Vispa Teresa infaticabile
del teatro italiano, Paolo Poli svolazza dietro le quinte dell'Elfo
Puccini di Milano con bambinesca noncuranza dei suoi 84 anni,
mostrando bauli colmi di parrucche impomatate, sottane da gran dama,
copricapi piumati «opera della straordinaria costumista Santuzza
Calì» mentre, poco più in là, volteggiano le intercambiabili
scenografie «compendio pittorico novecentesco» del compianto
Emanuele Luzzati, scomparso nel 2007 ma ancora presente come compagno
di scena (indispensabile il recente libro di Marina Romiti Paolo
Poli e Lele Luzzati. Il Novecento è il secolo nostro edito da
Maschietto Editore che ripercorre, nello splendido dialogo fra
l'autrice e Poli, un sodalizio artistico durate oltre cinquant'anni).
Il piccolo mondo antico
pascoliano è racchiuso qui, pronto per partire alla volta di Roma
dove, al teatro Eliseo, Poli sta presentando il suo ultimo
spettacolo: Aquiloni, pastiche di piroette, canzoncine
fasciste e poesie di Giovanni Pascoli rivedute e un filo scorrette.
Aboliti i colori patetici della produzione poetica «La cavallina
storna? Che orrore! Per carità...Con Laura Betti si faceva la
parodia alla radio, che nitriti!», Poli e i suoi quattro
irresistibili, bravissimi boys (Fabrizio Casagrande, Daniele
Corsetti, Alberto Gamberini, Giovanni Siniscalco) sgambettano leziosi
per circa due ore, mescolando variopinti siparietti canori della
Belle Époque, travestimenti ornitologici degni di Papageno e le note
di Guantanamera, come novelli Josè Carioca, a poetici
recitativi in giacca e papillon capaci di restituire un Pascoli
rimatore (finalmente) lontano dagli stereotipi scolastici delle
sudate rime imparate a memoria.
Nell'ingannevole sobrietà
spartana del suo camerino milanese, il fanciullino di Firenze è un
impetuoso fiume in piena di aneddoti e di madeleine, a
cominciare dalle memorie intrise di ricordi tosco-emiliani fino alle
rimembranze cinematografiche davanti alla macchina da presa,
colpevole, ma non a suo dire, di averlo sfruttato poco e male.
•Che cosa
l'affascina maggiormente della poetica pascoliana?
È il primo poeta che ho
conosciuto da bambino, quando a scuola ci facevano leggere e imparare
a memoria i noiosi Poemi Conviviali perché sai, all'epoca
sembravano più culturali - il povero Pasolini fece addirittura la
tesi di laurea. Con la vecchiaia ho riscoperto il Pascoli delle
sperimentazioni, della poesia cosmica, delle onomatopee, il poeta
capace di dar voce agli animali - il chiu dell'assiuolo - il suo
plurilinguismo: era nato a San Mauro di Romagna ma molto presto
s'impadronì del dialetto della Lucchesia, scrivendo «i diti»
invece delle dita. Senza dimenticare il Pascoli proto futurista,
straordinario inventore di onomatopee, molto prima dell'elogio dei
bombardamenti di Tommaso Marinetti con il suo Zang Tumb Tumb e
del cloffete, cloppete,
clocchete, la fontana
malata del mio amato Palazzeschi. Interessante anche il suo
personalissimo culto agreste, anticipatore delle esaltazione
mussoliniane. Così nel mio spettacolo ho preso un po' di Myricae,
qualche cosa dei Canti di Castelvecchio e un po' dei Poemetti
ma non ho preso in considerazione la sua storia personale anche
perché la disgrazia del Pascoli è stata che gli è sopravvissuta la
sorella Mariù, una sciocchina sentimentale che scrisse una biografia
del fratello piena di malcelata gelosia e morbosi aneddoti, dormivano
in stanze diverse ma avevano le testate dei lettini appoggiate al
muro che li divideva, copiando le atmosfere di Marcel Proust che è
un narratore senza dubbio più dotato della Mariù Pascoli.
•A proposito di
ricordi, quali furono le sue prime infatuazioni artistiche?
Il cinematografo senza
dubbio: del cinema ho vissuto un'epoca così bella, così ricca e
irripetibile che adesso è difficile trovare qualcosa che incontri il
mio gusto anche perché quando io ero giovane, nella seconda metà
del secolo passato, c'erano i film di Rossellini, Visconti, Emmer.
