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Giovanni Grasso negli anni Venti del Novecento |
Nei Racconti di Odessa
di Isaak Babel è presente un
racconto dedicato ad un grande attore siciliano, Giovanni Grasso, che
– ancora giovanissimo – intorno al 1910 fece una trionfale
tournée in tutte le Russie. Ne era tornato con doni e onorificenze
ricevute dallo zar in persona e con un sacco pieno di rubli che rovesciò
sul tavolo della sua mamma, colpevole di non aver mai creduto nel talento del figlio
e nella carriera che aveva scelto. Sciascia secrisse del viaggio
di Grasso e del racconto di Babel in una paginetta all'interno di un
ampio articolo su La Sicilia nel cinema (ora in La corda pazza, Einaudi, 1970), e la pagina in questione è reperibile anche su
questo blog. Il racconto si intitola Di Grasso:
per un errore della memoria il narratore ha lievemente cambiato
cognome all'attore siciliano, di cui però si riconosce perfettamente
la famosa presenza scenica e il grande temperamento. Il resto,
compresa l'immagine della Sicilia che se ne ricava, è tutto da
leggere e non mi spiacerebbe qualche commento. (S.L.L.)
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Isaak Babel |
Avevo quattordici anni.
Appartenevo all'impavido corpo dei bagarini. Il mio padrone era un
truffatore con l'occhio sempre accigliato ed enormi baffi di seta. Si
chiamava Kolja Schwarz. Sono capitato da lui nell'anno sventurato in
cui a Odessa è fallita l'opera italiana. Dando retta ai critici del
giornale, l'impresario non ha scritturato in tournée Giuseppe
Anselmi e Tito Ruffo e ha deciso di limitarsi a un buon ensemble. Per
questo è stato punito, è fallito, e noi con lui. Per rimettere le
cose a posto ci hanno promesso Saljapin, ma Saljapin ha chiesto
tremila per sera. Al suo posto è venuto l'attore tragico siciliano
Di Grasso con la sua compagnia. Li hanno portati in albergo su carri
pieni di bambini, gatti, gabbie nelle quali saltellavano uccelli
italiani. Vedendo questa zingarata, Kolja Schwarz ha detto:
“Ragazzi, non è
cosa...”
L'attor tragico dopo
l'arrivo s'è diretto al mercato con la sporta. La sera - con
un'altra sporta — s'è presentato a teatro. Al primo spettacolo si
sono presentate sì e no una cinquantina di persone. Noi vendevamo i
biglietti a metà prezzo, ma non trovavamo acquirenti.
Quella sera recitavano un
dramma popolare siciliano, una storia banale come l'avvicendarsi del
giorno e la notte. La figlia di un contadino ricco si sposava con un
pastore. Gli era fedele finché dalla città non veniva un signorino
col gilet di velluto. Chiacchierando col nuovo venuto, la ragazza
sghignazzava a sproposito e si zittiva a sproposito. Ascoltandoli, il
pastore girava la testa come un uccello spaventato. Per tutto il
primo atto si schiacciava alle pareti, se ne andava non si sa dove
con i pantaloni sventolanti e, tornando, si guardava intorno.
"Un mortorio"
ha detto Kolja Schwarz nell'entr'acte "roba che va bene per
Kremencug..."
L'entracte aveva lo scopo
di permettere alla ragazza di maturare al punto giusto per il
tradimento. Nel secondo atto non la riconoscevamo: era
insopportabile, distratta e, di fretta, restituiva al pastore
l'anello nuziale. Allora lui la portava a una misera statua colorata
della Madonna e con la sua parlata siciliana diceva:
"Signora"
diceva a voce bassa e si girava dall'altra parte "la Madonna
vuole che voi mi ascoltiate... A Giovanni, venuto dalla città, la
Madonna darà tutte le donne che vuole; io invece non ho bisogno di
nessuna tranne voi, signora... la Vergine Maria, nostra protettrice
immacolata, vi dirà la stessa cosa se glielo chiederete, Signora..."
La ragazza volgeva la
schiena alla statua di legno colorata. Ascoltando il pastore, batteva
il piede impaziente. Su questa terra — per nostra disgrazia! - non
c'è donna che sia saggia nei momenti in cui si decide il suo
destino... Lei resta sola in questi momenti, sola, senza la vergine
Maria, e non le domanda nulla...
Nel terzo atto Giovanni
venuto dalla città va incontro al proprio destino. Si fa la barba
dal barbiere del villaggio, le forti gambe virili ben piantate sul
proscenio; il sole siciliano fa brillare le pieghe del suo gilet. La
scena rappresentava il mercato al villaggio. In un angolo lontano
c'era il pastore. Lui restava zitto, in mezzo alla folla spensierata.
Aveva la testa abbassata, poi l'ha sollevata, e sotto il peso del suo
sguardo acceso, attento, Giovanni s'è mosso, s'è messo a dimenarsi
sulla poltrona e, spinto via il barbiere, è saltato su. Con voce
rotta pretendeva dal poliziotto che allontanasse dalla piazza persone
oscure e sospette. Il pastore - recitato da Di Grasso - ci pensava un
po', poi sorrideva, si alzava nell'aria, volava per lo spazio scenico
del teatro cittadino, scendeva alle spalle di Giovanni e, dopo
avergli azzannato la gola, ringhiando e guardando storto, succhiava
il sangue dalla ferita. Giovanni crollava e il sipario - muovendosi
con un silenzio minaccioso — nascondeva a noi assassino e
assassinato. Senza aspettarci altro, ci siamo precipitati in vicolo
del Teatro, verso la cassa che doveva aprire il mattino dopo. Davanti
a tutti c'era Kolja Schwarz. All'alba le Odesskie novosti
comunicavano ai pochi che erano stati a teatro che avevano visto
l'attore più stupefacente del secolo.
