Reportage di un
anno e mezzo fa, ma tuttora utile a capire i processi in atto sotto i
nostri occhi, ormai non solo nelle grandi città ma anche in nelle piccole e medie. (S.L.L.)
Milano
Nelle pause tra i
compiti, gli adolescenti che dalle tre alle sei di ogni pomeriggio
affollano il Bubble Tea Bar di via Messina si lanciano in brevi
partite di giochi da tavolo, oppure flirtano scattandosi selfie
formato polaroid da appendere alle bacheche del locale con timidi
messaggi di corteggiamento: cresciuti tra le vie del quartiere e la
scuola italiana, le ambizioni dei genitori e l’ascesa di Pechino,
sono tutti cinesi, sono tutti nati negli anni Zero, e sono in bilico
tra identità multiformi.
«Prima di aprire il
Bubble Tea Bar ho cambiato molti lavori, ho fatto il garzone nel
negozio di casalinghi dei miei genitori, ho aperto un internet point,
poi ho studiato da pasticcere. Cerco di tornare in Cina ogni anno e
visitare sempre città diverse, così ho notato la moda del bubble
tea e ho imparato a prepararlo», racconta Jack Zhao,
proprietario del bar insieme alla moglie Susanna Yu. La Cina e Taiwan
si contendono la paternità dell’invenzione del bubble
tea, boba naicha, ma chiunque abbia ideato questa
bibita a base di tè frullato con latte, frutta e palline di tapioca,
ha lanciato un prodotto capace di trasformarsi in un frammento
dell’identità di milioni di ragazzi asiatici, che lo consumano da
Shanghai a San Francisco, non importa che parlino inglese, italiano o
perfetto mandarino.
Jack, che vive a Milano
da 20 anni e oggi ne ha 31, ha sfruttato l’opportunità: «Abbiamo
aperto da un anno e per il momento le cose vanno bene», dice, «ma
quando ci sarà troppa concorrenza cambieremo ancora». «Di sicuro
le mie condizioni sono molto migliorate rispetto a quelle dei miei
genitori» – aggiunge Jack, cittadino italiano da qualche mese –
«e questo si vede anche da come spendo il mio tempo libero. Mi piace
uscire con gli amici e giocare a basket, con Susanna viaggiamo un
po’, mentre per la generazione di mio padre era impensabile anche
solo avere un passatempo». Nonostante i suoi periodici viaggi in
Cina, quando si è trattato di investire su una nuova attività Jack
Zhao non ha avuto dubbi, e lo ha fatto in Italia: troppo saturo il
mercato cinese, meglio puntare su una piazza che conosce già, anche
se si trova a diecimila chilometri dalla città in cui è nato.
«Vorrei che mio figlio tornasse in Cina, magari non per lavorare ma
per conoscere le sue origini. Quando compirà 18 anni sceglierà lui
se rimanere cittadino cinese o diventare italiano».
Dieci anni dopo
Via Messina è una
traversa di via Paolo Sarpi e si trova a pochi passi da via Bramante,
nel cuore di quella che anche Google Maps indica come la Chinatown di
Milano, ma nel percorrerle entrambe la distanza che le separa diventa
soprattutto temporale: di là, in via Bramante, una lunga fila di
“affittasi” in caratteri cinesi piazzati sulle saracinesche
abbassate segnala il declino del modello dei primi anni Duemila,
rappresentato da import-export e negozietti di abbigliamento a basso
costo; di qua, in via Messina, tra agenzie di comunicazione
italo-cinesi, pasticcerie, fotografi specializzati in matrimoni,
bubble tea bar e agenzie immobiliari e di viaggio per concedersi fine
settimana in Provenza e vacanze sulle spiagge di Santorini, si
assiste allo sviluppo di attività e idee nuove dirette a generazioni
che hanno incrementato enormemente il loro potere d’acquisto,
maturando consumi e codici a cavallo tra Asia, Europa e gusti
globalizzati.
Sono passati 10 anni
dalla cosiddetta “rivolta di Paolo Sarpi”, quando nell’aprile
del 2007 oltre trecento cinesi affrontarono a muso duro la polizia
municipale milanese per protestare contro multe e contravvenzioni, e
se in mezzo c’è stata una pedonalizzazione che ha reso più
difficile il continuo carico e scarico di merci, il fattore decisivo
che ha cambiato il paesaggio urbano è di carattere puramente
economico: l’ascesa di una vera classe media, che non ha più
neanche timori a definirsi tale.
