gigante, corredata da un breve testo che ne presenta la vita e la personalità. Il tutto è preceduto da una introduzione che spiega gli scopi e i criteri della mostra.
C’è di sicuro qualche eccesso di enfasi nuovista (“siamo... in un’epoca nuova e piena di arcani non privi di fascino ... ben poco di ciò che ci ha consegnato il passato può essere utile...”), ma l’intenzione appare lodevole: fare riscoprire, soprattutto alle giovani generazioni, la storia, in particolare “le radici e i rami di un modo di pensare”. Perché per l’autore del testo il “riformismo” è appunto un modo di pensare, cioè un metodo, che, in qualche modo, prescinde dai fini, anche perché “il metodo (e i mezzi che lo connotano) unisce, il fine divide”. Si tratta di un ribaltamento della nota tesi di Machiavelli, per cui in ogni azione andrebbe valutato primariamente “el fine”. Date le premesse è ovvio che nella mostra stiano insieme personalità di radice culturale assai diversa, “socialista, cattolica, liberale, laica...”, recita, con una omissione evidentissima (freudianamente rivelatrice?), quando si scopre che nella galleria sono inseriti fior di comunisti stalinisti come Alunni Pierucci, Farini e Grieco.
Nella mostra prevalgono in ogni caso i socialisti riformisti, tra cui Franceschini, Laureti e Francescangeli, e ci sono anche un prete (tal Piastrelli, modernista pentito) e una figura ambigua come Cingolani (in origine popolare sturziano ostile ai connubi “clerico-moderati”, ma poi sottosegretario nel primo governo Mussolini; senatore democristiano nel secondo dopoguerra, infine iscritto alla Loggia P2).
I curatori hanno di sicuro presente il rischio della “parzialità” e delle inevitabili omissioni, ma con questo “campione” hanno voluto fornire un saggio di quello che è per loro, oggi, il riformismo possibile e necessario. Barro non lo nasconde anche in altre sedi: li vuole tutti uniti i “riformisti”, senza che li dividano miti o fini. Il rischio di una subalternità alle scelte delle classi dominanti è evidente, perfino su questioni essenziali: la guerra o la politica dell’impero americano, le disuguaglianze o lo Stato sociale, etc.
Uno che veniva anche lui dal Pci e che aveva scelto il riformismo, come Napoleoni Colajanni, di recente scomparso, in un libretto scritto in collaborazione con Marcello Villari nel 2004 (Riformisti senza riforme, Marsilio editore) così si esprimeva: “Come diceva il Giusti di certi rivoluzionari, vogliono fare la rivoluzione coprendosi i coglioni... Come può un riformista, una persona di sinistra, accettare una globalizzazione dominata dagli Stati Uniti?”. Io credo che, coprendosi i coglioni, non si fa né la rivoluzione né la riforma. Se si prescinde dal fine di cui parla Machiavelli, anche il mezzo cessa di essere tale e la politica diventa pura tecnica. Venuti meno i fini l’unica alternativa resta “il particulare” di Guicciardini: le carriere, gli onori, i denari, le famiglie. E’ ancora il riformista Colajanni a scrivere: “Per la ripresa del riformismo, il primo problema da affrontare è la crisi della politica, ma di questo tema così essenziale per la sinistra non si sono mai occupati, per la ragione che sono parte integrante della crisi della politica”.
C’è dell’altro però: in questo riformismo che mette radici e rami dappertutto opera anche un riflesso antico, di matrice staliniano-togliattiana. Baffone, ad un certo punto, pretese che la sua Urss incarnasse tutte le “migliori” tradizioni e culture dell’anima russa; il “migliore”, dal canto suo, voleva che la politica del suo Pci sussumesse tutto il passato progressivo della “nazione”, dal liberalismo cavouriano a quello crociano, dal cristianesimo democratico al cattolicesimo liberale.
Era il tempo in cui il giovane Berlinguer e Grieco (guarda un po’ chi si rivede?), nell’opuscoletto su Gesta e eroi della gioventù d’Italia indicavano a modello il comunista Eugenio Curiel e santa Maria Goretti.
