L’eroe è una
cosa trascinata
dietro un carro nella polvere
Chi è un eroe? O meglio:
che cos’è un eroe?
Un eroe è una cosa
trascinata dietro un carro nella polvere.
Così Simone Weil, in
piena Seconda Guerra Mondiale, concludeva la sua riflessione
sull’Iliade pensata come poema della forza. Nella visione
della Weil, anche gli eroi di Omero, anche i formidabili campioni che
si batterono per dieci anni contro uomini e dei sulla piana di Ilio,
per quanti nemici potessero aver abbattuto con la loro forza
indomabile, per quanti ostacoli potessero aver travolto con la loro
energia traboccante, un istante dopo esser stati sfiorati da quella
stessa forza, da quella medesima energia, divenivano una cosa
trascinata dietro un carro nella polvere.
Ed è, perciò, comunque
da lì, dall’epica omerica, che si dovrà partire se si vorrà
tornare a chiedersi, anche in un’epoca apparentemente post-eroica
come la nostra, chi è o che cos’è un eroe?
Questa domanda per me,
nella mia oramai piuttosto lunga carriera di uomo e di scrittore, ha
sempre coinciso, e coincide ancora, con l’altra domanda
fondamentale, quella che ci interroga sull’avvenire dei classici.
Che futuro hanno le opere del passato che il passato avrebbe
consegnato all’eternità? Esisterà ancora nell’avvenire un
«passato che non passa»? «Scrivete per quelli che verranno.
Soltanto loro saranno degni di comprendervi, abbastanza forti da
vendicarvi». Così urlava nel mezzo dell’Ottocento romantico
l’eroe di Foscolo. Lo comprendiamo ancora? Lo vendicheremo? Quella
della posterità letteraria è un’idea morta al presente, e al
futuro?
Nella nostra supponenza
di viventi – provvisoriamente viventi – tendiamo ad attribuirci
la facoltà sprezzante di dimenticare, la primogenitura nell’oblio.
Ma ci sbagliamo, poveri sciocchi. Se i classici non dovessero avere
nessun futuro, non saremmo noi ad aver dimenticato, ma tutto il
passato ad averci dimenticati. In altre parole, saremmo soli al
mondo. Come orfani. Come gattini ciechi chiusi dentro un sacco
destinato alla corrente del fiume.
Che funzione ha
l’epica omerica
nella modernità post-eroica?
Detto in modo ancora più
schietto: per come la vedo io, l’avvenire dei classici è
essenzialmente legato alla sopravvivenza dell’epica. La narrazione
epica è, infatti, canto delle origini sin dall’origine, di un
tempo trascorso da sempre, separato da noi da una distanza
incolmabile, una distanza non temporale ma di valore, valore assoluto
– come ci insegnava Bachtin; la lingua dell’epica è, per questo
motivo, l’unica lingua capace di trasformare la cronaca delle
nostre vite di poveri morenti in mito.
Per comprendere tutto
ciò, dovete seguirmi sugli spalti di Troia, le antiche e
imprendibili mura che circondavano la città di Ilio nel XIII secolo
avanti Cristo. Siamo, in verità, nel terzo canto dell’Iliade
di Omero, siamo nel decimo anno di una guerra interminabile, più
vecchia del mondo e non ancora finita.
Siamo, dunque, nel Terzo
Canto del poema e il vecchio, saggio Re Priamo, padre spirituale di
tutti i Troiani, ha chiamato la bellissima Elena a sedersi accanto a
lui sugli spalti delle mura, a prendere posto nel consesso degli
anziani patriarchi della città assediata dall’esercito degli
Achei. Elena recalcitra. Sa di non essere amata da quei vecchi perché
è a causa sua che i loro figli sono morti e moriranno per difendere
la città dagli assalitori. È lei, infatti, che ha scatenato la
guerra abbandonando il Re greco Menelao per seguire il giovane
principe troiano Paride. Ma Elena, pur malvolentieri, accoglie
l’invito di Priamo, suo nuovo signore. Soltanto lei, infatti, può
soddisfare il desiderio del Re: Priamo vuole che Elena riconosca e
nomini i più celebri tra i guerrieri greci che stanno prendendo
posizione nello schieramento nemico in fondo alla piana. E soltanto
l’ex moglie del Re greco Menelao può farlo. Solo lei, la
fedifraga, la bellissima, la dannata, solo lei può avvistare e
riconoscere i nemici perché ha vissuto nella loro casa, dormito nei
loro letti. Allora Elena, sfidando ogni verosimiglianza ottica,
comincia a nominare e a descrivere i campioni achei, riconoscendoli
per un dettaglio dell’armatura o della persona.
Fino a questo momento,
nell’Iliade non sono ancora state raccontate scene di battaglia. È
soltanto ora che la battaglia può avere inizio per i lettori del
poema. Soltanto dopo che Omero, per bocca di Elena, ha avvistato, e
descritto individualmente, uno dopo l’altro, i più valorosi eroi
greci, si può cominciare a uccidere e a morire.