Chi è uscito dal
quartiere e dai solchi tracciati da nonni, genitori e società
italiana intorno, oggi sono i trenta-quarantenni capaci di inventarsi
iniziative inedite come bar alla moda, una app per ordinare sushi e
noodles on demand – con tempi di consegna fulminei come sashimi.com
– saloni di bellezza à la page e persino una compagnia energetica.
Gli uffici di China Power si trovano al settimo piano di un palazzo
in zona Stazione Centrale, stretti tra il Pirellone e la Regione
Lombardia: la società si è inserita nella liberalizzazione delle
concessioni elettriche e oggi fornisce energia a centinaia di imprese
cinesi presenti sul territorio italiano. Luca Sheng Sheng Song e
Marco Jin, i due fondatori, descrivono la società come un’utility
che in qualche modo fornisce anche un servizio di consulenza: sei un
imprenditore cinese e non capisci nulla della tua bolletta? China
Power ti fornisce una consulenza in mandarino per scegliere il
profilo più adatto.
Management alla
Bocconi
«Il mio percorso è
abbastanza atipico rispetto a quello di altri cinesi», dice Luca
Sheng Song, «perché sono arrivato in Italia a quattro anni, ho
vissuto in diverse città toscane prima di arrivare a Milano, ho
frequentato tutte le scuole italiane e mi sono laureato alla Bocconi
in Management. Ho lavorato come consulente strategico presso la Value
Partners e poi mi sono trovato con Marco per creare qualcosa che
nasceva sia dalle competenze manageriali in grandi aziende che dal
network che avevamo maturato nella nostra comunità. Alla fine ci
siamo trovati a creare qualcosa che non esisteva, una società di
energia “etnica”, la prima in Europa».
Marco Jin, invece, ha
avuto una storia più tradizionale: «Anche io ho studiato in Italia
ma prima mi sono dedicato ad attività come il confezionamento di
maglioni o la stireria, poi ho avuto un negozio di scarpe e ho fatto
un paio di anni di import-export classico. Poi ho lavorato nel
settore delle sigarette elettroniche e alla fine con Sheng ci siamo
trovati a pensare a qualcosa che mancava alla comunità. Ci riteniamo
una società che favorisce l’integrazione: l’imprenditore che
capisce meglio la sua bolletta è più portato a rimanere in Italia,
e magari a reinvestire», spiega Luca Sheng Song, raccontando di
operatori che passano anche ore a spiegare tariffe e conguagli.
Usano tutti WeChat
Tutti i servizi, inclusa
la documentazione e perfino i pagamenti, passano attraverso WeChat,
un’app cinese simile a un WhatsApp superpotenziato che è diventata
l’assistente personale di centinaia e centinaia di milioni di
persone, in Cina e all’estero. Secondo Marco Jin, il percorso della
classe media cinese in Italia è quasi classico; la prima generazione
vive solo per lavorare, la seconda inizia a concedersi maggiori
piaceri e consumi, ma tra le due si sta anche inserendo un fenomeno
nuovo: «C’è un enorme afflusso di studenti cinesi che sono già
economicamente solidi, vengono a studiare in Italia e hanno notevoli
capacità di spesa. Sono ventenni, ma entrano anche loro nella
comunità e siamo tutti figli della Cina del benessere. Secondo me il
potere d’acquisto si è almeno quadruplicato negli ultimi dieci,
quindici anni».
Dopo un apprendistato
nella bottega di pellame del padre e vari altri mestieri, Luca Hu ha
scelto di ridefinire l’attività che aveva intrapreso: insieme al
fratello gemello ha aperto in corso Garibaldi Chinese Box, ieri un
classico baretto milanese, oggi un cocktail bar su due piani con
pareti scure e lampadine art nouveau: «Ho riflettuto per anni sulla
mia identità, poi mi sono detto: sono pragmatico, concreto, allora
sono di destra. Poi è arrivato un mio dipendente, un barman
italiano, e mi ha detto: “Tu sei il datore di lavoro più di
sinistra che abbia mai avuto”. Sarà che non mi sono dimenticato
come si confeziona una borsa», scherza.