Erano tutti bravi perché venivano dal documentario, non a caso il
primo film di Roberto La nave bianca racconta le gesta degli
uomini della Marina Militare, e anche in Viaggio in Italia,
con la meravigliosa Ingrid, c'èun lunghissimo e meraviglioso pezzo
sulla mattanza dei tonni.
•Che film
guardava durante la sua infanzia?
Da bambino vedevo i film
di Alessandro Blasetti con cui ho poi lavorato, molti anni dopo, nel
1979 per I racconti di fantascienza televisivi. Era una
persona meravigliosa, un convinto fascista ma girava i film in russo,
splendide fiabe come La corona di ferro. Non c'interessava la
significanza, quello che volevamo era vedere il cattivone mongolo con
le falci, Massimo Girotti mezzo nudo sugli alberi come Tarzan, Elisa
Cegani, «amica» storica di Blasetti, che faceva la principessa
malata nel letto ricoperta di mille veli. Blasetti poteva fare tutto,
anche girare una scena all'Arena di Verona, che in realtà doveva
sembrare il Colosseo, con le vergini cristiane a seno nudo perché
Mussolini gli lasciava fare tutto quello che voleva e poi si vedevano
che risultati!
• E i primi
incontri artistici?
Clara Calamai, prima
ancora che diventasse famosa, perché era la figlia del capostazione
di Prato. Mia madre era una maestra montessoriana e da Firenze tutti
i giorni prendeva il treno per andare a Prato, portandomi a volte con
sé. Ricordo questa stazioncina con l'aiuola di fiori che cambiava la
data ogni giorno, opera del padre di Clara che abitava con la
famiglia al piano di sopra. Una mattina alzai gli occhi, avevo sei o
sette anni, e la vidi, quindicenne e bellissima e dopo una delusione
d'amore andò a Roma, dove sul tram incontrò Gino Sensani,
grandissimo costumista che la portò a Cinecittà.
• Quali donne
della mitologia hollywoodiana l'hanno più influenzata?
Greta Garbo fu la prima:
era un'attrice capace di assorbire completamente i personaggi, come
la mia amata Marlene Dietrich, sia che facesse la puttana come ne La
signora delle camelie o una principessa ma anche quando
interpretava Anna Karenina, un'altra porcellona. Era una donna sempre
attenta a quello che faceva, basti ricordare che fu lei a portare
Pirandello al cinema, una scoperta che ho fatto leggendo la
corrispondenza fra Luigi Pirandello e Marta Abba, una grande attrice
che nessuno ricorda più ma che ho avuto la fortuna di ammirare a
teatro proprio in Come tu mi vuoi. Nel film la Garbo era
semplicemente magnifica, con dei vestiti meravigliosi fatti da
Adrian, quelli con una manica sì e una no, un orecchino sì e un no.
• A proposito di
abiti di scena, lei è accreditato come attore e costumista
nell'esordio alla regia di Franco Zeffirelli «Camping».
Sì, facevo i costumi
perché non c'erano soldi e anche una piccola comparsata nella scena
dove Marisa Allasio entra in Chiesa. La mia parte era quella del
prete e feci un piccolo tondo di cerotti da mettermi in testa per
darmi un'aria di santità, anche se dovevo pronunciare solo una
piccola battuta. Giravamo in un paesino di nome Poli, vicino a Roma e
mi alzavo alle quattro del mattino in una tenda rimediata oppure
nella saletta dietro l'osteria per preparare i vestiti di Marisa e
delle comparse. Tutto il film era girato in esterni, in condizioni
difficili però tutti lavoravamo, anche se malamente e a volte senza
prendere la paga, figuriamoci i contributi. Ci davano dei foglietti
con scritto «versamento in corso», «corso Garibaldi!» dicevo io
sicché io e Laura Betti avevamo delle pensioni bruttissime, per
questo sono costretto a lavorare ancora. Ma i film erano piccole
cose, ho fatto un film mediocre come Le due orfanelle ma
l'operatore era Anchise Brizzi, quello che l'anno prima aveva fatto
Otello con Orson Welles e le tre Desdemone. Su suo consiglio
andai in Marocco a visitare la fortezza spagnola dove avevano girato
alcune scene e la cisterna dove Orson ambientò i sotterranei del
castello e la scena del bagno turco. La povera Maria de Matteis,
eccellente costumista, era disperata durante le riprese perché non
c'erano i soldi per sdoganare gli abiti e così girarono tutti in
mutande. Che bellezza!