Di Grasso in questo suo
soggiorno ha recitato Re Lear, Otello, Morte civile,
Pane altrui di Turgenev, affermando con ogni parola e gesto
che in un accesso di nobile passione c'è più giustizia e speranza
che nelle squallide regole del mondo.
A questi spettacoli i
biglietti si vendevano a cinque volte il prezzo. Cercando i bagarini,
i clienti li trovavano all'osteria - a sbraitare, paonazzi, eruttando
innocue bestemmie.
Una scia di polveroso
calore rosa s'è insinuata nel vicolo del Teatro. Bottegai in
pantofole di feltro portavano in strada bottiglie verdi di vino e
barilotti di olive. In recipienti messi davanti alle botteghe
bollivano nell'acqua schiumosa i maccheroni, e il vapore si
dissolveva nei cieli lontani. Vecchie con scarponi da uomo vendevano
conchiglioni e souvenir e con un grido penetrante raggiungevano i
clienti incerti. Ebrei ricchi con la barba sdoppiata, pettinata, si
avvicinavano all'albergo Sèvernaja e piano piano bussavano alla
porta di grassone baffute dai capelli neri - attrici della compagnia
di Di Grasso. Tutti erano felici nel vicolo del Teatro, tranne una
persona, e questa persona ero io. In questi giorni incombeva la mia
rovina. Da un momento all'altro mio padre poteva accorgersi che gli
avevo preso senza permesso l'orologio per impegnarlo da Kolja
Schwarz. Abituatosi all'orologio d'oro ed essendo una persona che al
mattino invece del tè beveva vino di Bessarabia, Kolja, pur avendo
riavuto i soldi, non si decideva a restituirmi l'orologio. Era il suo
carattere. Assolutamente identico era il carattere di mio padre.
Stretto tra questi uomini, io stavo a guardare come i cerchi della
felicità altrui mi passassero accanto. Non mi restava che fuggire a
Costantinopoli. Tutto era già stato concordato col secondo
macchinista del piroscafo Duke of Kent, ma prima di prendere
il mare, ho deciso di salutare Di Grasso. Per l'ultima volta recitava
il pastore che una forza incomprensibile allontana dalla terra. A
teatro sono arrivati la colonia italiana capeggiata dal console calvo
e slanciato, greci rattrappiti dal freddo, barbuti studenti fuori
corso che fissavano fanaticamente un punto invisibile agli altri, e
Utockin, dalle braccia lunghe. E perfino Kolja Schwarz ha portato con
sé la moglie, in scialle viola con la frangia, donna adatta per il
corpo dei granatieri e lunga come la steppa, con in fondo in fondo un
visino sgualcito, sonnolento. Quando s'è riabbassato il sipario, era
cosparso di lacrime.
"Vagabondo" ha
detto lei a Kolja uscendo di teatro "lo vedi, ora, che cos'è
l'amor..."
Con passo pesante, madàm
Schwarz percorreva via Lanzeronovskaja; dai suoi occhi da pesce
sgorgavano le lacrime, sulle spalle grosse tremava lo scialle con la
frangia. Incedendo con passo maschile, scuotendo la testa, enumerava
con voce assordante a tutta la via le donne felici col proprio
marito.
"Sono le mogli che i
mariti chiamano cucciolina, tesoro, bambina mia..."
Kolja, ammansito, le
camminava accanto e zitto zitto gonfiava i baffi di seta. Come al
solito camminavo dietro di loro e singhiozzavo. In un momento di
silenzio, madàm Schwarz ha sentito il mio pianto e s'è girata.
"Vagabondo" ha
detto al marito strabuzzando gli occhi da pesce "che io possa
schiattare subito se non restituisci l'orologio al bambino..."
Kolja s'è bloccato, ha
spalancato la bocca, poi s'è riavuto e, dopo avermi dato un
pizzicotto doloroso, mi ha passato l'orologio di sbieco.
"Che cosa ci ricavo
da uno così" sconsolata si lamentava allontanandosi la grezza
voce piagnucolosa di madàm Schwarz "robe bestiali oggi, robe
bestiali domani... Ti domando, vagabondo, una donna quanto a lungo
può aspettare?..."
Sono arrivati all'angolo
e hanno svoltato nella Puskinskaja. Stringendo l'orologio, sono
rimasto solo e d'un tratto, con una chiarezza che non avevo mai avuto prima, ho visto
le colonne della Duma che andavano verso l'alto, le foglie illuminate
sul bulvàr, la testa bronzea di Puskin con sopra il riflesso tenue
della luna, ho visto per la prima volta quello che mi circondava così
com'era davvero, - calmo e inesprimibilmente bello.
Da Racconti di Odessa,
nella serie Racconti d'Autore,
Il Sole 24 Ore, 2016,
trad. Guido Osimo