AVVIENE spesso che un lettore, di
solito un giovane, chieda a uno scrittore, in tutta semplicità,
perché ha scritto un certo libro, o perché lo ha scritto così, o
anche, più generalmente, perché scrive e perché gli scrittori
scrivono. A questa ultima domanda, che contiene le altre, non è
facile rispondere: non sempre uno scrittore è consapevole dei motivi
che lo inducono a scrivere, non sempre è spinto da un motivo solo,
non sempre gli stessi motivi stanno dietro all'inizio ed alla fine
della stessa opera. Mi sembra che si possano configurare almeno nove
motivazioni, e proverò a descriverle; ma il lettore, sia egli del
mestiere o no, non avrà difficoltà a scovarne delle altre. Perché,
dunque, si scrive?
1. Perché se ne sente l'impulso o il
bisogno. E' questa, in prima approssimazione, la motivazione più
disinteressata. L'autore che scrive perché qualcosa o qualcuno gh
detta dentro non opera in vista di un fine; dal suo lavoro gli
potranno venire fama e gloria, ma saranno un di più, un beneficio
aggiunto, non consapevolmente desiderato: un sottoprodotto, insomma.
Beninteso, il caso delineato è estremo, teorico, asintotico; è
dubbio che mai sia esistito uno scrittore, o in generale uri
artista, cosi puro di cuore. Tali vedevano se stessi i romantici;
non a caso, crediamo di ravvisare questi esempi fra i grandi più
lontani nel tempo, di cui sappiamo poco, e che quindi è più facile
idealizzare. Per lo stesso motivo le montagne lontane ci appaiono
tutte di un solo colore, che spesso si confonde con il colore del
cielo.
2. Per divertire o divertirsi.
Fortunatamente, le due varianti coincidono quasi sempre: è raro che
chi scrive per divertire il suo pubblico non si diverta scrivendo,
ed è raro che chi prova piacere nello scrivere non trasmetta al
lettore almeno una porzione del suo divertimento. A differenza del
caso precedente, esistono i divertitoli puri, spesso non scrittori
di professione, alieni da ambizioni letterarie o non, privi di
certezze ingombranti e di rigidezze dogmatiche, leggeri e limpidi
come bambini, lucidi e savi come chi ha vissuto a lungo e non
invano. Il primo nome che mi viene in mente è quello di Lewis
Carroll, il timido decano e matematico dalla vita intemerata, che ha
affascinato sei generazioni con le avventure della sua Alice, prima
nel paese delle meraviglie e poi dietro lo specchio. La conferma del
suo genio affabile si ritrova nel favore che i suoi libri godono,
dopo più di un secolo di vita, non solo presso i bambini, a cui
egli idealmente li dedicava, ma presso i logici e gli psicanalisti,
che non cessano di trovare nelle sue pagine significati sempre
nuovi. E' probabile che questo mai interrotto successo dei suoi
libri sia dovuto proprio al fatto che essi non contrabbandano
nulla: né lezioni di morale né sforzi didascalici.
3. Per insegnare qualcosa a qualcuno. Farlo, e farlo bene, può essere prezioso per il lettore, ma occorre che i patti siano chiari. A meno di rare eccezioni, come il Virgilio delle Georgiche, l'intento didattico corrode la tela narrativa dal di sotto, la degrada e la inquina: il lettore che cerca il racconto deve trovare il racconto, e non una lezione che non desidera. Ma appunto, leeccezioni ci sono, e chi ha sangue di poeta sa trovare ed esprimere poesia anche parlando di stelle, di atomi, dell'allevamento del bestiame e dell'apicoltura. Non vorrei dare scandalo ricordando qui La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, altro uomo di cuore puro, che non si nasconde la bocca dietro la mano: non posa a letterato, ama con passione l'arte della cucina spregiata dagi ipocriti e dai dispeptici, intende insegnarla, lo dichiara, lo fa con la semplicità e la chiarezza di chi conosce a fondo la sua materia, ed arriva spontaneamente all'arte.
