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San Giuliano di Mestre. In alto i grandi edifici circolari del CEP, progettati da Ludovico Quaroni |
Alla fine del suo saggio
Gli architetti e il fascismo (Einaudi 1989), Giorgio Ciucci
indicava chiaramente quelli che, nella cultura architettonica
italiana del Dopoguerra, sarebbero stati i pilastri, coloro cioè a
cui sarebbe toccato il compito di ricostruire materialmente e
moralmente un paese e una disciplina dopo le tragiche morti di
Giuseppe Pagano, Edoardo Persico e Giuseppe Terragni.
I quattro pilastri –
tutte figure paterne, tranne Ridolfi – erano, in ordine di
anzianità, Giuseppe Samonà direttore dello Iuav di Venezia, unica
isola felice della modernità italiana; Mario Ridolfi con la
ciclopica impresa del Manuale dell’architetto (portata
avanti insieme e grazie a Bruno Zevi); Ernesto Nathan Rogers e il
Movimento di Studi per l’Architettura (Msa) che riuniva a Milano
architetti e intellettuali come Enzo Paci intorno alla rivista
«Casabella-Continuità»; e infine, a Roma, Ludovico Quaroni con la
sua «ricerca sul quartiere». Ovviamente i protagonisti del
dopoguerra sono stati molti di più, alcuni dei quali sottovalutati
perché conservatori, in politica e no (Saverio Muratori, Luigi
Moretti, Gio Ponti) – ma quella di Quaroni è stata una ricerca in
più direzioni, sicuramente la più inquieta.
La stagione del
neorealismo
Nato a Roma cento anni or
sono, Ludovico Quaroni si laurea nel 1934 e l’anno successivo apre
lo studio professionale insieme a Muratori e Francesco Fariello, con
i quali vincerà il concorso per la piazza imperiale all’E42, oggi
Eur – dove la pulizia del disegno viene inficiata dall’uso, per
le colonne, non del marmo, ma di una scadente pietra scura imposta da
un gerarca, proprietario delle cave. Sin dall’inizio della
carriera, dunque, Quaroni (allora ventitreenne) è votato al lavoro
di gruppo, ma anche al compromesso: la sua ricerca di una sintesi fra
razionalismo e classicismo è coeva al suo impegno di assistente
universitario di Piacentini, Del Debbio, Plinio Marconi, vale a dire
alcuni fra i più strenui avversari dell’architettura moderna
italiana.
La seconda guerra
mondiale mette fine a questa stagione formativa e vede Quaroni
catapultato prima in India e poi, già dalle prime fasi del
conflitto, prigioniero dagli inglesi in Etiopia, dove rimarrà cinque
lunghi anni a meditare sulla fine del regime e di un’intera epoca.
Tornato a Roma nel 1946, aderisce all’Apao, l’associazione per
l’architettura organica diretta da Zevi e per circa un decennio si
lega a doppio filo con Mario Ridolfi. Verrebbe anzi da dire che quasi
si nasconda dietro di lui, sia nel concorso per la nuova stazione
Termini, sia soprattutto nel quartiere InaCasa al Tiburtino,
costruito fra il 1950 e il ’54 da un team allargato di cui fanno
parte anche giovanissimi progettisti come il nipote comunista di
Piacentini, Carlo Aymonino.
Il Tiburtino segna la
stagione del Neorealismo architettonico che in opposizione al
monumentalismo fascista cerca di tradurre in città le forme e i
modelli della vita rurale, per avviare così i nuovi immigrati dalle
campagne alla vita urbana secondo modalità ibride ben viste sia
dalla Dc fanfaniana sia dal Pci di Guttuso e Alicata. Ancora una
volta però si tratta di una ricerca di sintesi fra due entità
irriducibili, città e campagna, e sarà lo stesso Quaroni il primo a
fare autocritica già pochi anni dopo definendo il suo quartiere un
paese dei barocchi: «non è il risultato d’una cultura
solidificata, d’una tradizione viva: è il risultato d’uno stato
d’animo».
Autoanalisi e
autocritica
Nel villaggio La Martella
invece, nei dintorni di Matera, ancora frutto di un gruppo di
progettazione allargato, nel 1951 Quaroni cerca di portare un po’
di urbanità nel nuovo quartiere destinato a ospitare gli sfollati
dei Sassi, che prima convivevano in condizione di miseria assoluta e
di promiscuità con gli animali; si tratta certamente di una delle
pagine più commoventi e generose della ricostruzione scritta
peraltro insieme con Adriano Olivetti. È infatti l’industriale e
filantropo piemontese ad animare queste e altre esperienze
riformatrici in alcune fra le zone più arretrate del meridione. Non
a caso a Quaroni, vincitore del premio Olivetti nel 1956, viene
dedicata una monografia pubblicata dalle Edizioni di Comunità nel
1964 da uno dei suoi numerosissimi allievi, Manfredo Tafuri.