Siamo in un’epoca nuova piena d’arcani, ma le radici rimangono e si riconoscono.
---
Le rose e l’abisso ("micropolis" - aprile 2009)
Intorno al Pd fioriscono le associazioni e nessuna ama calpestare il cortile e frequentare i temi “bassi” della politica, tutte vogliono volare alto e, se proprio devono mettere i piedi sulla terra, preferiscono percorrere gli orti di Accademo in compagnia dei dotti. Il giorno dei filosofi, in spregio alla superstizione, è stato venerdì 17, quando ben 4 associazioni 4 (Rose Rosse d’Europa, Pensare democratico, Red, A Sinistra) a Perugia nel Palazzo della Provincia dibattevano su laicità, Europa e diritti con l’ermeneuta Massimo Adinolfi, docente all’Università di Cassino, e il metodologo Enzo di Nuoscio che ammaestra alla Luiss. Si sono affidati invece agli storici Gianni Barro e i suoi amici per inaugurare ufficialmente le Lettere Riformiste Altiero Spinelli, l’associazione che nasce da un’esperienza di comunicazione elettronica. Mercoledì 22 pomeriggio tre rossi cartelli addobbavano l’ingresso del salone d’onore di Palazzo Donini per presentare l’immagine e un sintetico profilo di quelli che erano chiamati “i nostri maestri”, August Bernstein, Altiero Spinelli e Pietro Scoppola. Il cartello dedicato all’antico rappresentante della socialdemocrazia tedesca si chiude con una citazione che avrebbe potuto tranquillamente essere un Togliatti del ’45-46, di quando cioè chiamava a raccolta nel Pci i giovani intellettuali di formazione crociana: “Non c’è nessuna idea nel pensiero liberale che non possa essere fatta propria dal socialismo”.Maria Rita Lorenzetti, di cui gli inviti annunciavano la presenza, non c’è. La presidente è ospitale, ma non accogliente, in pratica si è limitata a concedere la sala; Barro comunque la ringrazia. Tocca poi agli oratori ufficiali, tre professori di storia, che proporranno le loro “considerazioni attualizzate” rispettivamente su Bernstein, Spinelli e Scoppola: Fabrizio Bracco, Luciano Toschi, Mario Tosti. Il primo, agile e comunicativo, spiega che il socialista tedesco, padre del “revisionismo” e autore del primo tentativo di connettere teoricamente socialismo, liberalismo e democrazia, era tutt’altro che il socialtraditore che stalinisti e maoisti immaginavano nel ’68 e che negli anni della Grande Guerra seppe battersi per la pace in sintonia con Rosa Luxembourg. Toschi è più legnoso e tuttavia la sua puntuale comunicazione dà conto di una battaglia, quella per l’Europa federale, che ha i suoi alti e bassi, di una personalità che non rifugge dal compromesso che ritiene necessario, ma che, sa essere radicale quando la situazione lo richieda.Più vago è il profilo di Scoppola cattolico democratico, degasperiano oltre il degasperismo, tracciato da Tosti, che si dilunga su una sua visita in casa Giuntella. Il pantheon di Lettere Riformiste in ogni caso risulta abitato da personalità più che rispettabili, il problema è caso mai un altro: che non si parlano. Tra le tre relazioni, infatti, non c’è interlocuzione, non c’è punto di contatto, segno che l’amalgama tra le culture è assai difficile e ancora tutto da realizzare. C’è di più e di peggio. Operazioni come queste delle numerose associazioni perugine (temiamo che siano più le associazioni che gli associati) sembrano fatte apposta per rimuovere il vuoto di progetto politico e di capacità di opposizione e le lotte al coltello tra correnti, gruppi e singoli per posti, prebende e candidature che caratterizzano la formazione politica guidata da Franceschini. Viene in mente l’aureo verso di Umberto Saba: “Quante rose a nascondere un abisso”.