4. Per migliorare il
mondo. Come si vede, ci stiamo allontanando sempre più dall'arte
che è fine a se stessa. Sarà opportuno osservare qui che le
motivazioni di cui stiamo discutendo hanno ben poca rilevanza ai
fini del valore dell'opera a cui possono dare origine; un libro può
essere bello, serio, duraturo e gradevole per ragioni assai diverse
da quelle per cui è stato scritto. Si possono scrivere libri
ignobili per ragioni nobilissime, ed anche, ma più raramente, libri
nobili per ragioni ignobili. Tuttavia, provo personalmente una certa
diffidenza per chi «sa» come migliorare il mondo; non sempre, ma
spesso, è un individuo talmente innamorato del suo sistema da
diventare impermeabile alla critica. C'è da augurarsi che
non possegga una volontà troppo forte, altrimenti sarà tentato di
migliorare il mondo nei fatti e non solo nelle parole: così ha
fatto Hitler dopo aver scritto il Mein Kampf, e ho spesso
pensato che molti altri utopisti, se avessero avuto energie
sufficienti, avrebbero scatenato guerre e stragi.
5. Per far conoscere le proprie idee.
Chi scrive per questo motivo rappresenta soltanto una variante più
ridotta, e quindi meno pericolosa, del caso precedente. La categoria
coincide di fatto con quella dei filosofi, siano essi geniali,
mediocri, presuntuosi, amanti del genere umano, dilettanti o matti.
6. Per liberarsi da un'angoscia.
Spesso lo scrivere rappresenta un equivalente della confessione o
del divano di Freud. Non ho nulla da obiettare a chi scrive spinto
dalla tensione: gli auguro anzi di riuscire a liberarsene così,
come è accaduto a me in anni lontani. Gli chiedo però che si
sforzi di filtrare la sua angoscia, di non scagliarla così com'è,
ruvida e greggia, sulla faccia di chi legge: altrimenti rischia di
contagiarla agli altri senza allontanarla da sé.
7. Per diventare famosi. Credo che
solo un folle possa accingersi a scrivere unicamente per diventare
famoso: ma credo anche che nessuno scrittore, neppure il più
modesto, neppure il meno presuntuoso, neppure l'angelico Carroll
sopra ricordato, sia stato immune da questa motivazione. Aver fama,
leggere di sé sui giornali, sentire parlare di sé, è dolce, non
c'è dubbio; ma poche fra le gioie che la vita può dare costano
altrettanta fatica, e poche fatiche hanno risultato così incerto.
8. Per diventare ricchi. "Non
capisco perchè alcuni si sdegnino o si stupiscano quando vengono a
sapere che Collodi, Balzac e Dostoevskij scrivevano per guadagnare,
o per pagare i debiti di gioco, o per tappare i buchi di imprese
commerciali fallimentari. Mi pare giusto che lo scrivere, come
qualsiasi altra attività utile, venga ricompensato. Ma credo che
scrivere solo per denaro sia pericoloso, perché conduce quasi
sempre ad una maniera facile, troppo ossequiente al gusto del
pubblico più vasto e alla moda del momento.
9. Per abitudine. Ho lasciato ultima
questa motivazione, che è la più triste. Non è bello, ma avviene:
avviene che lo scrittore esaurisca il suo propellente, la sua carica
narrativa, il suo desiderio di dar vita e forma alle immagini che ha
concepite; che non concepisca più immagini; che non abbia più
desideri, neppure di gloria o di denaro; e che scriva ugualmente per
inerzia, per abitudine, per «tener viva la firma». Badi a quello
che fa: su quella strada non andrà lontano, finirà fatalmente col
copiare se stesso. E' più dignitoso il silenzio, temporaneo o
definitivo.
Da L'altrui mestiere, Einaudi,
1985 – come anteprima in “Tuttolibri – La Stampa”, 2/3/1985