Come Quaroni, anche
Tafuri – sebbene su un altro piano, quello storiografico – sarà
maestro del dubbio e del ripensamento, dell’autoanalisi e
dell’autocritica. Quegli «stati d’animo» così caratteristici
della cosiddetta scuola romana sono alla base di svolte continue, di
slanci ideali in seguito rinnegati e infine rimossi: ouverture,
toccate, fughe e contrappunti per usare i termini dell’arte forse
più cara a Quaroni, peraltro raffinato collezionista di strumenti
musicali e profondo amante delle variazioni Goldberg di Bach. Secondo
Franco Purini, anch’egli suo allievo, la coltivazione del dubbio ha
avuto senz’altro una funzione positiva per coloro i quali sono
stati poi capaci di superarla imboccando una strada propria, mentre è
stata negativa per la maggioranza assoluta, per i meno sicuri di sé
che hanno trasformato il dubbio in interdizione verso qualsiasi
strada possibile. (Il che, aggiungiamo noi, è piuttosto grave per
chi – come Quaroni – è stato non solo maestro, ma relatore di
tesi di laurea per una intera generazione di architetti romani, che a
loro volta sono diventati docenti occupando le facoltà di mezza
Italia o creandone altre ex novo).
Ai due lati della
laguna
Secondo Purini, comunque,
Quaroni resta una figura fondamentale per la ricerca problematica
della via italiana all’architettura moderna, anche se non lo è
stato dal punto di vista formale. Una certa insicurezza lo ha portato
sempre a circondarsi di collaboratori e associati, spesso di vaglia,
sebbene eterogenei, e gli esiti compositivi non potevano che essere
differenti: neorealisti al Tiburtino e a Matera, votati verso la
megastruttura nella stagione successiva del progetto per l’Asse
attrezzato di Roma (1967) o per il nuovo centro governativo di Tunisi
(1969).
Giustamente il Maxxi (che
ha come senior curator un altro suo allievo, Pippo Ciorra) dedica una
piccola mostra al progetto di Quaroni più felice e noto, quello per
i grandi edifici circolari Cep alle barene di San Giuliano di Mestre
del 1959 – esempio di una architettura della grande dimensione
aperta verso la laguna in un abbraccio che era al tempo stesso anche
l’allegoria della sintesi fra architettura e urbanistica, quella
sintesi auspicata dal suo alleato Giuseppe Samonà, che dall’altro
lato della laguna aveva appena dato alle stampe L’urbanistica e
l’avvenire delle città (Laterza 1959).
Un’impresa
misconosciuta
E un’allegoria è anche
il titolo del libro pubblicato nella collana Polis diretta da Aldo
Rossi per Marsilio, La torre di Babele, del 1967 – cosa ci
faceva Quaroni nella collana di un architetto opposto per
temperamento e da cui era stato duramente contestato al convegno
olivettiano sull’urbanistica di Arezzo del ‘63? Nel 1939 Quaroni
aveva svolto una ricerca dal titolo L’architettura delle città
in cui distingueva una coppia dialettica focus/tessuto urbano che
ricorda molto quella degli elementi primari/area che è al centro
dell’Architettura della città di Rossi del 1966. Nel testo del ’67
Quaroni dà una sua interpretazione positiva del valore conoscitivo
della forma, ma le affinità si fermano qui e nella stessa prefazione
al libro Rossi liquida Quaroni ingabbiandolo all’interno della sua
teoria dell’architettura.
Eppure il riavvicinamento
con Rossi sarà solo il preludio a un’ultima grande impresa, la più
misconosciuta, ma anche una delle migliori fra tutte le azioni
quaroniane: la direzione, alla metà degli anni ’70, della
splendida collana «Planning & Design» per la casa editrice
Gabriele Mazzotta di Milano che, nata pochi anni prima, aveva già un
ricco catalogo d’arte. La madre tedesca aveva reso naturale la
propensione di Quaroni verso movimenti e autori tradizionalmente poco
studiati in Italia. A lui dobbiamo infatti la prima traduzione di
testi fondamentali dell’architettura del ‘900 come Da Ledoux a
Le Corbusier: origine e sviluppo dell’architettura autonoma di
Emil Kaufmann, Lo studio delle piante e la progettazione degli spazi
negli alloggi minimi di Alexander Klein, l’antologia della rivista
espressionista Frühlicht o ancora La corona della città di
Bruno Taut a proposito del quale malignamente – ma giustamente –
Quaroni consigliava a Rossi e Scolari, che lo avevano appena
arruolato fra i padri del Neorazionalismo della Tendenza, di
ricordare le origini espressioniste, dunque irrazionali, dello stesso
razionalismo.
Compositore di
intelligenze
A questi titoli già di
per sé considerevoli si alternavano ristampe di classici antichi (i
trattati settecenteschi di Francesco Milizia e Andrea Memmo) e
moderni (Il modulor di Le Corbusier) oltre a una serie di
saggi di giovani storici, architetti, urbanisti e sociologi (Vieri
Quilici, Giorgio Muratore, Giandomenico Amendola) su temi che
spaziavano dalla città rinascimentale alla Russia costruttivista
fino a pioneristici studi sulle città sudamericane di Manuel
Castells oggi così in voga, tenendo sempre insieme architettura e
urbanistica. E forse la dimensione editoriale è quella che più
corrisponde a Quaroni: quella di un compositore di intelligenze,
complesso e contraddittorio come una collana editoriale, frutto di un
lavoro collettivo (autori, curatori, traduttori) e di molti
compromessi. Un lavoro che in ultima analisi assomiglia
maledettamente al destino dell'architettura.
“il manifesto”, 30
novembre 2011