• Un'altra nota
curiosa della sua filmografia è la partecipazione a uno dei
primissimi film di Roberto Faenza, H2S, girato nel 1969 ma subito
sequestrato per poi ricomparire due anni dopo.
Era un film bizzarro, una
sorta di imitazione dei film inglesi sulle scuole pubbliche dove i
bambini a letto sognano la professoressa nuda, e io interpretavo una
malefica centenaria. Faenza l'ho rivisto di recente perché quel
diavolo di mio nipote Andrea, figlio di Lucia, ha composto delle
colonne sonore per i suoi ultimi film.
•Nel suo ultimo
film invece, «Le braghe del padrone» di Flavio Mogherini, il suo
ruolo era inizialmente destinato a Fred Astaire...
Era il 1978, mi ero
strappato le corde vocali e non potevo fare le mie tournée teatrali.
Così la mia amica Milena Vukotic mi chiamò all'ultimo momento
perché Fred Astaire era da poco finito sulla sedia a rotelle.
Insomma mi presero per ripiego anche perché costavo molto meno. Poi
non ho più fatto film ma frequentavo comunque, insieme a Laura
Betti, tutto il mondo del cinema romano, all'epoca ci si mescolava
tutti e si lavorava anche in radio e in tv.
•Tornando al
teatro, fu difficile emergere nell'intricatissima scena teatrale
italiana degli anni 50-60?
Non particolarmente, mi
sono sempre difeso con la scelta del repertorio e non facevo
concorrenza agli altri che mi lasciavano sopravvivere perché il mio
interesse artistico era o per una cosina curiosa del '700 francese o
per la «sotto-letteratura» come Carolina Invernizio. Nessuno poi
faceva bene le canzonette come le facevo io: le mie prime apparizioni
televisive furono infatti nell'operetta e negli sketch. Ne ricordo
con piacere uno con Sandra Mondaini, già pronta a sposare Vìanello
e infatti nel finale del nostro sketch diceva «Cattivo bambino, non
voglio più giocare con te! Raimondinoooo». Che brava che era,
carina, le ho voluto tanto bene però non potevo frequentarla dopo il
matrimonio, lui aveva una famiglia molto signorile, borghesuccia ed
in più lo trovavo insopportabile, invidioso, viveva nella perenne
gelosia di Ugo Tognazzi.
•Perché il
cinema è stata una semplice meteora nella sua carriera?Non ha nessun
rimpianto a proposito?
Il mio lavoro è dal
vivo, in mezzo alle persone, non esiste gioia più grande per me.
Osservo la gente all'inizio dei miei spettacoli e a volte noto
qualche volto stanco o incupito per una faticosa giornata lavorativa
ma a poco a poco nasce il sorriso e la gioia grazie a una mia battuta
o a una mia canzone e non c'è denaro che mi ripaghi di una cosa
così. Da giovane facevo il cinema come si facevano le marchette, per
soldi, e ho fatto anche tantissimi fotoromanzi: una volta ero a casa
di Zeffirelli e Franco non c'era, impegnato in America per delle
regie di opera lirica, così presi tutte le sue giacche e i suoi
completi perché mi facevano fare sempre il figlio dei ricchi insieme
Laura Tavanti, la moglie di Paolo Ferrari. Rimpianti? Nessuno, il
cinema è bello farlo se sei un regista poiché l'attore non conta:
in Torna a casa Lassie era più bravo il cane di Liz Taylor,
persino il cavallo di Gran premio era più espressivo della Taylor e
di Mickey Rooney. Ho rifiutato un ruolo in 8 e mezzo del mio
amico Federico Fellini e pure nel Pinocchio di Carmelo Bene:
mi offrì la parte di Lucignolo ma avevo i miei impegni teatrali.
Anni dopo ho fatto con Marco Messeri un Pinocchio per la Rai
ma io ero la Fata Turchina e Benigni, se era più intelligente,
pigliava me come Fata!
“alias – il
manifesto”, 19 gennaio 2013