Far meglio del
padre
Secondo Luca l’ascesa
dei cinesi di seconda o terza generazione non è solo una questione
economica, ma di prestigio: «Noi non lavoriamo solo per i soldi, ma
per l’immagine. Vogliamo far capire che siamo parte integrante di
questo tessuto urbano che abitiamo da trent’anni. È inutile
nascondersi dietro le quinte come hanno fatto i nostri genitori,
perché poi non riesci ad approcciarti alla società. Un proverbio
cinese dice “la casa è sempre più bassa della montagna”;
significa che io sono tenuto a fare meglio di mio padre».
Francesco Zhou Fei invece
vanta una storia a zig-zag, che può sembrare inusuale ma si
inserisce pienamente nel flusso continuo di scambi interni alla
comunità cinese tra Asia ed Europa: arrivato in Italia da bambino,
si è laureato alla Bocconi e dopo un’esperienza lavorativa a
Milano è sbarcato a Pechino con una specializzazione nella gestione
del rischio crediti. «Lì sono diventato davvero biculturale, non
solo sul piano della lingua o della vita di ogni giorno, ma
soprattutto su quello del business. Adesso, dopo nove anni in Cina
sono tornato a Milano: in un’epoca di acquisizioni cinesi in Italia
voglio mettere a frutto questa mia doppia identità».
Zhou Lei è laureata in
economia alla Cattolica e non esita un istante a definirsi classe
media: «Tra me e i miei genitori non c’è una generazione di
mezzo, ce ne sono almeno tre. Loro hanno vissuto la Cina della
Rivoluzione Culturale e poi sono arrivati a Milano, è come passare
direttamente dall’Italia fascista all’Italia del Duemila senza
vivere quello che c’è stato nel mezzo. Io oggi ho una mia
attività, ma faccio anche palestra, vado in piscina, pratico yoga e
guido un’utilitaria». Dopo qualche anno come contabile, Lei ha
aperto insieme alla cognata Chicchi un nail saloon dedicato a
clientela ad alto reddito nella centralissima via Ariosto: «La cura
delle mani è una pratica asiatica. Volevamo fare qualcosa di nuovo,
diffondere una nostra tradizione ma attualizzandola, continuando a
vivere e investire in Italia. Investire in Cina è ormai impossibile,
ci vogliono cifre enormi, mentre il cambio yuan-euro ci ha
avvantaggiato».
Come Lei sta adattando
l’estetica cinese ai canoni occidentali, il marito Agie ha
proiettato l’antica arte culinaria dei jiaozi, i ravioli, su uno
scenario italiano. Dall’amicizia con Walter, macellaio milanese da
due generazioni e pioniere dell’allevamento biodinamico, è nato un
piccolo spazio di enorme successo: da due anni Ravioleria Sarpi ha
cancellato l’immagine di unto così anni ’80 legata alla
gastronomia da strada cinese, con cuochi e cuoche che cucinano il
prodotto in vetrina direttamente davanti agli occhi dei clienti:
«Sono arrivato in Italia da bambino e ho fatto varie cose,
nell’informatica e nell’abbigliamento, lavorando da Canton. Ma
l’idea di portare i veri jiaozi l’avevo in testa da sempre»,
racconta Agie. «È un alimento popolare, in Cina lo cucinano le
nonne o lo gusti nei locali fatto al momento. Bisognava solo
riportarlo agli ingredienti più genuini e farlo conoscere agli
italiani, che sono così esigenti. Adesso abbiamo in testa altri
investimenti».
Sogni globalizzati
Secondo la definizione
classica del geografo americano Carl Sauer quello che chiamiamo
“paesaggio culturale” è modellato da un gruppo culturale a
partire dal paesaggio naturale: «La natura è il mezzo, la cultura è
l’agente, il paesaggio culturale è il risultato finale». Seguendo
questa definizione, pochi paesaggi culturali si sono mostrati
plastici e innovativi come alcune Chinatown: da quel 12 aprile 2007
della “rivolta di Paolo Sarpi”, mentre una politica polverosa si
accaniva intorno a definizioni obsolete come “seconda generazione”
e dibattiti sulla cittadinanza, in quelle vie stava succedendo
qualcosa il cui precipitato si è diffuso molto al di là del
quartiere.
Identità ibride definite
da tempi individuali iperaccelerati, capacità di adattamento: gli
adolescenti del Bubble Tea Bar continuano a studiare in italiano e
flirtare su WeChat in cinese, ammirano la moda coreana e inseguono
sogni globali: non lo sanno ancora, ma tutti insieme sono già
avanguardia e alcuni di loro diventeranno élite.
Pagina 99, 21 gennaio
2017