Il piccolo Mozart |
Non è facile per nessuno
scoprirsi enfant prodige. Né per il bambino illuminato, tanto
meno per chi deve stargli accanto. Anche Gesù di Nazareth, il
bambino più prodigioso al quale riusciamo a pensare, avrebbe abusato
dei suoi talenti. I quattro vangeli canonici dicono poco (Luca e
Matteo) o nulla (Giovanni e Marco) sugli “anni perduti” di
Cristo. Tra la mangiatoia e i suoi trent'anni c'è solo quella saggia
conversazione con i Dottori al Tempio: «Perché mi cercavate?» -
risponde il dodicenne alla madre che lo aveva perso di vista per un
giorno intero - «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del
Padre mio?». Dopodiché, assicura Luca (2:52) Gesù «cresceva in
sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini». Sarà.
Il vangelo (apocrifo) di
Tommaso racconta una storia diversa. Gesù è un bambino e quindi
naturalmente capriccioso. Così quando il figlio dello scriba Anna
rovina le piccole dighe di foglie e legnetti che aveva costruito su
un torrente, Gesù lo «secca come un albero». E i genitori
addolorati vanno a lamentarsi con Giuseppe. Non sono gli unici. Altri
genitori addolorati - sottolinea Tommaso - vanno a lamentarsi con
Giuseppe quando ritrovano il loro piccolo senza vita. Correndo aveva
urtato Gesù che lo condannò all'istante: «Non proseguirai per la
tua strada». E così fu.
Poi Gesù diventa più
magnanimo, con un soffio salvala vita a Giacomo che era stato morso
in testa da una vipera. Resuscita grandi e piccini. Fa sfoggio del
suo talento miracolistico, un po’ come Mozart, che a cinque anni
compone un minuetto per clavicembalo per sbalordire - e mortificare -
la prodigiosa sorella Nannerl. E s’incammina verso la Passione dopo
essere passato da spettacoli d’arte varia. Inevitabile conseguenza
della difficile gestione del talento, che sta all’uomo come
l’abbondanza di risorse naturali a un Paese: un paradossale
fardello. Non stimola l'ingegno e non aiuta a crescere, come ci
ricorda la risata chioccia che Milos Forman ha dato al suo Amadeus.
«Tutti ibambini sono
degli artisti nati, il difficile sta nel fatto di restarlo da grandi»
secondo Pablo Picasso. Senz’altro. Ma ancora più difficile per i
bambini nati artisti è diventare grandi. Non fu così per lui,
peraltro, bambino prodigio che invecchiò da bullo giocoso, prolifico
e ricco. Di Picasso Gertrude Stein diceva che «pitturava come gli
altri bambini scrivevano l’abbiccì. Era nato facendo disegni, non
disegni da bambino ma disegni da pittore». Pronunciò la parola
matita (“lápiz”) prima della parola mamma. Al papà pare stesso
antipatico. Difficile biasimarlo. José Ruiz y Blasco era professore
alla Scuola delle Arti e dei Mestieri a Malaga. Durante il tempo
libero dipingeva e decorava sale da pranzo: foglie, fiori,
pappagalli. Amava i colombi. Smise non appena vide i primi schizzi
del figlio. Secondo un’altra versione dei fatti, ne sfruttò i
talenti affidandogli dettagli che non riusciva a eseguire con la
stessa cura.
Il bambino prodigio si
crea il vuoto intorno. In prima elementare Massimo D’Alema
boicottava l’ora di religione accusando la maestra di fare
propaganda democristiana. Inquietò anche Palmiro Togliatti, che lo
incontrò quando aveva nove anni. Massimo era il rappresentante dei
pionieri della sezione Monteverde a Roma e pronunciò un discorso che
volle scriversi da sé. «Questo non è un bambino, è un nano»
avrebbe detto il Segretario del Pci, stando ad altri vangeli
apocrifi.
Nell’intuizione (vera o
inventata) del Migliore rivediamo quelle teste da vecchi raggrinziti
su dei corpo da bambino - putti, angioletti, lo stesso Bambinello -
che a lungo passarono per infanti nelle tavole medievali. Non era
grettezza di pennello, più semplicemente - come ha spiegato lo
storico francese Philippe Ariès (Padri e figli nell’Europa
medievale e moderna, Roma-Bari, 1981) l’infanzia ancora non era
stata scoperta. L’età era irrilevante. Non vi era coscienza dei
bisogni che distinguono il piccolo dall’uomo fatto. Il bambino era
un adulto in miniatura. Forza lavoro in miniatura. E così, per certi
versi, passato il medioevo è rimasto vero per i bambini prodigio,
tanto più se vezzeggiati proprio perché bambini.
Non a tutti è andata
male, la storia racconta anche di piccoli geni diventati saggi. Il
grande matematico Carl Friedrich Gauss a nove anni faceva in un
batter d’occhio la somma di tutti i numeri da uno a cento. Pascal
prima di scommettere sull’esistenza di Dio a dodici anni aveva
risolto le prime 23 teorie di Euclide. John Stuart Mill a otto anni
leggeva i classici greci e latini, a tredici gli economisti classici
Adam Smith e David Ricardo e a venti, prostrato, cadde in
depressione. Si riprese e diventò rettore a St. Andrews nonché
padrino di Bertrand Russell (che meditò a lungo e mediocremente fino
alla soglia del secolo).
Perfino nel mondo dello
spettacolo, tra tante piccole stelle devastate spunta qualche storia
a lieto fine, come quella del monello chapliniano Jackie Coogan. Il
primo divo-bambino della storia del cinema da minorenne aveva
guadagnato intorno ai 4 milioni di dollari. Però non aveva visto un
centesimo perché, come rivendicava la madre «Ogni dollaro
guadagnato da un bambino, finché non ha compiuto 21 anni, appartiene
ai suoi genitori». E Jackie, inoltre «era un bambino cattivo».
Tanto cattivo da farle causa. Ottenne indietro poco denaro, mamma
l’aveva speso quasi tutto, ma il suo caso portò all’adozione
della prima legge a tutela dei bambini-prodigio dello schermo, il
California Child Actor's Bill, o Coogan Act. Jackie
concluse la carriera da saggio Zio Fester nella serie Tv della
famiglia Addams. Per gli altri c’è stata la Salvezza,
Palazzo Chigi, o le cliniche di rehab.
“pagina 99”, 8
novembre 2014