Perché questa tecnica
narrativa dell’avvistamento dall’alto delle mura è essenziale
alla concezione eroica dell’epica omerica, al punto da dover
precedere il racconto delle imprese in battaglia? L’essenza segreta
dell’epica antica sta tutta racchiusa nella risposta a questa
domanda. E la risposta è che per la cultura antica l’eroismo è,
innanzitutto, una qualità della luce: la gloria è un’onda di luce
piena che investe l’individuo eroico facendolo splendere agli occhi
dei suoi contemporanei e, attraverso il racconto delle sue gesta,
trasmesse di generazione in generazione, anche agli occhi dei
posteri. Affinché ciò possa accadere, il guerriero a caccia di
gloria deve entrare nella zona di piena visibilità, deve guadagnare,
si potrebbe dire, il centro della scena. Soltanto lì, sotto l’occhio
dei riflettori – diremmo noi oggi – le sue imprese e,
soprattutto, la sua morte, l’impresa più gloriosa per un
guerriero, potranno distinguersi rispetto a ciò che accade al centro
della mischia indistinta, dove si uccide e si muore oscuramente.
L’occhio di Elena è l’occhio di Omero, e l’occhio dei
riflettori è l’occhio dei posteri.
Ma perché questo
sanguinoso desiderio di luce, perché la vita dei fondatori della
cultura occidentale culminava nella carneficina? Per capirlo dobbiamo
guardare nell’abisso dischiuso sotto i loro piedi, dobbiamo gettare
un rapido sguardo alla loro teoria della mortalità. Tutta questa
immane costruzione culturale dell’epica poggia sulle fondamenta di
una metafisica triste.
Tutto ciò accadeva,
infatti, perché gli antichi Greci non concepivano una vita
trascendente che attendesse l’individuo dopo la morte. L’unico
«al di là» che conoscevano, l’Ade, era pensato come un luogo
oscuro e infelice, infelice perché oscuro, dove le ombre di quelli
che un tempo erano stati uomini palpitanti di vita, private del corpo
che sente, patisce, gioisce, esulta, soffre, sanguina e muore, si
aggiravano per l’eternità senza più storia. L’Ade era l’inferno
di una cattiva eternità, popolato di ombre prive di storia perché
senza luce, e prive di luce perché senza storia.
Per questo motivo, nella
visione dei Greci, l’unica autentica immortalità nella quale gli
uomini potessero sperare era quella fornita loro dalla gloria
imperitura del loro nome, tramandato nei racconti dei posteri. Ma per
guadagnarsi fama immortale, per potersi fare polpa di mito, l’uomo
mortale doveva distinguere la propria individualità dalle legioni
anonime dei suoi simili sprofondati in esistenze ingloriose, negli
angoli bui della storia, nei coni d’ombra della memoria. Secondo
questa concezione, non esisteva virtù che non si traducesse in
comportamenti esteriori perfettamente visibili. L’individuo era
tutto nella sua azione e l’azione era sempre, al tempo stesso,
un’accettazione e un’insurrezione contro il destino umano.
L’antico eroe omerico era l’individuo che, dopo aver abbracciato
la consapevolezza di essere atteso da un destino di morte, da
un’ineluttabile discesa tra le ombre dell’Ade, si ribellava a
quel destino cercando la piena luce della gloria in una morte
splendida e memorabile.
Se i classici non
hanno futuro
restiamo soli in questo mondo
Come dire: l’eroe è
colui il quale, al pari di ogni altro mortale, sarà trascinato
dietro un carro nella polvere come cosa inanimata, e di lì scenderà
nella tenebra della morte. Ma, prima di farlo, fosse anche per un
solo istante, quell’individuo, a differenza di tutti gli altri,
avrebbe brillato. Un istante che sarebbe durato nell’eternità del
mito.
Per i Greci l’uomo era
brotòs, colui che muore, che sta morendo in ogni istante
della sua vita. E allora, se l’unica forma d’immortalità
concessa all’uomo è l’immortalità narrativa, perché la
leggenda abbia inizio la sua vita deve compiersi. Il mythos è,
insomma, l’unico logos appropriato a «colui che muore»,
l’arte che presiede al racconto di una storia è la sola logica del
morente; da ogni altro punto di vista che non sia quello del
narratore di una storia, per il quale la fine coincide con l’inizio,
l’esistenza umana è insensata. Il canto dell’Aedo è l’unica
possibile forma di senso dell’esistenza umana gravata da un destino
di morte definitivo. Ciò che noi oggi chiamiamo «letteratura» è,
insomma, l’unica religione che i Greci ci abbiano lasciato in
eredità. L’unica nostra fede di miscredenti senza fedi
trascendenti.
Tuttolibri La Stampa, 27
luglio 2019